Cerca nel blog

venerdì 28 dicembre 2012

Come è fatto il fiscal cliff


Gli eroi dei film di azione di Hollywood hanno sempre bisogno di arrivare a un istante dalla catastrofe per dimostrarsi veri intrepidi ed evitarla. Lo fanno anche i meno gloriosi politici dei palazzi Washington. Nell’estate del 2011 l’accordo al Congresso sull’innalzamento del tetto del debito pubblico arrivò il 31 luglio: senza un’intesa il Tesoro due giorni dopo non avrebbe potuto pagare i creditori degli Stati Uniti d’America. Il conto alla rovescia sull’indebitamento di Stato è già ripartito: il tetto del debito, oggi a 16.394 miliardi di dollari, sarà raggiunto il 31 dicembre e Timothy Geithner, il segretario al Tesoro, sta studiando le procedure di emergenza per gestire le casse della prima economia mondiale ancora per qualche settimana, nella speranza che entro marzo i membri del Congresso si mettano di nuovo d’accordo.
Le trattative potranno accelerare a gennaio. Adesso è un altro il timer che tiene in ansia l’America e il resto del mondo. I membri del Congresso hanno meno di 100 ore per trovare un accordo ed evitare che la nazione cada nel baratro fiscale – il "fiscal cliff" – dove ad aspettarla c’è una nuova recessione. Il tempo è letteralmente "contato" perché negli Stati Uniti molte leggi sono state introdotte in via temporanea, con una precisa scadenza. Il 31 dicembre scadono norme che prevedono circa 400 miliardi di agevolazioni fiscali e 100 miliardi di spesa pubblica. L’ufficio bilancio del Congresso, che è un organismo indipendente, prevede che queste brusche scadenze spingeranno l’economia americana di nuovo in recessione: se quest’anno il Prodotto interno lordo degli Stati Uniti crescerà del 3,1%, nel prossimo la caduta nel baratro si tradurrà in una discesa del Pil dell0 0,5%.
Concretamente le agevolazioni consistono in aiuti ai redditi medi e alti (il taglio alle tasse vale 221 miliardi di dollari), riduzione del 2% dell’aliquota dei contributi per i dipendenti (95 miliardi), agevolazioni per le imprese (65 miliardi). Senza un intervento, inoltre, scatterebbero aumenti di tassazione sugli investimenti finanziari e sui redditi alti (dai 125 mila dollari in su) per raccogliere 18 miliardi di dollari. Dal lato della spesa pubblica salterebbero 64 miliardi di spese (per metà riguardano la difesa, per l’altra metà i servizi, scuole comprese), i sussidi di emergenza per i disoccupati (per 26 miliardi) e gli aumenti di stipendio dei medici (dovranno rinunciare a 11 miliardi). Il tutto avrebbe un invidiabile risultato sul deficit degli Stati Uniti – il passivo del bilancio pubblicosarebbe quasi dimezzato, passando dai 1.128 miliardi di quest’anno (il 7,3% del Pil) ai 641 miliardi del 2013 – ma affosserebbe il Pil, riporterebbe la disoccupazione ben oltre il 9% (ora siamo sotto l’8%) e peggiorerebbe la crisi globale. Un rallentamento della prima economia del pianeta toglierebbe spazi di mercato alle esportazioni europee ed asiatiche, soffocando una ripresa che, per l’Italia e l’Europa, si prevede comunque apatica.
La "catastrofe" sarebbe graduale, perché gli effetti dei tagli di spesa o degli aumenti delle tasse si sentirebbero solo dopo qualche mese. Ma avremmo anche bruschi cataclismi privati: ad esempio gli assegni di emergenza ai disoccupati, in media da 250 dollari a settimana, sparirebbero già dal prossimo martedì. E nel dubbio sul loro effettivo reddito netto per l’anno prossimo molti cittadini hanno già ridotto le spese, mentre le aziende, nell’incertezza fiscale, tengono in sospeso gli investimenti. Wall Street si aspetta una soluzione, ma ora inizia a mostrarsi preoccupata davero (-1% ieri).
Barack Obama, tornato dalle Hawaii, ha chiamato i leader di repubblicani e democratici per spingere la trattativa. Vorrebbe un’intesa "minima", che rinnovasse tutti i tagli fiscali esclusi quelli per chi guadagna 250 mila dollari. John Boehner, repubblicano e presidente della Camera, aveva proposto ai compagni di partito una tetto a 500 mila dollari ottenendo un rifiuto. Larry Reid, leader dei democratici, ieri si è mostrato preoccupato. «Sembra che siamo diretti verso il "fiscal cliff"» ha detto col tono rassegnato di chi, prima di schivare il baratro, vuole aumentare ancora un po’ la suspense.

da Avvenire di oggi

mercoledì 26 dicembre 2012

Appunti sull'alta velocità cinese


Il treno ad alta velocità che collega Pechino a Guangzhou ha debuttato oggi. Percorre 2.298 chilometri in 8 ore, cioè a una velocità media di 287 chilometri orari (ma sarà qualcosa di più, considerate le fermate). Il treno che c'era prima - e che resta in funzione - ci metteva 21 ore. Il progetto è costato 4 mila miliardi di yuan (485 miliardi di euro, al cambio attuale) e ha impiegato 100 mila lavoratori. Un biglietto di seconda classe costa 865 yuan (105 euro). Oggi la  rete di alta velocità cinese è lunga 9.349 chilometri. I voli tra le due città durano 3 ore e 15 minuti.

lunedì 17 dicembre 2012

Il Portogallo vuole tagliare le tasse sul reddito d'impresa

Il governo portoghese ha chiesto alla Commissione europea di portare la sua tassa sul reddito di impresa (l'equivalente dell'Ires italiana, che è al 27,5%) dal 25 al 10% per le nuove aziende. L'idea è che abbassando le tasse si possono attrarre investimenti esteri. E' qualcosa di simile a quello fatto dall'Irlanda, dove la tassa sul reddito delle imprese è al 12%. Un'aliquota al 10 c'è solo a Cipro e in Bulgaria. La media europea è al 22%. Proposte del genere o che almeno vanno in questa direzione  al momento non hanno trovato spazio nei "programmi" dei principali schieramenti politici italiani.

sabato 15 dicembre 2012

La bad bank spagnola

La bad bank spagnola si  chiama Sareb e questa settimana ha raccolto i suoi primi investimenti: 430 milioni di euro da 5 banche spagnole. Le stesse banche dovrebbero metterci altri 1,3 miilardi. Il fondo pubblico di salvataggio delle banche, il Frob, contribuirà con altri 397 milioni..

venerdì 14 dicembre 2012

Pimco compra titoli italiani

Il fondo di investimento Pimco (la sigla sta per Pacific Investment Management) è il maggiore acquirente di bond del pianeta (ha asset per 559 miliardi di dollari in Europa). Sta comprando titoli di Stato di breve durata di Italia e Spagna, non quelli francesi, che rendono troppo poco. L'incertezza politica sull'Italia, spiega, "non ha colpito l'attrattività dei titoli pubblici italiani che maturano nei prossimi 3 anni". L'Italia prevede di raccogliere 410 miliardi di euro vendendo titoli di Stato nel 2013.

I nuovi aiuti alla Grecia

Con la decisione di ieri l'Eurogruppo presterà 49,1 miliardi alla grecia. Di questi 34,3 miliardi saranno pagati la prossima settimana. E di questi 16 serviranno a ricapitalizzare le banche, 7 per la spesa pubblica, 11,3 per comprare i titoli di Stato ricomprati con il buyback (i titoli ricomprati valevano 34,3 miliardi di debito). L'obiettivo è permettere ad Atene di portare il debito pubblico al 124% nel 2020 e al 110% nel 2022..

L'Italia ha bombardato la Libia

Visto che allora non lo si poteva dire, conviene dirlo, ora che si puó.

http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search&currentArticle=1OTVRZ

martedì 11 dicembre 2012

Le bocciature, ignorate, di Monti

La stampa italiana passa il tempo a parteggiare e quando cita la stampa straniera è per quasi sempre per confermare le tesi dell'editore. Ci fosse stata più sincerità non sarebbero stati solo Libero e il Giornale a far notare (perché stavolta a loro faceva comodo) che Wolfgang Munchau del Financial Times ha bocciato il governo Monti, che avrebbe potuto fare molto e invece in un anno ha fatto una riforma delle pensioni e una mezza riforma del lavoro. Domani forse nessuno citerà il Wall Street Journal, non nel passaggio in cui spiega che "la vera lezione è che l'Italia e il resto d'Europa hanno bisogno di una classe politica che sappia come generare un appoggio popolare per le riforme piuttosto che tentare costantemente di imporle dall'alto".

Il prezzo del petrolio a 50 dollari?

Il prezzo del Brent resta attorno ai 110 dollari al barile.Secondo Deutsche Bank l'anno prossimo la quotazione potrebbe crollare fino anche a 50 dollari. Secondo l'Aie la domanda mondiale salirà di 660 mila barili al giorno da qui al 2020, nel decennio terminato nel 2008 l'aumento medio annuo era di 1,3 milioni di barili. La spare capacity dell'Opec nel 2005 era di un milione di barili al giorno, circa l'1% della domanda. Nel 2011 è salita a 3,1 milioni (il 3,5%) e a 5,9 milioni nel 2017 (cioè il 6,4% della domanda globale). Con l'Iraq che potrebbe arrivare a produrre 4,2 milioni di barili al giorno dal 2015 e la sempre maggiore indipendenza energetica degli Usa (grazie allo shale gas) l'offerta di petrolio rischia di farsi di molto superiore alla domanda, provocando una caduta del prezzo.

lunedì 10 dicembre 2012

L'Olanda, il più europeo dei paradisi fiscali


Tra gli Stati-falchi che impongono l’austerità all’Unione Europea ce n’è uno che sembra schizofrenico. È l’Olanda, nazione tanto severa nel tassare i propri cittadini ed esigere il rigore dagli altri governi quanto tollerante con le multinazionali che la usano come base di partenza europea per trasferire in esotici paradisi fiscali i miliardi di euro incassati in Europa. Non ci sarebbe nulla di male, se la generosità fiscale degli olandesi non facesse perdere milioni di euro di entrate agli altri Stati dell’Unione.

In Italia la settimana scorsa si è parlato a lungo del caso di Google, che ha ricevuto una visita “fuori programma” della Finanza dopo che il racconto dei suoi complessi stratagemmi fiscali è arrivato alle orecchie del ministro Corrado Passera. Semplifichiamo: il motore di ricerca fattura in Irlanda i soldi della pubblicità venduta a clienti italiani, quindi sposta quasi tutti gli incassi nei Paesi Bassi pagando salate royalties alla sua controllata olandese e infine rimanda il denaro in Irlanda, a una holding di diritto irlandese basata però alle Bermuda. Alla fine del giro il denaro va ai Caraibi e lì si perdono le sue tracce. Google nel 2011 ha pagato appena 8 milioni di euro di tasse sui 12,5 miliardi fatturati in Europa.

