Nel rapporto Liikanen, il documento sulla riforma del sistema bancario europeo presentato martedì a Bruxelles dagli esperti incaricati di elaborare le loro proposte, a un certo punto compare una classifica delle principali banche della zona euro ordinate in base al rapporto tra i prestiti che concedono e i loro asset. Nelle prime 10 posizioni ci sono 3 banche italiane: Ubs, prima, Mps, seconda, Intesa Sanpaolo, decima. I dati dicono che sono 'generose', le banche italiane, anche se questi istituti faticherebbero a trovare qualche cittadino (magari imprenditore) disposto a raccontare la sua bella storia di soddisfazioni raccolte in filiale.
Due studiosi del Politecnico di Milano – Anna Florio e Giangiacomo Nardozzi – hanno analizzato il comportamento e le scelte fatte dalle banche europee tra il 2007 e il 2009 per arrivare a un paio di conclusioni interessanti. La prima, non sorprendente, è che c’è una spiegazione di analisi economica alla stretta dei rubinetti adottata dalle banche italiane ed europee in questi anni: la loro posizione finanziaria è molto peggiorata, non sono più riuscite a ottenere fondi sul mercato tradizionale e quindi hanno usato le risorse messe a disposizione dalla Bce per compensare un’assenza di fondi sul mercato interbancario piuttosto che avventurarsi in rischiosi prestiti alle imprese. Ma è la seconda conclusione quella più interessante: la recessione ha reso evidente quanto alle banche italiane, soprattutto quelle grandi, manchi la capacità di capire davvero se una piccola o media impresa sarà in grado di rimborsare il denaro che chiede in prestito. Questo perché al di là delle informazioni ufficiali l’istituto di credito avrebbe bisogno di una serie di dati 'informali' sullo stato di salute di un’azienda, elementi che si possono ottenere soltanto grazie a una solida relazione con il cliente. «La flessibilità nell’utilizzo di rating di credito che derivano da modelli standardizzati è limitata» ricordano i due studiosi. Banche che non capiscono le imprese faticano a concedere loro prestiti.Lo studio di Florio e Nardozzi apre il 17esimo rapporto della Fondazione Rosselli, incentrato sulla crisi del modello della banca commerciale territoriale italiana. Il rapporto, a cura degli economisti Giampio Bracchi e Donato Masciandaro, mostra come il modello della banca italiana – che raccoglie depositi per fare credito alle imprese mantenendo un rapporto abbastanza stabile tra i due elementi – abbia resistito bene alla crisi economica internazionale, ma adesso si debba confrontare con il problema della redditività. «Per due decenni questo modello è stato dopato – spiega Masciandaro – se volete stabilità non potete volere anche rendimenti a due cifre. Se si accettano rendimenti a due cifre allora bisogna accettare che le banche possano fallire ». Gli utili delle banche italiane si stanno assottigliando e questo le costringe a studiare soluzioni per ridurre i costi – a partire da un taglio al numero delle filiali – senza rinunciare alla vocazione originaria di banche commerciali territoriali. Sarà uno «sforzo enorme» ricordano gli esperti della Fondazione Rosselli. Per chi volesse vederne una conferma concreta basta dare un’occhiata agli ostacoli che sta incontrando il piano industriale elaborato da Alessandro Profumo e Giuseppe Viola per il Monte dei Paschi. Un piano a base di tagli per ritrovare l’utile.
da Avvenire
Due studiosi del Politecnico di Milano – Anna Florio e Giangiacomo Nardozzi – hanno analizzato il comportamento e le scelte fatte dalle banche europee tra il 2007 e il 2009 per arrivare a un paio di conclusioni interessanti. La prima, non sorprendente, è che c’è una spiegazione di analisi economica alla stretta dei rubinetti adottata dalle banche italiane ed europee in questi anni: la loro posizione finanziaria è molto peggiorata, non sono più riuscite a ottenere fondi sul mercato tradizionale e quindi hanno usato le risorse messe a disposizione dalla Bce per compensare un’assenza di fondi sul mercato interbancario piuttosto che avventurarsi in rischiosi prestiti alle imprese. Ma è la seconda conclusione quella più interessante: la recessione ha reso evidente quanto alle banche italiane, soprattutto quelle grandi, manchi la capacità di capire davvero se una piccola o media impresa sarà in grado di rimborsare il denaro che chiede in prestito. Questo perché al di là delle informazioni ufficiali l’istituto di credito avrebbe bisogno di una serie di dati 'informali' sullo stato di salute di un’azienda, elementi che si possono ottenere soltanto grazie a una solida relazione con il cliente. «La flessibilità nell’utilizzo di rating di credito che derivano da modelli standardizzati è limitata» ricordano i due studiosi. Banche che non capiscono le imprese faticano a concedere loro prestiti.Lo studio di Florio e Nardozzi apre il 17esimo rapporto della Fondazione Rosselli, incentrato sulla crisi del modello della banca commerciale territoriale italiana. Il rapporto, a cura degli economisti Giampio Bracchi e Donato Masciandaro, mostra come il modello della banca italiana – che raccoglie depositi per fare credito alle imprese mantenendo un rapporto abbastanza stabile tra i due elementi – abbia resistito bene alla crisi economica internazionale, ma adesso si debba confrontare con il problema della redditività. «Per due decenni questo modello è stato dopato – spiega Masciandaro – se volete stabilità non potete volere anche rendimenti a due cifre. Se si accettano rendimenti a due cifre allora bisogna accettare che le banche possano fallire ». Gli utili delle banche italiane si stanno assottigliando e questo le costringe a studiare soluzioni per ridurre i costi – a partire da un taglio al numero delle filiali – senza rinunciare alla vocazione originaria di banche commerciali territoriali. Sarà uno «sforzo enorme» ricordano gli esperti della Fondazione Rosselli. Per chi volesse vederne una conferma concreta basta dare un’occhiata agli ostacoli che sta incontrando il piano industriale elaborato da Alessandro Profumo e Giuseppe Viola per il Monte dei Paschi. Un piano a base di tagli per ritrovare l’utile.
da Avvenire
Il problema secondo me parte più dal fondo, non solo dai dati: le banche non hanno strutture in grado di "scommettere" sul futuro delle aziende da finanziare perchè in Italia chi possiede il capitale non intende separarlo dall'attività che su esso si fonderà. Se non può svolgere quest'ultima in proprio, sarà in società, occulta o manifesta, con l'amichetto imprenditore, ovviamente della stessa parrocchia (intendo cordata politica etc.).
RispondiEliminaL' "estraneo", fosse anche chi ha inventato la lampadina che funziona senza corrente, non avrà ascolto, nè una lira che non sia garantita al doppio da beni posseduti.
Di nuovo, dovrà già essere un capitalista anch'esso.
Da questo circolo vizioso non usciamo: è nel nostro (anzi loro) hardware.