Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Irlanda. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Irlanda. Mostra tutti i post

lunedì 15 aprile 2013

I paradisi fiscali in Europa

Negli anni in cui l’economia euro­pea cresceva, nessuno a Bruxelles si era messo a fare lo schizzinoso con gli Stati dell’Unione Europea che aiu­tavano i cittadini degli altri a non pagare le tasse. Avere dei paradisi fiscali all’interno dell’Ue è stata considerata, per anni, una cosa normale. Era normale nel 2005 sce­gliere Jean-Claude Juncker come primo presidente permanente dell’Eurogruppo – il coordinamento dei ministri delle Finan­ze dell’area euro – e confermarlo per ben tre volte. In questo modo per 8 anni una delle più importanti istituzioni della mo­neta unica è stata guidata dallo storico pri­mo ministro del Lussemburgo, che è il più visibile paradiso fiscale dell’Ue. Il Lussem­burgo vive di finanza e garantisce un tota­le segreto bancario a chi apre un conto in uno dei suoi spor­telli. Questa preziosa riserva­tezza ha consentito alle ban­che del Granducato di accu­mulare depositi da tutto il mondo per un totale che vale circa 23 volte il suo Pil. Ma la pacchia è finita. Qualche gior­no fa il governo lussemburghese ha dovu­to cedere alle pressioni europee: dal 2015 rinuncerà al segreto bancario. Probabil­mente l’Europa lo costringerà ad abban­donare anche la sua altra cattiva abitudi­ne: quella di applicare un bassissimo livel­lo di tassazione sugli incassi finanziari, co­sì da spingere tante multinazionali a basa­re nel Granducato le loro holding per poi trasferire lì – sotto forma di dividendi o in­teressi – gli incassi raccolti nel resto d’Eu­ropa e nasconderli così al fisco.
Anche nella esemplare Austria c’è un rigo­roso segreto bancario. Maria Fekter, mini­stro delle Finanze austriaco, ricorderà que­sto suo pessimo fine settimana a Dublino, con i colleghi di tutt’Europa che insisteva­no per spingerla ad arrendersi come ha fat­to il Lussemburgo. Per ora ha resistito, an­che se ha finito per difendersi in maniera bambinesca: «Perché – ha attaccato venerdì – il G20 non fa niente per chiudere le la­vanderie di denaro nelle isole Cayman o nelle isole Vergini...o in Delaware?». Fekter poteva trovare argomentazioni migliori. Magari fare presente che il successore di Juncker alla guida dell’Eurogruppo è il rap­presentante di un altro autorevolissimo pa­radiso fiscale europeo. Jeroen Dijsselbloem è infatti il ministro delle Finanze dei Paesi Bassi, nazione che si permette di dare le­zioni alle economie in difficoltà pur sa­pendo di danneggiarle direttamente attra­verso un sistema di tassazione minima sul­le royalties e di trattati bilaterali con isolet­te esotiche che aiuta tante multinazionali a spedire in Olanda i loro incassi europei e quindi mandare il tutto alle Cayman pa­gando sull’intera cifra una tassazione ridi­cola. In questi viaggi di denaro dai Paesi Bassi ai Caraibi si passa spesso per un al­tro paradiso fiscale europeo, l’Irlanda, che non tassa i guadagni ottenuti all’estero da un’impresa nazionale.Davanti a furbizie così palesi da parte dei suoi membri storici, l’Unione Europea non si è potuta per­mettere di fare nulla per evi­tare che al suo interno na­scessero altri paradisi fiscali. Come Cipro, che non preve­deva tasse su dividendi, inte­ressi e vendite di azioni e ga­rantiva massima riservatezza su chi portava denaro dall’estero. Sembra­va un altro 'paradiso' mediterraneo, ora è un inferno: il piano di salvataggio europeo ha imposto all’isola tasse sui depositi ban­cari che possono arrivare quasi al 40%, chi aveva fatto la pensata di portare i suoi sol­di a Cipro è servito. Altri, invece, sono av­vertiti: la punizione inflitta ai ciprioti do­vrebbe servire da lezione anche a lettoni e maltesi, che con decisi tagli alle tasse sui profitti finanziari sembrano ambire a di­ventare i nuovi paradisi fiscali dell’Unione. In realtà, se il piano europeo avrà succes­so, di paradisi fiscali all’interno dell’Ue nel giro di qualche anno non ne sarà rimasto nessuno. Resteranno paradisi europei fuo­ri dall’Ue: la potente Svizzera, Andorra, il Principato di Monaco le Isole britanniche e il Liechtenstein. Ma sono realtà che si pos­sono stroncare con un po’ di volontà poli­tica. All’Italia sono bastati lo scudo fiscale e l’inserimento nella lista nera del Tesoro per lasciare senza i fondi dei nostri 'fur­betti' la Repubblica di San Marino.
da Avvenire