Ma il motore di ricerca non è l’unico furbo in un mondo di ingenui. Applicano un sistema molto simile diverse aziende americane, e quasi tutti i colossi del Web, comprese Facebook, Apple, Amazon. Si è rivolta a commercialisti altrettanto abili anche Starbucks, la catena americana dei caffè che qualche giorno fa ha finito per arrendersi alle pressioni del fisco inglese accettando di pagare al Regno Unito 20 milioni di sterline. Dal 1998, anno in cui aveva aperto il suo primo caffè inglese, Starbucks aveva incassato 3 miliardi di sterline lasciando solo 8,6 milioni al fisco.

Colpisce, in tutte queste vicende di furbizie fiscali europee, come ci siano sempre di mezzo l’Irlanda e l’Olanda. Dublino fa meno scandalo perché la sua strategia è nota e più accettabile: arrivata agli anni Novanta come uno dei Paesi più poveri d’Europa, l’Irlanda è riuscita a catturare gli investimenti delle grandi aziende straniere applicando una tassazione bassissima sul reddito d’impresa (l’aliquota è al 12,5% contro il 31% italiano) e sul lavoro (il cuneo fiscale medio è del 15,2% contro il 35% della media europea). Il risultato è che diversi nuovi colossi americani hanno scelto di basare in Irlanda il loro quartier generale europeo, e lì hanno costruito uffici e assunto personale.

Nessuna multinazionale non olandese assumerebbe invece personale nei Paesi Bassi, dove le tasse sul lavoro e sul reddito di impresa non sono particolarmente convenienti. Le migliaia di società olandesi create da aziende straniere sono invece imprese fittizie, senza veri uffici e addetti, quasi sempre affidate a un “trust”, una fiduciaria. Sono società vuote, ma legali e molto diffuse. Hanno almeno una controllata finanziaria in Olanda 80 delle 100 aziende più grandi del mondo. Tra le tante multinazionali che hanno scelto Amsterdam come sede della propria attività europea ci sono Nike (che addirittura ha lì delle "cooperative"), Sun Microsystem, Ikea, Boeing, Disney, Prada, Gucci. È olandese anche Oilinvest, il fondo che raccoglieva i soldi della famiglia Gheddafi, e sarà olandese la nuova Fiat Industrial, dopo la fusione con la controllata Cnh.
Tutti vanno in Olanda perché lì c’è un ambiente fiscale che sembra pensato da un commercialista geniale. Per prima cosa le società olandesi non devono pagare tasse sui dividendi o sui profitti di capitale ottenuti all’estero da società controllate. Poi Amsterdam ha firmato una straordinaria quantità di patti fiscali con altre nazioni (circa un centinaio) per ridurre le ritenute alla fonte su dividendi, interessi e royalties (cioè diritti di proprietà intellettuale) incassati dall’estero. In particolare il patto firmato tra l’Olanda e l’Irlanda fissa l’aliquota a zero in tutti e tre i casi.

Gli accordi fiscali firmati negli anni dall’Olanda con ex colonie o attuali dipendenze esotiche – come l’isola di Aruba, a nord del Venezuela – consentono anche di trasferire denaro verso queste aree con una spesa minima, quando non gratis. Così convogliare ad Amsterdam i soldi rastrellati nel Vecchio Continente e da lì spedirli lontano dagli occhi del fisco europeo, magari ai Caraibi, consente enormi risparmi fiscali. I dati del Fondo monetario internazionale danno un’idea della dimensione di questo fenomeno: l’Olanda ha incassato nel 2011 3.327 miliardi di dollari di “investimenti” dall’estero, 200 miliardi in meno della somma degli investimenti diretti verso Cina e Stati Uniti.

Non è una recente furbizia ad avere reso l’Olanda così conveniente. I Paesi Bassi hanno sempre avuto un’economia basata sul commercio con l’estero. La Compagnia olandese delle Indie orientali, nata all’inizio del 600, è stata una delle prime multinazionali della storia. Evitare una doppia tassazione sui profitti che le società olandesi fanno all’estero è stata un esigenza antica e autentica, che però nel tempo si è trasformata in una cattiva abitudine. Già negli anni Ottanta andava di moda il cosiddetto “Dutch Sandwich” dei Gruppi nordamericani, che consisteva nel far girare i soldi dall’Olanda alle Antille Olandesi per schivare gli occhi del fisco. Quel panino troppo goloso è stato eliminato da Amsterdam - su pressione internazionale - negli anni Novanta. Ma quasi 15 anni dopo i “severi” Paesi Bassi sono ancora il porto franco che permette a tante multinazionali di mandare ai Caraibi i loro profitti europei lasciando a bocca asciutta gli agenti del fisco.
da Avvenire

sabato 8 dicembre 2012

Aston Martin e Bonomi

Scrive il Financial Times che per produrre una decente quantità di profitti la Aston Martin non può continuare a vendere 3 mila auto all'anno. Deve farne come minimo il doppio. Questa è la sfida di Andrea Bonomi e di Investindustrial.

lunedì 3 dicembre 2012

Il gas via nave attraversa l'Artico

La Russia fa sempre più fatica a vendere gas all'Europa, dove la crisi economica ha ridotto i consumi di 18 miliardi di metri cubi quest'anno. Le esportazioni russe e norvegesi puntano così sull'Asia. Martedì 4 dicembre la petroliera Ob River consegnerà gas al Giappone dopo avere attraversato l'Artico. Il viaggio è diventato economicamente sostenibile per tre ragioni: durante l'estate le navi ora riescono ad attraversare l'Artico, la domanda di materie prime dell'Asia è in forte aumento e, dopo il terremoto, Tokyo è in emergenza e quindi è disposto a pagare anche prezzi più alti. La spedizione di gas via nave costa 150 mila dollari al giorno in media, a novembre il prezzo è sceso a 105 mila dollari. Una compagnia che invia gas dai Mari del Nord all'Asia può risparmiare 3 milioni di dollari passando dall'Artico: non deve sostenere le spese doganali del canale di Suez o circumnavigare l'Africa.

Le dimensioni delle Sparkassen

I più accaniti oppositori dell'Unione bancaria in Germania sono le 423 Sparkassen, casse di risparmio pubbliche. Sono piccole banche: la maggiore ha attivi per 40 miliardi di euro, 100 delle Sparkassen più piccole non arrivano a bilanci di 1 miliardo. Tutte assieme, però, hanno un bilancio di 1.098 miliardi e siccome sono una rete vera considerarle come un'unica entità non è così assurdo. Fanno il 38% dei prestiti tedeschi e hanno il 37% dei depositi. Sono anche legate alle sette Lansebanken, le banche regionali (Lbbw, BayernLb, LbBerlin, Hsh Nordbank, Helaba, NordLb, SaarLb) che hanno 1.495 miliardi di asset ed è nel loro giro anche DekaBank, istituto da 134 miliardi di euro. Dicono che la Bce non può fare supervisione su di loro, perché non può capire il loro modo di lavorare.

giovedì 29 novembre 2012

Google, l'Irlanda, le tasse


La finanza ha avviato questo lunedì una verifica fiscale «extraprogramma» su Google Italy Srl. Vuole capire se la società paga le tasse dovute all’Italia. I manager dell’azienda dovevano aspettarselo. Esattamente una settimana prima Corrado Passera li aveva avvertiti. «C’è tanta gente che fa milioni di utili e fa lezione ogni giorno a tutti e poi viene fuori che non paga le tasse. Ma che diamine!» aveva detto il 19 novembre il ministro dello Sviluppo economico durante una tavola rotonda sulle <+corsivo>start up<+tondo> organizzata a Milano dalla Vodafone. «Bisognerebbe andare a prendere anche i tanti piccoli che evadono – aveva continuato il ministro –, ma ciascuna di queste aziende fa milioni di piccoli, quindi prima andiamo addosso a questi». Detto fatto.
L’indagine della finanza italiana è l’ultima puntata di una campagna giornalistica iniziata ormai due anni fa sulle pagine del quotidiano irlandese <+corsivo>Irish Times<+tondo> e arrivata da qualche settimana in Italia. Il meccanismo è complesso: Google è una società californiana che ha dato in licenza la sua attività pubblicitaria (dalla quale arrivano quasi tutte le sue entrate) alla controllata Google Ireland Holdings, società basata in Irlanda per ragioni fiscali (lì le tasse sugli utili sono al 12,5%) ma gestita dalle Bermuda, dove gli utili non sono tassati per niente. Google Ireland Holdings ha a sua volta dato questa attività in licenza a una società sempre del gruppo ma stavolta con sede in Olanda (dove certe audaci manovre fiscali sono permesse, a prezzi da concordare con l’autorità). La società olandese ha poi passato la licenza a Google Ireland Ltd, la vera base europea del gruppo, che raccoglie tutte le entrate della pubblicità venduta in Europa. Buona parte del denaro incassato da Google Ireland Ltd passa come royalty alla società olandese e quindi viene trasferito alle Bermuda. Col risultato che dei 12,5 miliardi di euro che Google ha fatturato nel 2011 attraverso la pubblicità venduta in Europa 9 miliardi sono andati in spese amministrative (comprese le royalty) e alla fine l’utile prima delle tasse si è fermato a 24 milioni di euro. Roba da media azienda.
Google Italy srl ha invece bilanci da piccola azienda: ha chiuso il 2011 con 40,7 milioni di euro di fatturato e utili per 3,3 milioni . All’Erario sono andati 1,8 milioni. Lo Stato incassa di più da un attaccante medio di serie A. Le cifre del bilancio sono uscite su un’inchiesta sul fisco dei colossi della Silicon Valley (sono organizzate più o meno come Google anche la Apple o Amazon) pubblicata sul magazine <+corsivo>Sette<+tondo> a metà novembre. Da quell’indagine giornalistica emerge che Google Italy Srl ha circa il 50% del mercato italiano della pubblicità on line, cioè un giro d’affari di 600 milioni di euro. Però è quasi tutto denaro fatturato direttamente in Irlanda, e quindi inserito in quel circolo che lo fa passare dall’Olanda e arrivare alle Bermuda.
Sollecitato a fare qualcosa proprio da uno dei giornalisti all’origine dell’inchiesta italiana Passera ha promesso che si sarebbe mosso. Tre giorni dopo Stefano Graziano, deputato del Pd, ha presentato un’interrogazione sulla vicenda alla commissione Finanze della Camera e ieri Vieri Ceriani, sottosegretario all’Economia, ha risposto annunciando l’indagine avviata dalla Finanza. In Francia, secondo indiscrezioni, il governo per un caso quasi identico ha chiesto alla società 1 miliardo di euro. L’esito delle verifiche italiane non è scontato: le cifre citate dal sottosegretario – 96 milioni di euro di Iva che Google non avrebbe pagato sui 240 milioni incassati in Italia tra il 2002 e il 2006 – si riferiscono una simile indagine completata dalla Finanza nel 2007 ma di cui ancora non si conosce il risultato definitivo. L’azienda è tranquilla: «Google – ha comunicato ieri – rispetta le leggi fiscali in tutti i Paesi in cui opera e siamo fiduciosi di rispettare anche la legge italiana. Continueremo a collaborare con le autorità competenti». Lo aveva ammesso lo stesso Passera: in queste aziende quando si tratta di fisco «sono veramente bravi, anche se non riesco a usare la parola bravi per chi evade le tasse...».
da Avvenire

martedì 27 novembre 2012

Le stime sul Pil italiano

Le previsioni sul  Pil dell'Italia, rispettivamente per il 2012 e il 2013:

