Tra gli Stati-falchi che impongono l’austerità all’Unione Europea ce n’è uno che sembra schizofrenico. È l’Olanda, nazione tanto severa nel tassare i propri cittadini ed esigere il rigore dagli altri governi quanto tollerante con le multinazionali che la usano come base di partenza europea per trasferire in esotici paradisi fiscali i miliardi di euro incassati in Europa. Non ci sarebbe nulla di male, se la generosità fiscale degli olandesi non facesse perdere milioni di euro di entrate agli altri Stati dell’Unione.
In Italia la settimana scorsa si è parlato a lungo del caso di Google, che ha ricevuto una visita “fuori programma” della Finanza dopo che il racconto dei suoi complessi stratagemmi fiscali è arrivato alle orecchie del ministro Corrado Passera. Semplifichiamo: il motore di ricerca fattura in Irlanda i soldi della pubblicità venduta a clienti italiani, quindi sposta quasi tutti gli incassi nei Paesi Bassi pagando salate royalties alla sua controllata olandese e infine rimanda il denaro in Irlanda, a una holding di diritto irlandese basata però alle Bermuda. Alla fine del giro il denaro va ai Caraibi e lì si perdono le sue tracce. Google nel 2011 ha pagato appena 8 milioni di euro di tasse sui 12,5 miliardi fatturati in Europa.
Ma il motore di ricerca non è l’unico furbo in un mondo di ingenui. Applicano un sistema molto simile diverse aziende americane, e quasi tutti i colossi del Web, comprese Facebook, Apple, Amazon. Si è rivolta a commercialisti altrettanto abili anche Starbucks, la catena americana dei caffè che qualche giorno fa ha finito per arrendersi alle pressioni del fisco inglese accettando di pagare al Regno Unito 20 milioni di sterline. Dal 1998, anno in cui aveva aperto il suo primo caffè inglese, Starbucks aveva incassato 3 miliardi di sterline lasciando solo 8,6 milioni al fisco.
Colpisce, in tutte queste vicende di furbizie fiscali europee, come ci siano sempre di mezzo l’Irlanda e l’Olanda. Dublino fa meno scandalo perché la sua strategia è nota e più accettabile: arrivata agli anni Novanta come uno dei Paesi più poveri d’Europa, l’Irlanda è riuscita a catturare gli investimenti delle grandi aziende straniere applicando una tassazione bassissima sul reddito d’impresa (l’aliquota è al 12,5% contro il 31% italiano) e sul lavoro (il cuneo fiscale medio è del 15,2% contro il 35% della media europea). Il risultato è che diversi nuovi colossi americani hanno scelto di basare in Irlanda il loro quartier generale europeo, e lì hanno costruito uffici e assunto personale.
Nessuna multinazionale non olandese assumerebbe invece personale nei Paesi Bassi, dove le tasse sul lavoro e sul reddito di impresa non sono particolarmente convenienti. Le migliaia di società olandesi create da aziende straniere sono invece imprese fittizie, senza veri uffici e addetti, quasi sempre affidate a un “trust”, una fiduciaria. Sono società vuote, ma legali e molto diffuse. Hanno almeno una controllata finanziaria in Olanda 80 delle 100 aziende più grandi del mondo. Tra le tante multinazionali che hanno scelto Amsterdam come sede della propria attività europea ci sono Nike (che addirittura ha lì delle "cooperative"), Sun Microsystem, Ikea, Boeing, Disney, Prada, Gucci. È olandese anche Oilinvest, il fondo che raccoglieva i soldi della famiglia Gheddafi, e sarà olandese la nuova Fiat Industrial, dopo la fusione con la controllata Cnh.
Tutti vanno in Olanda perché lì c’è un ambiente fiscale che sembra pensato da un commercialista geniale. Per prima cosa le società olandesi non devono pagare tasse sui dividendi o sui profitti di capitale ottenuti all’estero da società controllate. Poi Amsterdam ha firmato una straordinaria quantità di patti fiscali con altre nazioni (circa un centinaio) per ridurre le ritenute alla fonte su dividendi, interessi e royalties (cioè diritti di proprietà intellettuale) incassati dall’estero. In particolare il patto firmato tra l’Olanda e l’Irlanda fissa l’aliquota a zero in tutti e tre i casi.
Gli accordi fiscali firmati negli anni dall’Olanda con ex colonie o attuali dipendenze esotiche – come l’isola di Aruba, a nord del Venezuela – consentono anche di trasferire denaro verso queste aree con una spesa minima, quando non gratis. Così convogliare ad Amsterdam i soldi rastrellati nel Vecchio Continente e da lì spedirli lontano dagli occhi del fisco europeo, magari ai Caraibi, consente enormi risparmi fiscali. I dati del Fondo monetario internazionale danno un’idea della dimensione di questo fenomeno: l’Olanda ha incassato nel 2011 3.327 miliardi di dollari di “investimenti” dall’estero, 200 miliardi in meno della somma degli investimenti diretti verso Cina e Stati Uniti.
Non è una recente furbizia ad avere reso l’Olanda così conveniente. I Paesi Bassi hanno sempre avuto un’economia basata sul commercio con l’estero. La Compagnia olandese delle Indie orientali, nata all’inizio del 600, è stata una delle prime multinazionali della storia. Evitare una doppia tassazione sui profitti che le società olandesi fanno all’estero è stata un esigenza antica e autentica, che però nel tempo si è trasformata in una cattiva abitudine. Già negli anni Ottanta andava di moda il cosiddetto “Dutch Sandwich” dei Gruppi nordamericani, che consisteva nel far girare i soldi dall’Olanda alle Antille Olandesi per schivare gli occhi del fisco. Quel panino troppo goloso è stato eliminato da Amsterdam - su pressione internazionale - negli anni Novanta. Ma quasi 15 anni dopo i “severi” Paesi Bassi sono ancora il porto franco che permette a tante multinazionali di mandare ai Caraibi i loro profitti europei lasciando a bocca asciutta gli agenti del fisco.