mercoledì 9 gennaio 2013

I conti dei bond periferici

L'Italia quest'anno deve raccogliere sul mercato 410 miliardi di euro. La Spagna 121,3 miliardi, l'Irlanda 10.

giovedì 29 novembre 2012

Google, l'Irlanda, le tasse


La finanza ha avviato questo lunedì una verifica fiscale «extraprogramma» su Google Italy Srl. Vuole capire se la società paga le tasse dovute all’Italia. I manager dell’azienda dovevano aspettarselo. Esattamente una settimana prima Corrado Passera li aveva avvertiti. «C’è tanta gente che fa milioni di utili e fa lezione ogni giorno a tutti e poi viene fuori che non paga le tasse. Ma che diamine!» aveva detto il 19 novembre il ministro dello Sviluppo economico durante una tavola rotonda sulle <+corsivo>start up<+tondo> organizzata a Milano dalla Vodafone. «Bisognerebbe andare a prendere anche i tanti piccoli che evadono – aveva continuato il ministro –, ma ciascuna di queste aziende fa milioni di piccoli, quindi prima andiamo addosso a questi». Detto fatto.
L’indagine della finanza italiana è l’ultima puntata di una campagna giornalistica iniziata ormai due anni fa sulle pagine del quotidiano irlandese <+corsivo>Irish Times<+tondo> e arrivata da qualche settimana in Italia. Il meccanismo è complesso: Google è una società californiana che ha dato in licenza la sua attività pubblicitaria (dalla quale arrivano quasi tutte le sue entrate) alla controllata Google Ireland Holdings, società basata in Irlanda per ragioni fiscali (lì le tasse sugli utili sono al 12,5%) ma gestita dalle Bermuda, dove gli utili non sono tassati per niente. Google Ireland Holdings ha a sua volta dato questa attività in licenza a una società sempre del gruppo ma stavolta con sede in Olanda (dove certe audaci manovre fiscali sono permesse, a prezzi da concordare con l’autorità). La società olandese ha poi passato la licenza a Google Ireland Ltd, la vera base europea del gruppo, che raccoglie tutte le entrate della pubblicità venduta in Europa. Buona parte del denaro incassato da Google Ireland Ltd passa come royalty alla società olandese e quindi viene trasferito alle Bermuda. Col risultato che dei 12,5 miliardi di euro che Google ha fatturato nel 2011 attraverso la pubblicità venduta in Europa 9 miliardi sono andati in spese amministrative (comprese le royalty) e alla fine l’utile prima delle tasse si è fermato a 24 milioni di euro. Roba da media azienda.
Google Italy srl ha invece bilanci da piccola azienda: ha chiuso il 2011 con 40,7 milioni di euro di fatturato e utili per 3,3 milioni . All’Erario sono andati 1,8 milioni. Lo Stato incassa di più da un attaccante medio di serie A. Le cifre del bilancio sono uscite su un’inchiesta sul fisco dei colossi della Silicon Valley (sono organizzate più o meno come Google anche la Apple o Amazon) pubblicata sul magazine <+corsivo>Sette<+tondo> a metà novembre. Da quell’indagine giornalistica emerge che Google Italy Srl ha circa il 50% del mercato italiano della pubblicità on line, cioè un giro d’affari di 600 milioni di euro. Però è quasi tutto denaro fatturato direttamente in Irlanda, e quindi inserito in quel circolo che lo fa passare dall’Olanda e arrivare alle Bermuda.
Sollecitato a fare qualcosa proprio da uno dei giornalisti all’origine dell’inchiesta italiana Passera ha promesso che si sarebbe mosso. Tre giorni dopo Stefano Graziano, deputato del Pd, ha presentato un’interrogazione sulla vicenda alla commissione Finanze della Camera e ieri Vieri Ceriani, sottosegretario all’Economia, ha risposto annunciando l’indagine avviata dalla Finanza. In Francia, secondo indiscrezioni, il governo per un caso quasi identico ha chiesto alla società 1 miliardo di euro. L’esito delle verifiche italiane non è scontato: le cifre citate dal sottosegretario – 96 milioni di euro di Iva che Google non avrebbe pagato sui 240 milioni incassati in Italia tra il 2002 e il 2006 – si riferiscono una simile indagine completata dalla Finanza nel 2007 ma di cui ancora non si conosce il risultato definitivo. L’azienda è tranquilla: «Google – ha comunicato ieri – rispetta le leggi fiscali in tutti i Paesi in cui opera e siamo fiduciosi di rispettare anche la legge italiana. Continueremo a collaborare con le autorità competenti». Lo aveva ammesso lo stesso Passera: in queste aziende quando si tratta di fisco «sono veramente bravi, anche se non riesco a usare la parola bravi per chi evade le tasse...».
da Avvenire