Ocse:   -2,2 e -1%
Tesoro: -2,4% e -0,2%
Bankitalia: -2,4% e -0,7%
Commissione Ue: -2,3% e -0,5%
Fmi: -2,3% e -0,7%
Istat: -2,3% e -0,5%
Confindustria: -2,4% e -0,6%
Abi: -2,4% e -0,4%

Dietro la chiusura di Ft Deutschland


Il Financial Times Deutschland in 12 anni ha accumulato un passivo di 250 milioni di euro. Ultimamente diffondeva 102 mila copie, il 16% in meno rispetto a un anno fa. Di queste 46 mila erano distribuite da Lufthansa ai passeggeri, 46 mila andavano ad abbonati (quasi tutti studenti che avevano il giornale a prezzi ridotti o aziende che lo avevano gratis). Ha detto il direttore Steffen Klusmann: «Abbiamo trascurato internet, e non puntato sul giornalismo di qualità. Servono giornalisti preparati e indipendenti»

.

venerdì 23 novembre 2012

I numeri dei buoni pasto in Europa

"Edenred, (quotata a Parigi, nel 2011 ha emesso 15,2 miliardi di euro in buoni pasto), BuonChef (marchio di RistoChef di Milano, 70.000 esercizi affiliati in Italia); Ristomat (divisione di Compass Group Italia che a sua volta fa capo a Mediobanca); Sodexo (gruppo francese di servizi per aziende con un giro d'affari di oltre 16 miliardi di euro ad agosto del 2011) e Day Ristoservice servizi Buoni Pasto (società bolognese con un fatturato di oltre 442 milioni di euro al 2010, nata nel 1987 dall'alleanza tra il Gruppo Camst e il gruppo francese Chèque Déjeuner); e Bluticket, divisione buoni pasto del gruppo CirFood della galassia delle cooperative emiliane."
da Italia Oggi

giovedì 22 novembre 2012

Le assunzioni spagnole di Renault

Per assumere 1.300 nuovi operai nella fabbrica di Palencia alla quale affidare due nuove piattaforme la Renault ha ottenuto dai sindacati spagnoli: far lavorare gli operai nei giorni festivi, se necessario; una giornata lavorativa di 7 giorni; aumenti di salario inferiori all'inflazione; la possibilità di fare contratti di 18 mesi; stipendi dei nuovi assunti inferiori (di circa un quarto)  a quelli dei vecchi lavoratori. "Non gli chiediamo di essere competitivi rispetto ai cinesi o ali indiani - ha spiegato il ceo Carlo Tavares - ma di essere competitivi con la nostra attività in altre regioni". Con 2,4 milioni di auto costruite nel 2010 la Spagna è il secondo produttore d'Europa, dietro la Germania (5,9 milioni di auto) e davanti alla Francia (2,2 milioni).

Benzina e tasse - un aggiornamento


Certi italiani, probabilmente quelli che ci badano meno, alla fine dell’estate erano arrivati a pagare 2 euro per avere un litro di benzina. Tra fine agosto e inizio settembre applicavano questo prezzo strabiliante le stazioni di rifornimento più piccole, vecchie e rigorosamente senza il fai-da-te. Un pieno sotto i 2 euro al litro, in realtà, è sempre stato disponibile in ogni città d’Italia. In queste settimane chi dà un’occhiata attenta ai listini dei distributori prima di entrarci può trovare benzinai che vendono la verde a 1,7 euro al litro, o anche a meno, e il gasolio attorno agli 1,65 euro al litro.
Con la benzina funziona così: quando il prezzo sale fa molto rumore, quando scende se ne parla appena. Dalle rilevazioni del ministero dello Sviluppo economico – l’ultima è del 19 novembre – emerge che il prezzo medio della benzina negli ultimi tre mesi è sceso di 15 centesimi, da 1,89 a 1,74 euro al litro, quello del gasolio è calato della metà, da 1,78 a 1,70 euro al litro. Queste diminuzioni si spiegano con il miglioramento del cambio tra euro e dollaro e un calo delle quotazioni internazionali. Non tanto quelle del petrolio grezzo – il Brent europeo è sempre attorno ai 115 dollari al barile – quanto quelle del Platts, il mercato su cui si scambiano i prodotti raffinati. Su questa piattaforma il prezzo della benzina in euro è sceso dalla media di 67 centesimi al litro di agosto ai 55 centesimi attuali, quello del gasolio è passato da 68 a 63 centesimi al litro. Anche a guardare lo “stacco”, cioè la differenza tra il prezzo della benzina in Italia e la media europea, al netto delle tasse, la tendenza è positiva: sia per la benzina che per il gasolio siamo attorno ai 2,5 centesimi al litro, cioè sotto i 4 centesimi considerati “strutturali”.
Ma ne ha di strada da scendere, la benzina, prima di tornare a valori sensati. Nei 27 Stati dell’Unione europea la verde costa in media 1,61 euro al litro, il gasolio 1,46, cioè rispettivamente 15 e 24 centesimi in meno dei prezzi italiani, che sono entrambi al secondo posto nella classifica europea. Tutta colpa delle tasse, mostruosamente salite dal 2011 ad oggi fino a pesare più di 1 euro su un litro di benzina e 91 centesimi su un litro di gasolio. Nessun Paese della zona euro tassa i carburanti come l’Italia. Nell’intera Unione europea, e solo per l’effetto cambio, solo il fisco inglese è più esoso del nostro. L’ultimo aumento, subdolo, è nella legge di stabilità, con una norma che rende stabile il rincaro delle accise dicirca 4 centesimi al litro introdotto in agosto per finanziare la ricostruzione delle zone terremotate dell’Emilia. Doveva durare fino a fine anno, invece - come è successo fin dai tempi della guerra di Abissinia - resterà per sempre. In questo contesto l’unico che ci guadagna è lo Stato: nei primi 10 mesi dell’anno, calcolano dal Centro studi promotor, i consumi di carburanti sono scesi del 10% (a 32,8 miliardi di litri), la cifra spesa dagli italiani per fare il pieno è però aumentata del 6,9% (a 56,8 miliardi) e l’incasso dell’erario ha segnato un +15,5%, a 26 miliardi di euro.
I benzinai sono infuriati, ed è difficile non capirli. Già fanno un’attività a bassissimo margine, dato che guadagnano in media 3-5 centesimi ogni litro venduto (gli utili grossi, nella filiera del petrolio, si fanno ormai solo con i pozzi), adesso stretti tra le pressioni del fisco e quelli delle compagnie rischiano di fallire uno dopo l’altro. Non si oppongono al piano di riduzione della rete di distribuzione, troppo grande e costosa, ma non vogliono stare zitti mentre vengono soffocati. Ieri le organizzazioni dei gestori Faib Confesercenti, Fegica Cisl e Figisc/Anisa hanno annunciato che spegneranno le pompe dal 12 al 14 dicembre e per una settimana, a fine mese, non accetteranno i pagamenti con le carte di credito. Accusano il governo di non avere mantenuto le promesse fatte questa estate e le compagnie petrolifere di non rinnovare gli accordi collettivi. Il governo, per convincerli a rinunciare alla protesta, ha convocato un tavolo per il 4 dicembre. Un taglio di quelle tasse che pesano per più della metà di ogni pieno, però, sembra improbabile.
da Avvenire di oggi