In Italia la settimana scorsa si è parlato a lungo del caso di Google, che ha ricevuto una visita “fuori programma” della Finanza dopo che il racconto dei suoi complessi stratagemmi fiscali è arrivato alle orecchie del ministro Corrado Passera. Semplifichiamo: il motore di ricerca fattura in Irlanda i soldi della pubblicità venduta a clienti italiani, quindi sposta quasi tutti gli incassi nei Paesi Bassi pagando salate royalties alla sua controllata olandese e infine rimanda il denaro in Irlanda, a una holding di diritto irlandese basata però alle Bermuda. Alla fine del giro il denaro va ai Caraibi e lì si perdono le sue tracce. Google nel 2011 ha pagato appena 8 milioni di euro di tasse sui 12,5 miliardi fatturati in Europa.
Ma il motore di ricerca non è l’unico furbo in un mondo di ingenui. Applicano un sistema molto simile diverse aziende americane, e quasi tutti i colossi del Web, comprese Facebook, Apple, Amazon. Si è rivolta a commercialisti altrettanto abili anche Starbucks, la catena americana dei caffè che qualche giorno fa ha finito per arrendersi alle pressioni del fisco inglese accettando di pagare al Regno Unito 20 milioni di sterline. Dal 1998, anno in cui aveva aperto il suo primo caffè inglese, Starbucks aveva incassato 3 miliardi di sterline lasciando solo 8,6 milioni al fisco.
Colpisce, in tutte queste vicende di furbizie fiscali europee, come ci siano sempre di mezzo l’Irlanda e l’Olanda. Dublino fa meno scandalo perché la sua strategia è nota e più accettabile: arrivata agli anni Novanta come uno dei Paesi più poveri d’Europa, l’Irlanda è riuscita a catturare gli investimenti delle grandi aziende straniere applicando una tassazione bassissima sul reddito d’impresa (l’aliquota è al 12,5% contro il 31% italiano) e sul lavoro (il cuneo fiscale medio è del 15,2% contro il 35% della media europea). Il risultato è che diversi nuovi colossi americani hanno scelto di basare in Irlanda il loro quartier generale europeo, e lì hanno costruito uffici e assunto personale.
Nessuna multinazionale non olandese assumerebbe invece personale nei Paesi Bassi, dove le tasse sul lavoro e sul reddito di impresa non sono particolarmente convenienti. Le migliaia di società olandesi create da aziende straniere sono invece imprese fittizie, senza veri uffici e addetti, quasi sempre affidate a un “trust”, una fiduciaria. Sono società vuote, ma legali e molto diffuse. Hanno almeno una controllata finanziaria in Olanda 80 delle 100 aziende più grandi del mondo. Tra le tante multinazionali che hanno scelto Amsterdam come sede della propria attività europea ci sono Nike (che addirittura ha lì delle "cooperative"), Sun Microsystem, Ikea, Boeing, Disney, Prada, Gucci. È olandese anche Oilinvest, il fondo che raccoglieva i soldi della famiglia Gheddafi, e sarà olandese la nuova Fiat Industrial, dopo la fusione con la controllata Cnh.
Tutti vanno in Olanda perché lì c’è un ambiente fiscale che sembra pensato da un commercialista geniale. Per prima cosa le società olandesi non devono pagare tasse sui dividendi o sui profitti di capitale ottenuti all’estero da società controllate. Poi Amsterdam ha firmato una straordinaria quantità di patti fiscali con altre nazioni (circa un centinaio) per ridurre le ritenute alla fonte su dividendi, interessi e royalties (cioè diritti di proprietà intellettuale) incassati dall’estero. In particolare il patto firmato tra l’Olanda e l’Irlanda fissa l’aliquota a zero in tutti e tre i casi.
Gli accordi fiscali firmati negli anni dall’Olanda con ex colonie o attuali dipendenze esotiche – come l’isola di Aruba, a nord del Venezuela – consentono anche di trasferire denaro verso queste aree con una spesa minima, quando non gratis. Così convogliare ad Amsterdam i soldi rastrellati nel Vecchio Continente e da lì spedirli lontano dagli occhi del fisco europeo, magari ai Caraibi, consente enormi risparmi fiscali. I dati del Fondo monetario internazionale danno un’idea della dimensione di questo fenomeno: l’Olanda ha incassato nel 2011 3.327 miliardi di dollari di “investimenti” dall’estero, 200 miliardi in meno della somma degli investimenti diretti verso Cina e Stati Uniti.
Non è una recente furbizia ad avere reso l’Olanda così conveniente. I Paesi Bassi hanno sempre avuto un’economia basata sul commercio con l’estero. La Compagnia olandese delle Indie orientali, nata all’inizio del 600, è stata una delle prime multinazionali della storia. Evitare una doppia tassazione sui profitti che le società olandesi fanno all’estero è stata un esigenza antica e autentica, che però nel tempo si è trasformata in una cattiva abitudine. Già negli anni Ottanta andava di moda il cosiddetto “Dutch Sandwich” dei Gruppi nordamericani, che consisteva nel far girare i soldi dall’Olanda alle Antille Olandesi per schivare gli occhi del fisco. Quel panino troppo goloso è stato eliminato da Amsterdam - su pressione internazionale - negli anni Novanta. Ma quasi 15 anni dopo i “severi” Paesi Bassi sono ancora il porto franco che permette a tante multinazionali di mandare ai Caraibi i loro profitti europei lasciando a bocca asciutta gli agenti del fisco.
da Avvenire