sabato 25 agosto 2012

La deflazione che manca nella zona euro


Il principale problema della "periferia dell'euro" potrebbe essere che in questi paesi gli stipendi si stanno riducendo, ma i prezzi non scendono. Nel primo decennio dell'euro la periferia della zona euro ha avuto tassi di inflazione superiori a quelli tedeschi, aiutando la Germania a diventare il centro di produzione low cost dell'area. Perché la riduzione dei salari in Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia non danneggi i consumi interni occorre che anche i prezzi scendano, con tassi di inflazione che devono restare sotto quelli della Germania e in alcuni casi, come in Grecia, andare sotto zero. In Grecia, assicura Michail Chalaris, direttore dell'ispettorato nazionale sul lavoro "c'è margine per tagliare i prezzi senza eliminare i profitti. Forse il motivo è molto molto antico: l'avidità".
dal Wsj

giovedì 14 giugno 2012

I redditi delle famiglie nella zona euro

Secondo i dati a disposizione dell'Ocse, tra il 1997 e il 2010 il reddito medio reale delle famiglie è aumentato dell'1,4% all'anno nell'area dell'euro.In Grecia l'aumento medio annuo è stato del 3,5%, in Spagna del 3%, in Portogallo del 2,1%, in Irlanda del 3,8%. In Italia la crescita dei redditi reali è stata in media dello 0,3% all'anno. In Germania dello 0,8%.

sabato 31 marzo 2012

Il contributo dell'Italia all'Esm


Isabella Buffacchi, Sole 24 ore 
L'Italia quest'anno contribuirà al "capitale versato" del fondo di stabilità permanente Esm con una quota pari a 5,7 miliardi che sarà versata in due rate da 2,85 miliardi, pagate l'una in luglio e l'altra entro ottobre. Questi due importi saranno coperti con emissione di titoli di Stato a medio e lungo termine, con caratteristiche che saranno stabilite per decreto dal ministero dell'Economia.
Questi 5,7 miliardi andranno a sommarsi ai 10,3 miliardi già erogati dall'Italia alla Grecia tramite prestiti bilaterali intergovernativi e all'aumento del debito pubblico per 3,974 relativamente ai prestitiEfsf già concessi a Portogallo e Irlanda tra il febbraio 2011 e il gennaio 2012. Il conto della "crisi del debito europeo", sotto il profilo contabile senza nessuna perdita secca per le casse dello Stato, sale così a circa 20 miliardi. E salirà ancora. L'Italia verserà in tutto, entro la prima metà del 2014, cinque rate di capitale "paid-in" nell'Esm, per un totale di 14,25 miliardi: questa liquidità verrà raccolta, stando a fonti bene informate, tramite emissione di BTp o altri titoli a medio-lungo termine.