I problemi del petrolio iracheno


La produzione di petrolio dell’Iraq, ha scritto l’Aie – l’Agenzia internazionale dell’energia – nel suo recente “Special Report” dedicato a Baghdad, raddoppierà in 8 anni: passerà dai 3,2 milioni di barili quotidiani di oggi a oltre 6 milioni di barili nel 2020. L’Aie – che cura gli interessi energetici dei Paesi dell’Ocse – non lo scrive, ma il governo iracheno due anni fa prevedeva per il 2020 una produzione di 12 milioni di barili al giorno. Non sorprende che i vecchi obiettivi siano stati così rapidamente abbandonati: con il passare degli anni l’Iraq sta regalando molte delusioni alle compagnie petrolifere.
Chi ha vinto la corsa all’oro nero iracheno iniziata subito dopo la fine della guerra sta valutando che fare con gli enormi giacimenti di quella terra, sotto la quale, secondo le stime più ottimistiche, riposano 200  miliardi di barili di greggio. I problemi emersi in questo decennio sono tanti. Le infrastrutture per trasportare e accumulare il greggio, che hanno avuto pochissimi investimenti negli anni di Saddam, sono in pessimo stato e migliorano troppo lentamente. Le leggi che regolano il settore petrolifero, basate sulla Costituzione del 2005, sono vaghe e si prestano a troppe interpretazioni diverse. La burocrazia è asfissiante e la corruzione impera: l’Iraq è al 175° posto tra le 182 nazioni nella classifica della corruzione preparata da Transparency International e secondo l’ultimo rapporto dell’ispettore generale speciale degli Stati Uniti per la ricostruzione ogni giorno 800 milioni di dollari lasciano l’Iraq illegalmente per essere nascosti all’estero.
«L’Iraq è un mondo meraviglioso per chi si occupa di idrocarburi, ma faccio un po’ fatica a dire che va tutto bene» ha ammesso Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, alla presentazione del rapporto dell’Aie. L’Eni in Iraq si è aggiudicata nel 2008 il giacimento di Zubair, il terzo più interessante del Paese dopo Rumaila, finito agli inglesi di British Petroleum, e West Qurna I, aggiudicato agli americani di ExxonMobil. Il manager veneto ha fatto capire che difficilmente l’azienda italiana parteciperà alle prossime aste organizzate dal governo di Baghdad: «Ci stiamo proprio ponendo la questione se insistere in un Paese che si è rivelato più complesso di quello che immaginavamo. Avessimo avuto  più soddisfazione dal duro lavoro nel Paese non ci porremmo il problema».
Exxon il problema se lo è già posto e lo ha anche risolto, decidendo di andarsene. La compagnia americana ha messo in vendita i suoi diritti su West Qurna – un progetto da 50 miliardi di euro – per potere investire senza problemi nella regione autonoma del Kurdistan, nel Nord del Paese. È stato il governo iracheno a spingerla ad andarsene: Baghdad infatti ha dato l’aut aut, chi fa contratti con il governo della regione autonoma (accordi illegali, secondo Baghdad) non potrà lavorare anche in Iraq. La questione, ovvio, verte sui soldi. Il governo autonomo del Kurdistan vuole che le royalties del petrolio trovato sui suoi giacimenti vadano alla sua gente, Baghdad invece ha scritto nella Costituzione che il denaro del petrolio va diviso tra tutta la popolazione irachena. Con 23 trivellazioni in corso e 50 contratti già firmati tra le compagnie e il governo autonomo l’area del Kurdistan è una delle più promettenti del mondo: l’obiettivo è portare la produzione a 1 milione di barili nel 2014 e a 2 nel 2019. A settembre i due governi avevano trovato un accordo: il Kurdistan avrebbe prodotto 200 mila barili al giorno da ottobre in cambio di mille miliardi di dinari (circa 670 milioni di euro). Poche settimane dopo il pagamento dei primi 650 miliardi, però, Baghdad ha accusato i curdi di non essere in grado di mantenere la produzione al livello concordato, ha annullato l’intesa e ha dato il suo aut aut.
Exxon, che pure aveva in Iraq un giacimento colossale, ha scelto i curdi; poco dopo l’ha seguita anche Chevron. Total potrebbe farlo presto. Il fatto è che il governo del Kurdistan offre contratti molto più redditizi di quello di Baghdad. Eni non ha intenzione di muoversi, almeno per ora. La fuga degli occidentali in Kurdistan lascia spazio a compagnie asiatiche in cerca di fortuna in Iraq: in corsa per il giacimento che Exxon lascerà ci sono la russa Lukoil, che già ha West Qurna II, e la cinese Cnooc, che in Iraq ha un giacimento di media grandezza. E l’ultima asta per le esplorazioni organizzata da Baghdad si è conclusa con la vittoria delle russe Lukoil e Bashfnet, della Pakistan Petroleum e della Kuwait Energy. Compagnie di seconda fascia, con tecnologie non all’altezza di quelle dei rivali americani ed europei, e quindi meno capaci di sfruttare i giacimenti iracheni. A forza di burocrazia, liti internee corruzione, l’Iraq rischia così di perdere clamorosamente la scommessa più importante e più facile, quella sull’oro nero, da cui arrivano il 95% delle entrate del Paese.
da Avvenire di oggi

martedì 20 novembre 2012

La febbre delle banche italiane

Alcuni dei numeri dell'ultimo rapporto Moneta e Banche della Banca d'Italia:

  • Nei primi 9 mesi del 2012 il credito delle imprese è diminuito di 38 miliardi di euro, cioè del 4,2%, in confronto con un anno fa.
  • I depositi in banca valgono 2.340 miliardi, i prestiti concessi 2.860 miliardi.
  • Le prime 33 banche devono trovare 78 miliardi di euro per rimborsare i bond che scadono il prossimo anno.
  • Le prime 4 banche italiane hanno crediti deteriorati per 166 miliardi di euro

lunedì 19 novembre 2012

I problemi di Desertec

Il progetto Desertec, quello che prevede di produrre energia elettrica con centrali solari nell'Africa del Nord, perde pezzi. A fine ottobre è uscita Siemens, poi ha lasciato anche Bosch. Costi troppo alti e progetti troppo rischiosi, dicono. La Spagna, poi, non ha firmato il progetto di connessione della rete elettrica con il Marocco. A tre anni dall'avvio del progetto ancora non è stato realizzato nulla.

sabato 17 novembre 2012

Wind Jet contro Alitalia


Agli inizi di agosto, quando dopo 7 mesi di negoziato la trattativa per la fusione di Wind Jet in Alitalia stava per fallire, i dirigenti del vettore siciliano hanno tirato fuori la loro verità: l’ex compagnia di bandiera, dicevano, da mesi stava sostanzialmente gestendo la società di Antonino Pulvirenti, per questo adesso non poteva fare saltare il tavolo e lasciarla fallire. Invece il tavolo è saltato davvero e il 13 agosto Wind Jet ha smesso di volare lasciando a terra 300 mila passeggeri.
Nella concitazione di quei giorni questa versione dei fatti è rimasta in secondo piano. Torna d’attualità adesso perché qualche giorno fa – come ha rivelato ieri il quotidiano La Sicilia e come è stato confermato dal vettore siciliano – Wind Jet ha consegnato al Tribunale di Catania un atto di citazione in cui spiega la vicenda nei dettagli e finisce col chiedere ad Alitalia 162,5 milioni di danni. La cronaca di questa trattativa ha dettagli che, se fossero confermati, sarebbero stupefacenti: manager di Alitalia che usavano delle email non aziendali per inviare ai colleghi di Wind Jet le indicazioni sulle strategie commerciali da adottare, si firmavano con dei soprannomi e chiedevano di cancellare i messaggi una volta letti. In questi testi inusuali, sostiene Wind Jet, c’erano istruzioni cruciali per la gestione della compagnia: prezzi, rotte, numero di posti da offrire, chiusure di rapporti contrattuali con i fornitori. Addirittura l’assunzione di 6 piloti di Alitalia al posto di 6 colleghi di Wind Jet a cui scadeva il contratto. I manager siciliani si sono fidati, ritenendo che adeguarsi fosse comunque utile visto che la trattativa sembrava destinata a una sicura intesa. L’accordo invece non arriverà: il 26 luglio l’Antitrust pone per la chiusura dell’operazione condizioni che Alitalia giudica troppo costose, la trattativa si guasta e a inizio agosto salta definitivamente. A Wind Jet sembrano convinti che fosse tutta una strategia per farli fallire e quindi rubargli i passeggeri. Nel documento consegnato ai giudici parlano di «concorrenza sleale per annientamento».
È per capire cosa sia successo davvero che lo scorso 7 novembre gli agenti della Guardia di Finanza sono andati nel quartier generale di Alitalia per ritirare alcuni documenti. Le fiamme gialle hanno perquisito anche gli uffici di Wind Jet, in un’indagine parallela, sempre al Tribunale di Catania, sulla contabilità dell’azienda di Pulvirenti. Alitalia comunica di non avere ricevuto nessun ricorso, giudica «completamente prive di fondamento le tesi di Wind Jet e comunque confida nella magistratura per un accertamento della correttezza del suo operato».
Nell’aeroporto Fontanarossa di Catania – il primo della Sicilia e la base della vecchia Wind Jet (che con i suoi 3 milioni di passeggeri aveva un quarto del mercato aereo siciliano e un terzo di quello dell’area catanese) – lo spazio vuoto lasciato dal vettore locale è già stato quasi tutto riempito. Il vettore sardo Meridiana ha aperto rotte su Torino, Verona, Bologna e Napoli e aumentato i voli su Milano e Roma (le tratte più preziose). Alitalia ha potenziato le rotte per Roma e Linate e ha fatto di Catania la quarta base di Air One, con due Airbus A320 che da qualche settimana la collegano anche a Torino, Verona e Venezia. Air One ha anche aumentato i voli sulle vecchie destinazioni di Pisa e Malpensa. I dirigenti dell’aeroporto catanese sperano di riuscire a portare al Fontanafredda qualche vettore low cost che porti più concorrenza nei voli su Roma.
da Avvenire di oggi

venerdì 16 novembre 2012

Il mercato aereo della Sicilia orientale


Se Wind Jet è una compagnia aerea mezza fallita non è perché le mancavano i passeggeri. Quello che mancava all'azienda di Antonino Pulvirenti è piuttosto quello che attualmente manca a tutte le altre compagnie aeree italiane: la capacità di chiudere i bilanci in attivo. I passeggeri non sono il problema,
perché quelli abbondano: sono stati 148 milioni nel 2011, il 6,4% in più di quelli del 2010. Anche nella prima metà di un anno difficile come questo 2012 il traffico aereo italiano non è diminuito: 69 milioni di passeggeri
tra gennaio e giugno, lo 0,2% in più rispetto a un anno fa. Con i suoi 3 milioni di passeggeri all'anno Wind Jet si era guadagnata una quota ridotta  del mercato nazionale, ma una fetta importante di un'area preziosa come
la Sicilia, che vale più di 13 milioni di passeggeri. L'aeroporto Fontanarossa di Catania, che era la base di Wind Jet, con i suoi 6,7 milioni di passeggeri è il 6° più trafficato di Italia. Palermo, con 5 milioni di passeggeri, è il 9°, mentre si sta facendo spazio Trapani: la base siciliana di Ryanair nel 2011 ha raggiunto gli 1,5 milioni di passeggeri. Adesso che la compagnia di Pulvirenti ha mandato gli aerei chissà dove per proteggerli dalle ambizioni dei creditori, i vettori rivali hanno l'opportunità di andare a riempire lo spazio rimasto vuoto, che vale più o meno 2 milioni di passeggeri.
Le rotte più preziose sono Catania-Roma (1,8 milioni di passeggeri nel 2011), Catania-Milano e Palermo-Roma (entrambe 1,5 milioni di passeggeri) e Palermo-Milano (1 milione). In tutti e quattro i casi è Alitalia a dominare il mercato, con quote che vanno da un minimo del 40 a un massimo del 58%. Non è un caso che l'Antitrust abbia chiesto pesanti rinunce alla ex compagnia di bandiera nel suo progetto di assorbimento di Wind Jet: nei casi migliori l'operazione avrebbe dato ad Alitalia il 65% del mercato di una tratta, ma ci sono rotte (come la preziosa Palermo-Linate) dove la ex compagnia di bandiera avrebbe avuto il 98%. L'altro 2% sarebbe rimasto a Meridiana. E infatti proprio la compagnia dell'Aga Kahn è in prima fila per coprire
lo spazio lasciato vuoto da Wind Jet.
Ma ci sono gruppi molto più potenti che potrebbero cogliere l'occasione di raccogliere altro denaro in Sicilia. Sono le famigerate regine del "low cost", che spaventano molto Vito Riggio, il presidente dell'Enac, ma riescono a offrire voli a prezzi contenuti combinandoli a bilanci in attivo. Ryanair, diventata la più grande compagnia aerea d'Europa, in questo momento raggiunge solo la Sicilia occidentale: 30 rotte da Trapani e 12 da Palermo. Il vettore irlandese potrebbe essere interessato a volare anche su Catania, per allargarsi alla Sicilia orientale. Il problema è che nel modello di business di Ryanair è quasi sempre previsto che lo scalo raggiunto dalla compagnia low cost "contribuisca" alle spese.
È un modo di gestire una linea aerea che funziona bene dove gli aeroporti non hanno traffico e, per le esigenze turistiche degli enti locali, che sono anche i loro azionisti, hanno bisogno di attirare passeggeri. Ma questo non è il caso di Catania e Palermo, che sembrano avere già un loro traffico "naturale". Stephen McNamara, portavoce della compagnia irlandese, è possibilista: «Il nostro scheduling (orario, ndr) invernale è ormai completo, continueremo a lavorare con gli aeroporti siciliani per discutere di crescita». L'altra
grande low cost, l'inglese easyJet, funziona diversamente: non chiede soldi agli aeroporti e predilige gli scali principali. In Sicilia ha già una presenza solida: ha il 28% del mercato sulla Palermo-Milano, il 19% sulla Catania-Milano, il 17% sulla Palermo-Roma. Contattata per verificare il suo interesse, easyJet non ha risposto. Ma all'Antitrust il vettore inglese aveva spiegato che le sarebbe interessato aprire rotte da Catania verso Bologna, Pisa, Venezia e Torino, tratte "minori" che valgono tutte assieme un po' meno di un milione di passeggeri e sulle quali, salvo Bologna, un'alleanza tra Alitalia e WindJet avrebbe creato una situazione di monopolio.
Per ora, comunque, gli slot di Wind Jet, cioè i diritti di decollo e atterraggio collegati a determinati orari, sono ancora in mano alla compagnia di Pulvirenti che evidentemente spera di venderli prima che, fra 6 mesi, cadano per il mancato uso e tornino in gioco. Quelli su Linate, in particolare, sono molto preziosi, perché l'aeroporto di Milano è "pieno" e quindi chiuso a qualsiasi nuovo ingresso. Chi riuscisse a comprare quegli potrebbe garantirsi molto del traffico lasciato "orfano" dalla compagnia.
               
da Avvenire del 19 agosto 2012
                                                                     

giovedì 8 novembre 2012

Il petrolio iracheno delude. Piace il Kurdistan

Il petrolio iracheno si sta rivelando una delusione per le compagnie occidentali. Non tanto per i risultati delle esplorazioni (che sono ottimi, con la produzione che secondo la Iea potrebbe raddoppiare in 8 anni) quanto per le complicazioni burocratiche. "Se avessimo avuto piu' soddisfazione dal nostro duro lavoro, non ci porremmo nemmeno il tema, perché offrirci per West Qurna o per Nassiriya sarebbe stato una scelta ovvia, ma ci stiamo domandando se aumentare il nostro impegno in un Paese si è rivelato più complesso di quello che immaginavamo" ha detto qualche giorno fa l'Ad dell'Eni Paolo Scaroni. Ed è notizia di ieri che la Exxon è in cerca di qualcuno a cui vendere la sua fetta del progetto West Qurna-1 (un giacimento da 400 mila barili al giorno) lamentandosi di condizioni contrattuali poco favorevoli e infrastrutture pessime. Exxon preferisce lavorare in Kurdistan (e Baghdad, che non riconosce quel Paese, non permette di lavorare sui suoi giacimenti a chi collabora con il Kurdistan). I curdi (che oggi producono 100 mila barili al giorno ma possono crescere a 175 mila già quest'anno) rischiano di portare via agli iracheni parecchi compagnie. Si mormora di Chevron e della stessa Eni. Anche i turchi di Tpao sono stati allontanati dall'Iraq perché la Turchia sta stringendo legami troppo stretti con i curdi.

mercoledì 7 novembre 2012

Gli utili della Kfw per cancellare il debito pubblico tedesco

La coalizione cristiano-liberale che governa sulla Germania sta valutando se usare la Kreditanstalt fur Wiedeaufbau (la KfW, la Cassa depositi e prestiti tedesca) per acquistare debito pubblico. L'idea, su cui secondo il Foglio ci sarebbe già un accordo, è quella di considerare come entrate gli utili della KfW (2,6 miliardi nel 2011). Visto che i conti della Kfw non rientrano nella contabilità nazionale questa mossa farebbe sparire dai conti tedeschi fette di debito pubblico. . 

La crisi della stampa tedesca

La Germania è uno dei paesi europei con il più alto tasso di lettura di libri e giornali. Italia Oggi racconta che le cose stanno però cambiando anche lì: nel 2002 si vendevano 27,5 milioni di quotidiani al giorno, nel 2007 la cifra è scesa a 24,2 milioni e nel 2011 a 21,8. La stima per il primo semestre dell'anno è una perdita di altre 600 mila copie. La tiratura del Bild è passata dai 4 milioni di copie del 2009 ai 3,5 milioni attuali. Lo Spiegel ha ridotto le vendite del 7%, a 262 mila copie.

Il petrolio rischia un brusco calo dei prezzi

Secondo la Us Energy Information Administration la produzione di petrolio degli Stati Uniti raggiungerà gli 11,7 milioni di barili al giorno entro la fine del 2013. Sarebbe l'8,5% in più rispetto ad ora, così gli Usa avrebbero una capacità petrolifera quotidiana vicina a quella dell'Arabia Saudita (che è in grado di produrre 12 milioni di barili al giorno ma oggi ne produce solo 10). Il solo North Dakota produce 700 mila barili al giorno, cioè più dei 500 mila dell'Ecuador e poco meno dei 750 mila barili del Qatar. Come risultato la quota di importazioni sul totale del consumo petrolifero americano l'anno prossimo scenderà sotto il 40% per la prima volta dal 1991. Sono problemi per il cartello dell'Opec, che produce 31 milioni di barili al giorno e vedrà ridursi significativamente la domanda di greggio degli Stati Uniti. L'Opec soffre anche perché la Russia - che non ha intenzione di entrare nel cartello - sta producendo 10,5 milioni di barili al giorno, il 2% in più rispetto a un anno fa e il massimo dagli anni '80.
Leonardo Maugeri, ex manager del'Eni esperto di petrolio, il prezzo del greggio va verso un brusco calo: "In assenza di crisi vere - ad esempio una guerra nel gofo persico o una improvvisa e simultanea interruzione della produzione in diversi paesi produttori -le forze che muovono il mercato petrolifero puntano a un significativo calo dei prezzi".

Solare, nuova crisi in vista

In cinque anni la capitalizzazione complessiva dei primi 5 gruppi mondiali del solare è crollata del 90%. Molte compagnie sono già fallite. "Se c'era qualcosa di sbagliato da fare, l'industria l'ha fatto, dalla sovrapacità al basarsi sui sussidi governativi" (Ft). Secondo le previsioni di Bernstein il prossimo anno il costo per Watt dell'energia solare potrebbe scendere dagli attuali 1,23 dollari ben sotto il dollaro. Un prezzo che renderà questa energia più conveniente del gas nelle zone più assolate della Cina (ma comunque il prezzo per Watt è del 50% superiore a quello del petrolio) ma che porterà al fallimento chi non riesce a stare dietro a certi prezzi.

I mostruosi margini sull'iPad Mini

Questo ottimo schema del Wsj basato su dati Ihs illustra con precisione i costi di produzione del nuovo iPad mini e di 2 prodotti concorrenti. Apple su ogni iPad mini venduto fa un margine del 43%: dei 329 dollari del modello base, 141 sono utili della casa produttrice (presumibilmente con il cambio euro-dollaro vicino a 1,3 l'utile realizzato in Europa è superiore di un 20-30%). La Microsoft conta di fare ancora più profitti con Surface (il margine è del 55%), mentre sul Kindle Fire della Amazon il margine è ridottissimo (17%). Sui modelli più costosi dell'iPad mini il margine cresce: 278 dollari sul modello da 429 dollari (il 32 giga, margine del 65%) e 350 dollari su quello da 529 dollari (il 64 giga, margine del 66%). Considerando che alla conference call del 25 ottobre Peter Oppenheimer, responsabile finanziario del gruppo, ha ammesso che i margini offerti dell'iPad mini sono "significativamente inferiori alla media del gruppo" ci si può rendere conto di come la Apple possa chiudere i bilanci con risultati mostruosamente enormi.



martedì 6 novembre 2012

Apple perde quota nei tablet

L'ultima indagine di Idc dice che la quota di mercato di Apple nei tablet è scesa dal 59,7% di un anno fa al 50,4% dell'ultimo trimestre estivo. Quella di Samsung è salita dal 6,5 al 18,4%. Amazon ha conquistato il 9% del mercato.Asus, con il Nexus 7, è aumentata dal 3,8 all'8,6%.

La brutta crisi della Volvo cinese

Nella prima metà del 2012 la Volvo - acquistata dal 2010 da Zhejian Geely Holding Group - ha perso 254 milioni di corone svedesi (38 milioni di dollari). Le vendite non vanno: nei primi 10 mesi dell'anno sono scese del 5,9% a livello globale, del 10,6% in Europa e del 7,3% in Cina. A ottobre le immatricolazioni sono state 34.843. Le fabbriche di Gent e Torslanda lavorano a ritmi ridotti.

giovedì 1 novembre 2012

Anche per General Motors il problema è l'Europa

General Motors ha perso 478 milioni di dollari in Europa tra luglio e settembre. Le previsioni sono di chiudere il bilancio europeo con una perdita tra gli 1,5 e gli 1,8 miliardi di dollari (l'anno scorso il rosso fu di 747 milioni). Durante il terzo trimestre Opel e i suoi concessionari sono riusciti a ridurre gli inventari di 100 mila auto rallentando la produzione e spingendo le vendite. Opel ha anche tagliato 2.300 posti di lavoro. L'obiettivo è tornare a fare utili tra il 2014 e il 2016.

mercoledì 31 ottobre 2012

La tassa di successione negli Stati Uniti

La tassa di successione negli Stati Uniti attualmente prevede un'aliquota del 35% sulle eredità, ma solo sui valori da 5 milioni di dollari in su. Questa soluzione è frutto di un accordo del 2010 tra democratici e repubblicani. Quello stesso accordo prevede che la tassa - quasi eliminata da Bush - ritorni al 55% l'anno prossimo mentre la soglia minima nel frattempo scenderebbe a 1 milione. Non succederà: Romney vuole cancellare la tassa di successione mentre Obama ora propone un'aliquota del 45% dai 3,5 milioni in su. Nel 2011 questa tassa ha generato entrate da 7,4 miliardi di dollari, quest'anno dovrebbe arrivare a 11 miliardi.

martedì 30 ottobre 2012

Perché i mutui diventano impossibili

Pagina allarmata sui mutui, sul Sole di oggi. Le banche fanno di tutto per non concedere più mutui: tengono gli spread al 3%, alzano dal 30 al 40% la quota rata/reddito massima, tagliano dal 100 al 70% il rapporto massimo tra mutuo e valore dell'abitazione. Perché lo fanno? Il Sole non risponde. Ci provo con un'ipotesi banale: prima di tornare a fare prestiti a chi vuole comprarsi una casa, aspettano di capire fin dove dovranno scendere i valori degli immobili. Perché l'impressione è che tra Imu, demografia e calo dei redditi sul mattone ci sia ancora da tagliare parecchio (20-30-40?).

venerdì 26 ottobre 2012

L'auto in ritirata.

La selezione naturale delle fabbriche d’auto europee procede inesorabile. Ford ha annunciato che chiuderà entro la fine del 2014 lo stabilimento di Genk, in Bel­gio, dove oggi con 4.300 addetti costruisce la Mondeo, il Galaxy e il S-Max. Fra due anni questi veicoli finiranno fuori produzione, Ford ha deciso di affidare la costruzione dei nuovi modelli alla fabbrica spagnola di Valencia, do­ve produce la monovolume C-Max con 3.500 operai che, secondo i calcoli degli analisti, co­stano il 75% in meno dei loro colleghi belgi. Il mercato dell’auto europea vive una crisi strut­turale, lo stabilimento spagnolo lavora al 50-60% della sua capacità produttiva. Con i nuo­vi modelli potrà raggiungere quell’80% con­siderato la soglia minima per non lavorare in perdita. La Ford, come la Fiat, oggi perde sol­di in Europa e li guadagna altrove. A Detroit prevedono di chiudere il 2012 con 9 miliardi di dollari di utili. Sarebbero stati 10, ma l’atti­vità europea farà un rosso di 1 miliardo. A o­gni auto costruita nel Vecchio Continente, spiegano i manager, corrisponde una perdita di 1.125 euro; abbandonare il Belgio costerà 1,1 miliardi di dollari ma permetterà di ri­sparmiare ogni anno 730 milioni. Probabil­mente giovedì annunceranno anche la chiu­sura della fabbrica inglese di Southampton, 500 dipendenti.
Quella di Genk, aperta nel 1964, è la quinta fabbrica europea di automobili di cui è stata pianificata la chiusura negli ultimi due anni. La General Motors nel 2010 ha chiuso lo sta­bilimento di Anversa, ancora in Belgio, e pro­getta di fermare nel 2014 la fabbrica tedesca di Bo­chum. L’anno scorso Fiat ha lasciato Termini Ime­rese. Psa, cioè il gruppo Peugeot-Citroën, ha an­nunciato che interrom­perà la produzione ad Aulnay, a una manciata di chilometri da Parigi.
Quest’ultima chiusura però potrebbe essere e­vitata grazie all’intervento dello Stato. Psa è in profonda crisi (in 6 mesi ha perso 819 milio­ni di euro) e ieri, oltre ad annunciare una rafforzamento dell’alleanza con General Mo­tors, ha ufficialmente ottenuto l’aiuto forma­le del governo francese. Lo Stato concederà 7 miliardi di euro di garanzie e 11,5 miliardi di rifinanziamenti al Banque Psa Finance, l’isti­tuto con cui la casa automobilistica finanzia gli acquisti delle sue auto. La banca della Peu­geot all’inizio del mese è stata declassata da Moody’s al livello di 'spazzatura', e senza aiu­ti rischiava di rimanere a corto di liquidità. Il sostegno statale non è gratis: prestiti e garan­zie sono a pagamento, inoltre l’azienda non potrà distribuire dividendi né pagare stock option ai manager e ha dovuto accettare l’in­gresso di un rappresentante dello Stato e di u­no dei sindacati nel suo consiglio di sorveglianza. Probabilmente anche il piano di tagli e chiusure annunciato in estate (gli esuberi previsti sono 10 mila) dovrà essere am­morbidito. Arnaud Mon­tebourg, ministro dello Sviluppo economico di Hollande, lo ha chiesto esplicitamente.
Attenzione, però, perché anche l’auto euro­pea ha i suoi falchi. Falchi, come al solito, te­deschi. David McAllister, primo ministro del­lo Stato della Bassa Sassonia, azionista di Volk­swagen con una quota del 20%, ha già invita­to il governo di Berlino a chiedere alla Com­missione europea di verificare se quelli previ­sti dal piano francese non siano aiuti di Stato illegali. Mentre tutte le case automobilistiche europee sono più o meno in difficoltà Volk­swagen, Mercedes e Bmw sanno come resi­stere. Ieri Volkswagen ha mostrato i conti dei primi 9 mesi: ha fatto 8,8 miliardi di utili, po­co meno di un anno fa, ma conta di chiudere l’anno con 11,3 miliardi di profitti. Fiat-Chry­sler, che presenterà i suoi risultati martedì, nel 2012 potrebbe fare utili per 1,1 miliardi. Die­ci volte meno. Più forti degli altri, i tedeschi comprensibilmente non vogliono che i loro rivali europei in difficoltà siano aiutati. È il mercato. Sergio Marchionne come presiden­te di turno dell’Acea, l’associazione dei pro­duttori europei, ha tentato di ottenere Bruxel­les un piano di sostegno che aiuti il settore a ridurre la capacità produttiva (ad esempio a­gevolazioni per riconvertire le fabbriche), ma Volkswagen è intervenuta per fermarlo. Così, senza una strategia comune, ogni Paese del­l’Unione europea ora va per la sua strada nel­la gestione della crisi dell’auto. E ai manager costretti a chiudere fabbriche rimaste senza mercato tocca sorbirsi le periodiche lezioni di Martin Winterkorn, il numero uno di Volk­swagen. Ieri, in occasione dei conti, il tema è stato 'perché non delocalizzare': «Dove scom­pare la produzione – ha ricordato a tutti il ma­nager tedesco – scompare, a breve o lungo ter­mine, anche lo sviluppo». 

da Avvenire

martedì 23 ottobre 2012

Hyundai anche in Brasil

"Chi sono i concorrenti più pericolosi? La risposta del manager tedesco è netta: «Più dei cinesi, mi preoccupano i coreani». Hyundai ha per ora una quota di mercato dell'1,5%, ma la sua fabbrica a Piracicaba, nella regione di San Paolo, è appena entrata in funzione: la casa coreana punta a produrre 150mila unità l'anno prossimo, con un modello di business particolare: la rete commerciale dei modelli prodotti qui (con la sigla HB, Hyundai Brasil) sarà completamente separata da quelli importati".
Martin Winterkorn di Voliswagen al Sole24Ore

lunedì 22 ottobre 2012

Qualche cifra sugli insegnanti italiani


Secondo i calcoli dell'Ocse gli insegnanti italiani lavorano meno della media dell'area in tutte le classi: 12 ore all'anno in meno alle elementari, 74 in meno alle media, 28 in meno alle superiori. Hanno anche meno studenti degli altri (soprattutto alle elementari) ma in rapporto al compenso di un lavoratore laureato prendono anche stipendi molto più bassi della media Ocse, (e soprattutto al liceo).




giovedì 18 ottobre 2012

La svalutazione del cacaco

I prezzi dei futures sul cacao sono scesi dell'11% dalla fine di agosto. Ora la quotazione è di 1.514 sterline per tonnellata. Di solito il cacaco non è considerato un prodotto ciclico: la gente non risparmia sul cioccolato. Questa caduta potrebbe dimostrare il contrario. Tra gli investitori c'è il sospetto però che le scommesse al ribasso siano eccessive, e quindi il prezzo risalirà con l'avvicinarsi delle feste natalizie.
dal Wsj

mercoledì 17 ottobre 2012

Gli investimenti dei sistemi automatici

Più di 35 anni fa Thomas Peterffy, un immigrato ungherese negli Stati Uniti, assumeva 80 programmatori per scrivere software che riuscissero a trovare profitti sui mercati finanziari più rapidamente degli esseri umani. (la storia qui)
Il lunedì nero di Wall Street - il 19 ottobre del 1987 - mostrò al mondo i rischi del trading computerizzato: i sistemi automatici mandarono Wall Street sotto del 25%.
Recenti casi di anomalie causate dai computer: la collocazione di Facebook rimandata, il flash crash di maggio 2010, quando in pochi minuti le borse bruciarono 860 miliardi di dollari. Dopo quel caso la Sec ha chiesto di creare dei "circuit breakers" in grado di fermare i sistemi automatici quando la situazione va fuori controllo.
In agosto Knight Capital, tra i più grandi fondi attivi a Wall Street, ha rischiato il collasso perché un errore in un codice ha spinto il suo sistema automatico a ripetere in continuazione le stesse operazioni: l'errore ha fatto perdere al fondo 440 milioni in 45 minuti. 
dal Ft

Capitali in fuga dalla Cina?

Secondo un'analisi del Wsj negli ultimi 12 mesi sono usciti dalla Cina 225 miliardi di dollari, cioè il 3% della ricchezza prodotta dal Paese nel 2011. Assomiglia a una fuga di capitali. In teoria un singolo individuo cinese non può portare fuori dal Paese più di 50 mila dollari, mentre le aziende possono scambiare yuan con valute straniere solo per determinati (e autorizzati) affari. In realtà il sistema è molto poroso e le regole sono spesso ignorate. Con questa tendenza in Cina rimangono meno soldi per sostenere la crescita.

Il fondo sovrano dell'Angola

Anche l'Angola si è fatta il suo fondo sovrano, il Fundo Soberano de Angola (Fsdea9. Parte con 5 miliardi di dollari e vuole investirli soprattutto nell'area dell'Africa sub-Sahariana con particolare attenzione a infrastrutture e sanità. Prima dell'Angola in Africa avevano lanciato fondi sovrani la Nigeria e la Tanzania. Secondo una stima dell'istituto Swf i fondi sovrani nel mondo hanno asset per 5.100 miliardi di dollari. Il 58% dei soldi viene dal petrolio o dal gas. Il più grande dei fondi sovrani è sempre quello norvegese, che ha 650 miliardi di dollari.
dal Ft

L'indagine su Ryanair

Secondo i calcoli dell'Inps e della Direzione provinciale del lavoro di Bergamo l'omesso versamento dei contributi per i 220 dipendenti di Ryanair basati a Bergamo ma assunti con contratto di lavoro irlandese è costata all'erario 12 milioni di euro (cifra stimata al ribasso). La tassazione media dei contratti irlandesi è del 12%, la nostra del 37%. Altro problema: i dipendenti assunti in Irlanda si avvalgono però delle prestazioni dell'italiana Inps.
appunti dal Corriere




martedì 16 ottobre 2012

Definitivo il rialzo dell'accisa sulla benzina

L'articolo 12, comma 13, del ddl stabilità stabilisce che gli aumenti dell'accisa sulla benzina legati alle emergenze di Emilia e Abruzzo «restano confermati» dal primo gennaio prossimo. «Resi stabili», chiarisce la Relazione tecnica della Ragioneria. Che poi quantifica questa "stabilizzazione" in entrate aggiuntive per 947 milioni nel 2013, 840 nel 2014 e 863 dal 2015. Si tratta di 2 centesimi e 37 in più su ogni litro di benzina o gasolio: 2 centesimi per l'Emilia e 37 per Abruzzo e gestori.
da Repubblica

Il Nobel agli accoppiamenti


Abbiamo 10 donne e 10 uomini e dobbiamo farli sposare. Come possiamo accoppiare queste persone nel modo migliore, cioè rispettando le loro preferenze individuali e creando una situazione di massima stabilità, dove nessuna coppia si romperebbe perché né il marito né la moglie possono trovare alternative migliori? No, non avventuratevi in schemi o calcoli arditi, tanto non riuscirete a rispondere. L’89enne Lloyd Stowell Shapley si è posto il problema negli anni ’50 e la soluzione trovata è un algoritmo che gli ha aperto la strada del premio Nobel per l’Economia, che gli è stato assegnato ieri in coppia con il 61enne Alvin Eliot Roth.
Nella soluzione che Shapley elaborò assieme al collega David Gale (che avrebbe probabilmente vinto il Nobel anche lui, se non fosse morto 4 anni fa) ogni donna fa la sua proposta di matrimonio all’uomo che più le piace. Ricevute le proposte, ogni uomo si tiene la proposta che più lo convince e scarta le altre. Inizia allora un secondo giro, dove ogni donna "scartata" fa una nuova proposta agli uomini rimasti liberi, che scelgono di nuovo se accettarle o meno, e così via finché ogni donna non sarà stata maritata. Gli accoppiamenti finali saranno i migliori possibili per le 10 donne (non per i 10 uomini, che potrebbero ottenere soluzioni migliori se fossero loro a fare la proposta).
La teoria di Shapley è quella "delle allocazioni stabili e dei piani di mercato". Probabilmente una sua applicazione reale nelle dinamiche matrimoniali produrrebbe milioni di coppie infelici, ma per assegnare dotti agli ospedali, studenti alle scuole o organi donati a malati da salvare l’algoritmo di Gale-Shapley si è rivelato efficiente. Merito anche dell’altro vincitore del Nobel, il più giovane Alvin Roth, che negli anni ’80 ha adottato degli aggiustamenti alla teoria di Gale-Shapley per fare in modo che nell’assegnazione degli studenti di medicina agli ospedali gli istituti sanitari non fossero eccessivamente favoriti (come le donne dell’esempio) e i futuri dottori non potessero falsificare i risultati degli accoppiamenti esprimendo false preferenze in maniera strumentale. Ed è stato sempre Roth, con alcuni colleghi, ad adattare l’algoritmo nel 2003 per abbattere del 90% il numero di studenti americani che finiva in scuole superiori per le quali non aveva espresso nessuna preferenza (e parliamo di 30 mila ragazzi). Altra applicazione efficace è stata quella sull’accoppiamento tra reni e altri organi lasciati da donatori e pazienti in attesa di trapianto: la teoria delle allocazioni stabili ha consentito miglioramenti notevoli al sistema di assegnazione degli organi negli Stati Uniti. Gli studi basati su questi principi stanno andando avanti per inserire all’interno di questa teoria anche la variabile dei prezzi.
«Questo campo di studi continua a crescere e mostra grandi promesse per il futuro» hanno assicurato gli accademici svedesi assegnando il premio (8 milioni di corone svedesi, circa 930 mila euro) ai due studiosi «per i loro continui sforzi nel trovare soluzioni pratiche ai problemi del mondo reale». La teoria delle allocazioni stabili si inserisce nel filone della "teoria dei giochi" di John Nash e dei suoi colleghi, quella che fece vincere il Nobel del 1994 al matematico schizofrenico americano la cui vita è stata resa celebre dal film <+corsivo>A Beautiful Mind<+tondo>. È evidente che agli accademici del Nobel la "teoria dei giochi" piace: dopo il 1994 hanno premiato studiosi di diverse branche di questo stesso filone nel 2005, nel 2007 e quest’anno. Nel caso di Shapley e Roth ciò che conta di più è il loro lavoro sul concetto di "stabilità". Per gli Stati Uniti è una conferma della ricchezza del panorama universitario nazionale: entrambi gli studiosi sono americani, Shapley è emerito a Los Angeles mentre Roth insegna ad Harvard (ma quest’anno è a Stanford) e sembra un tipo simpatico: «Ora i miei studenti staranno più attenti» ha detto accogliendo la notizia della sua premiazione. Il Nobel per l’economia – nome ufficiale Premio della Sveriges Riskbank in Scienze economiche alla memoria di Alfred Nobel – è quasi un’esclusiva a stelle e strisce: dei 72 premiati dal 1969 ad oggi solo 31 non erano cittadini statunitensi. E anche l’unico Nobel per l’economia nato in Italia, il romano Franco Modigliani, quando vinse nel 1985 era cittadino americano da quasi 40 anni.

da Avvenire di oggi

lunedì 15 ottobre 2012

Tasse, i conti di Alesina e Giavazzi

"Le manovre varate negli ultimi 12 mesi, prima dal governo Berlusconi e poi dal governo Monti, si possono così riassumere (prendiamo questi numeri dall'Audizione parlamentare del vicedirettore generale della Banca d'Italia, Salvatore Rossi): nell'arco di due anni, 2012 e 2013, le entrate delle amministrazioni pubbliche dovrebbero crescere di 82 miliardi, le spese scendere di 43. Di questi tagli, tuttavia, circa 23 miliardi sono minori trasferimenti a Comuni, Province e Regioni. Se questi enti, come sta accadendo, compenseranno la riduzione dei fondi che ricevono dallo Stato aumentando le tasse locali, il risultato complessivo di queste manovre sarà 105 miliardi di maggiori tasse e 20 di minori spese.
L'esperienza delle correzioni dei conti pubblici attuate negli ultimi 30 anni nei Paesi industriali ci insegna che questa composizione è recessiva. L'aumento della pressione fiscale sposterà ancor più in là la ripresa dell'economia e limiterà il miglioramento dei conti pubblici. Invece le manovre che hanno avuto minori effetti recessivi, e che quindi hanno ridotto più rapidamente il debito, sono state quelle con una composizione opposta rispetto alla nostra: tagli di spesa e minori aggravi fiscali. Se ci limitiamo al caso italiano, l'esperienza degli ultimi 30 anni insegna che le manovre per lo più costruite su tagli di spesa (le poche che sono state fatte) hanno inciso sull'economia in misura trascurabile. Invece quelle attuate per lo più aumentando le imposte hanno avuto un «moltiplicatore» pari a circa 1,5: cioè per ogni punto di Pil (Prodotto interno lordo) di correzione dei conti l'economia si è contratta, nel giro di un paio d'anni, di un punto e mezzo. Stato e amministrazioni locali spendono ogni anno (dati del 2010 e senza contare gli interessi sul debito) circa 720 miliardi. Togliamo i 310 miliardi che vanno in pensioni e spesa sociale: ne restano 410. Una riduzione del 20 per cento di queste spese, senza alcun taglio alla spesa sociale, consentirebbe di risparmiare 80 miliardi e di ridurre la pressione fiscale di 10 punti".
Alesina e Giavazzi sul Corriere di oggi

venerdì 12 ottobre 2012

La soluzione della crisi dell'euro secondo Tsipras

«La soluzione deve essere comune: va convocato un vertice sulla linea di quello di Londra nel 1953, quando venne cancellata una gran parte del debito tedesco e venne concesso alla Germania un rinvio sul pagamento degli interessi. Dopo aver estinto il debito per le nazioni in difficoltà, bisogna lanciare un Piano Marshall, liquidità per far ripartire la produttività e la crescita».
(Alexis Tsipras al Corriere della Sera)

Sarebbe curioso sapere che cosa si dovrà dire a chi ha prestato soldi a questi paesi in difficoltà ("non vi ridiamo niente, ma speriamo che in futuro ci aiuterete" potrebbe essere un'idea), né con quali soldi si dovrebbe fare questo Piano Marshall (quelli dei contribuenti europei? solo i soldi di quelli tedeschi?) e dove questo denaro sarebbe investito. Non sembra che i governi greci, così come quelli italiani degli ultimi decenni, siano molto abili a prendere denaro in prestito e poi investirlo generando "crescita, produttività" e ricchezza diffusa tra la popolazione.


domenica 7 ottobre 2012

Apertura russa sul petrolio dell'Artico

La Russia sta pensando di concedere alle società occidentali le licenze per cercare petrolio nelle acque del'Artico. L'idea, presentata al Ft dal ministro dell'Energia Alexander Novak, è quella di permettere alle compagnie di avere accesso alla produzione e almeno partecipare alle licenze, che oggi sono esclusiva dei gruppi parastatali Rosfnet e Gazprom.

venerdì 5 ottobre 2012

Il potenziale esplosivo delle banche Ue

Le banche europee sono molto più pericolose di quelle americane. Nel 2010 le banche statunitensi avevano asset per 8.600 miliardi di dollari, quelle europee per 42.900 miliardi. Se gli asset delle banche Usa sono pari all'80% del Pil del Paese, quelle dell'Unione europea sono 3,5 volte il Pil. "Se l'Ue fa confusione con le banche può fare esplodere l'economia mondiale".
Martin Wolf sul Ft

giovedì 4 ottobre 2012

Se le banche non capiscono le imprese

Nel rapporto Liika­nen, il documento sulla riforma del si­stema bancario europeo presentato martedì a Bruxelles dagli esperti inca­ricati di elaborare le loro proposte, a un certo punto compare una classifica del­le principali banche della zona euro ordinate in base al rapporto tra i prestiti che concedono e i loro asset. Nelle prime 10 posizioni ci sono 3 banche italiane: Ubs, prima, Mps, seconda, Inte­sa Sanpaolo, decima. I dati dicono che sono 'generose', le banche italiane, anche se questi istituti faticherebbe­ro a trovare qualche cittadi­no (magari imprenditore) disposto a raccontare la sua bella storia di soddisfazioni raccolte in filiale.
Due studiosi del Politecnico di Milano – Anna Florio e Giangiacomo Nardozzi – hanno analizzato il com­portamento e le scelte fatte dalle banche europee tra il 2007 e il 2009 per arrivare a un paio di conclusioni inte­ressanti. La prima, non sor­prendente, è che c’è una spiegazione di analisi eco­nomica alla stretta dei rubi­netti adottata dalle banche i­taliane ed europee in questi anni: la loro posizione fi­nanziaria è molto peggiora­ta, non sono più riuscite a ottenere fondi sul mercato tradizionale e quindi hanno usato le risorse messe a di­sposizione dalla Bce per compensare un’assenza di fondi sul mercato interban­cario piuttosto che avventu­rarsi in rischiosi prestiti alle imprese. Ma è la seconda conclusione quella più inte­ressante: la recessione ha re­so evidente quanto alle ban­che italiane, soprattutto quelle grandi, manchi la ca­pacità di capire davvero se una piccola o media impre­sa sarà in grado di rimbor­sare il denaro che chiede in prestito. Questo perché al di là delle informazioni ufficiali l’istituto di credito avrebbe bisogno di una serie di dati 'informali' sullo stato di sa­lute di un’azienda, elemen­ti che si possono ottenere soltanto grazie a una solida relazione con il cliente. «La flessibilità nell’utilizzo di ra­ting di credito che derivano da modelli standardizzati è limitata» ricordano i due studiosi. Banche che non ca­piscono le imprese faticano a concedere loro prestiti.
Lo studio di Florio e Nar­dozzi apre il 17esimo rap­porto della Fondazione Ros­selli, incentrato sulla crisi del modello della banca com­merciale territoriale italiana. Il rapporto, a cura degli eco­nomisti Giampio Bracchi e Donato Masciandaro, mo­stra come il modello della banca italiana – che racco­glie depositi per fare credito alle imprese mantenendo un rapporto abbastanza sta­bile tra i due elementi – ab­bia resistito bene alla crisi e­conomica internazionale, ma adesso si debba con­frontare con il problema del­la redditività. «Per due de­cenni questo modello è sta­to dopato – spiega Mascian­daro – se volete stabilità non potete volere anche rendi­menti a due cifre. Se si ac­cettano rendimenti a due ci­fre allora bisogna accettare che le banche possano falli­re ». Gli utili delle banche i­taliane si stanno assotti­gliando e questo le costrin­ge a studiare soluzioni per ridurre i costi – a partire da un taglio al numero delle fi­liali – senza rinunciare alla vocazione originaria di ban­che commerciali territoria­li. Sarà uno «sforzo enorme» ricordano gli esperti della Fondazione Rosselli. Per chi volesse vederne una confer­ma concreta basta dare un’occhiata agli ostacoli che sta incontrando il piano in­dustriale elaborato da Ales­sandro Profumo e Giuseppe Viola per il Monte dei Paschi. Un piano a base di tagli per ritrovare l’utile. 

da Avvenire

mercoledì 3 ottobre 2012

Il processo (molto politico) a JPMorgan


Bear Stearns, che prima della crisi era la quinta banca d’America, ha venduto titoli legati a mutui immobiliari spacciandoli per investimenti sicuri, ma sapeva che in realtà non valevano quasi nulla. JPMorgan, che nel 2008 su pressione del Tesoro e della Federal Reserve ha dovuto comprare l’istituto rivale per salvarlo, adesso dovrà rispondere di quei comportamenti. È davvero un anno maledetto per la banca guidata da Jamie Dimon, la più grande degli Stati Uniti: dopo avere subito il caso di Bruno Iksil, il trader basato a Londra che con le sue scommesse ardite e massicce sui derivati le ha fatto perdere più o meno 9 miliardi di dollari, adesso dovrà gestire una complicata vicenda giudiziaria che ha anche un sapore molto politico.
L’indagine è stata annunciata ieri da Eric Schneiderman, procuratore generale di New York, che si è mosso come uno dei cinque co-presidenti del <+corsivo>Residential Mortgage Backed Securities working group<+tondo>, la task force sui titoli legati ai mutui immobiliari creata da Obama a gennaio per indagare sui comportamenti e sulle responsabilità che hanno portato alla crisi dei subprime, origine della sconquasso dell’economia globale. L’accusa riguarda Bear Stearns: tra il 2006 e il 2007 la banca ha venduto titoli basati su mutui ipotecari che si sono rivelati fallimentari causando agli investitori perdite stimate in 22,5 miliardi di dollari. Secondo il procuratore Bear Stearns sapeva che quei titoli avevano un alta probabilità di rivelarsi insolventi, ma li ha comunque raccomandati come investimenti sicurissimi. Visto che la banca "colpevole" non esiste più, il procuratore di New York ha messo sotto accusa JPMorgan, che nel marzo del 2008 (cioè prima del fallimento di LehmanBrothers) ha inglobato la banca a un prezzo irrisorio per evitarne il fallimento. «I clienti di Bear Stearns possono essere sicuri che JPMorgan garantirà il loro rischio di controparte» aveva assicurato il manager Dimon nell’annunciare l’operazione, che gli era stata imposta dalla Federal Reserve e dal Tesoro. Con un simile appoggio sicuramente non poteva immaginare future grane tribunalizie. Ha sottolineato ieri il portavoce della banca: «La causa riguarda interamente la condotta storica di un’entità che abbiamo acquistato nel giro di un fine settimana su ordine del governo americano». Secondo alcune indiscrezioni la vicenda potrebbe chiudersi con un patteggiamento che costerebbe a JpMorgan 2 o 3 miliardi di dollari.
Gli investitori non sono sembrati molto preoccupati: a Wall Street il titolo della prima banca degli Usa ha perso meno dello 0,5%. Probabilmente perché l’accusa potrebbe rivelarsi solo un’operazione elettorale. Schneiderman è di fede democratica, eletto procuratore generale di New York nel 2010 come candidato del partito di Obama. È lo stesso giudice che all’inizio del mese ha accusato di elusione fiscale la Bain Capital, la società di investimenti fondata da Mitt Romney, l’avversario di Obama per la Casa Bianca, lo stesso che domani affronterà il presidente nel primo scontro televisivo. La task force sui mutui di cui fa parte era stata fondata da Obama a gennaio. «Questa squadra ci aiuterà a girare la pagina su un’era di irresponsabilità» aveva detto il presidente, ma da allora la task force non aveva dato nessun risultato. Stasera Obama potrà invece parlare davanti alle telecamere di questa indagine sulle origini della crisi per ammorbidire un po’ la realtà di un tasso di disoccupazione sopra l’8%. E il tutto a scapito dell’amico e sostenitore Dimon, manager di JPMorgan da 23 milioni all’anno (il più pagato degli Usa) che ancora un paio di mesi fa veniva indicato dal presidente come «uno dei più abili banchieri che abbiamo».
da Avvenire di oggi

giovedì 30 agosto 2012

In vacanza

Il blog resta fermo fino a fine settembre.
Ciao!

Il nuovo capitolo della vicenda Suntech


Nuovi guai italiani per il colosso cinese Suntech. Dopo che a fine luglio l’azienda leader nei pannelli fotovoltaici ha dovuto ammettere che i 560 milioni di Bund tedeschi messi in garanzia da un socio del Global Solar Fund (il Gsf, con cui il gruppo investe in Europa e in Italia) probabilmente non esistono, ieri tramite l’agenzia "Reuters" è emerso che lo stesso fondo è indagato a Brindisi per truffa allo Stato. Le controllate del Gsf avrebbero infatti aggirato la procedura per l’autorizzazione della realizzazione di parchi fotovoltaici con l’obiettivo di ottenere i generosi sussidi offerti dall’Italia. La legge fissa requisiti di un certo tipo per il via libera alla costruzione di parchi di potenza superiore a 1 MW e invece prevede un percorso agevolato per quelli di taglia minore. L’accusa del procuratore brindisino Nicolangelo Ghizzardi dice che le controllate del fondo della Suntech costruivano parchi di grandi dimensioni dividendoli in tanti impianti da 1 MW per ottenere i permessi più rapidamente. In un caso queste aziende avrebbero anche definito realizzato un impianto ancora in costruzione solo per non superare la scadenza prevista per gli incentivi. Se le accuse fossero confermate le controllate del fondo Gsf sarebbero costrette a spegnere i loro 20 MW di impianti fotovoltaici in Puglia, per un danno economico stimato in almeno 80 milioni di euro. Per Suntech, che già fatica a rimborsare gli 1,6 miliardi che deve alle banche e che probabilmente dovrà farsi carico dei 560 milioni di debiti rimasti senza garanzia, è un altro potenziale colpo letale.
da Avvenire di oggi.

martedì 28 agosto 2012

La Apple, la Xerox, la Samsung. E Android


Apple teme che Google le faccia quello che, negli anni '80, le ha fatto la Microsoft. Un po' di storia: Steve Jobs e Bill Atkinson (il disegnatore del Macintosh) crearono il primo Mac prendendo molti elementi dell'Alto, il computer elaborato dal Palo Alto Research Center della Xerox. Quel computer aveva molte novità, compresi il mouse e le finestre pop-up. Jobs visita il centro Xerox nel '79 e due giorni dopo chiede ad Atkinson di disegnare un computer con un mouse. Era l'Apple Macintosh, che debuttò nel 1984. Il computer però non vendeva e nel 1985 Jobs dovette lasciare la Apple. Bill Gates aveva introdotto Windows nel 1983, ma il sistema operativo funzionava malissimo fino alla versione aggiornata nel 1986. Windows aveva molte delle funzioni introdotte dalla Apple. Rapidamente il sistema della Microsoft divenne il re del mercato lasciando ad Apple una quota minima, attorno al 3%. Steve Jobs temeva che Android sarebbe stato per Apple il nuovo Windows. Nell'autobiografia dettata a Isaacson ha detto: "Google...ha fregato l'iPhone, il mercato all'ingrosso ci ha fregati. Se sarà necessario spenderò il mio ultimo respiro e spenderò fino all'ultimo i 40 miliardi di dollari delle casse della Apple per riparare questo torto. Distruggerò Android perché è un prodotto rubato...sarò termonucleare su questo".
dal Wsj

domenica 26 agosto 2012

Gli scioperi alla Hyundai


Alla Hyundai-Kia i dipendenti hanno iniziato a scioperare all'inizio di luglio per chiedere stipendi più alti e migliori condizioni di lavoro, inclusa la fine dei turni di notte. La protesta sta danneggiando la produzione: assieme hanno perso 90 mila auto, per un costo di 1,5 miliardi di dollari. I concessionari americani hanno ormai i parcheggi vuoti.
dal Wsj

sabato 25 agosto 2012

La deflazione che manca nella zona euro


Il principale problema della "periferia dell'euro" potrebbe essere che in questi paesi gli stipendi si stanno riducendo, ma i prezzi non scendono. Nel primo decennio dell'euro la periferia della zona euro ha avuto tassi di inflazione superiori a quelli tedeschi, aiutando la Germania a diventare il centro di produzione low cost dell'area. Perché la riduzione dei salari in Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia non danneggi i consumi interni occorre che anche i prezzi scendano, con tassi di inflazione che devono restare sotto quelli della Germania e in alcuni casi, come in Grecia, andare sotto zero. In Grecia, assicura Michail Chalaris, direttore dell'ispettorato nazionale sul lavoro "c'è margine per tagliare i prezzi senza eliminare i profitti. Forse il motivo è molto molto antico: l'avidità".
dal Wsj