Cerca nel blog

Visualizzazione post con etichetta Tasse. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Tasse. Mostra tutti i post

lunedì 15 aprile 2013

I paradisi fiscali in Europa

Negli anni in cui l’economia euro­pea cresceva, nessuno a Bruxelles si era messo a fare lo schizzinoso con gli Stati dell’Unione Europea che aiu­tavano i cittadini degli altri a non pagare le tasse. Avere dei paradisi fiscali all’interno dell’Ue è stata considerata, per anni, una cosa normale. Era normale nel 2005 sce­gliere Jean-Claude Juncker come primo presidente permanente dell’Eurogruppo – il coordinamento dei ministri delle Finan­ze dell’area euro – e confermarlo per ben tre volte. In questo modo per 8 anni una delle più importanti istituzioni della mo­neta unica è stata guidata dallo storico pri­mo ministro del Lussemburgo, che è il più visibile paradiso fiscale dell’Ue. Il Lussem­burgo vive di finanza e garantisce un tota­le segreto bancario a chi apre un conto in uno dei suoi spor­telli. Questa preziosa riserva­tezza ha consentito alle ban­che del Granducato di accu­mulare depositi da tutto il mondo per un totale che vale circa 23 volte il suo Pil. Ma la pacchia è finita. Qualche gior­no fa il governo lussemburghese ha dovu­to cedere alle pressioni europee: dal 2015 rinuncerà al segreto bancario. Probabil­mente l’Europa lo costringerà ad abban­donare anche la sua altra cattiva abitudi­ne: quella di applicare un bassissimo livel­lo di tassazione sugli incassi finanziari, co­sì da spingere tante multinazionali a basa­re nel Granducato le loro holding per poi trasferire lì – sotto forma di dividendi o in­teressi – gli incassi raccolti nel resto d’Eu­ropa e nasconderli così al fisco.
Anche nella esemplare Austria c’è un rigo­roso segreto bancario. Maria Fekter, mini­stro delle Finanze austriaco, ricorderà que­sto suo pessimo fine settimana a Dublino, con i colleghi di tutt’Europa che insisteva­no per spingerla ad arrendersi come ha fat­to il Lussemburgo. Per ora ha resistito, an­che se ha finito per difendersi in maniera bambinesca: «Perché – ha attaccato venerdì – il G20 non fa niente per chiudere le la­vanderie di denaro nelle isole Cayman o nelle isole Vergini...o in Delaware?». Fekter poteva trovare argomentazioni migliori. Magari fare presente che il successore di Juncker alla guida dell’Eurogruppo è il rap­presentante di un altro autorevolissimo pa­radiso fiscale europeo. Jeroen Dijsselbloem è infatti il ministro delle Finanze dei Paesi Bassi, nazione che si permette di dare le­zioni alle economie in difficoltà pur sa­pendo di danneggiarle direttamente attra­verso un sistema di tassazione minima sul­le royalties e di trattati bilaterali con isolet­te esotiche che aiuta tante multinazionali a spedire in Olanda i loro incassi europei e quindi mandare il tutto alle Cayman pa­gando sull’intera cifra una tassazione ridi­cola. In questi viaggi di denaro dai Paesi Bassi ai Caraibi si passa spesso per un al­tro paradiso fiscale europeo, l’Irlanda, che non tassa i guadagni ottenuti all’estero da un’impresa nazionale.Davanti a furbizie così palesi da parte dei suoi membri storici, l’Unione Europea non si è potuta per­mettere di fare nulla per evi­tare che al suo interno na­scessero altri paradisi fiscali. Come Cipro, che non preve­deva tasse su dividendi, inte­ressi e vendite di azioni e ga­rantiva massima riservatezza su chi portava denaro dall’estero. Sembra­va un altro 'paradiso' mediterraneo, ora è un inferno: il piano di salvataggio europeo ha imposto all’isola tasse sui depositi ban­cari che possono arrivare quasi al 40%, chi aveva fatto la pensata di portare i suoi sol­di a Cipro è servito. Altri, invece, sono av­vertiti: la punizione inflitta ai ciprioti do­vrebbe servire da lezione anche a lettoni e maltesi, che con decisi tagli alle tasse sui profitti finanziari sembrano ambire a di­ventare i nuovi paradisi fiscali dell’Unione. In realtà, se il piano europeo avrà succes­so, di paradisi fiscali all’interno dell’Ue nel giro di qualche anno non ne sarà rimasto nessuno. Resteranno paradisi europei fuo­ri dall’Ue: la potente Svizzera, Andorra, il Principato di Monaco le Isole britanniche e il Liechtenstein. Ma sono realtà che si pos­sono stroncare con un po’ di volontà poli­tica. All’Italia sono bastati lo scudo fiscale e l’inserimento nella lista nera del Tesoro per lasciare senza i fondi dei nostri 'fur­betti' la Repubblica di San Marino.
da Avvenire

lunedì 18 marzo 2013

I numeri di Cipro

A Cipro ci sono depositi per 68 miliardi di euro. Di questi 43 sono soldi dei ciprioti, 21 sono di cittadini non europei e 5 di cittadini europei. I depositi europei sono soprattutto di cittadini greci che, spaventati per la crisi greca, hanno spostato i soldi nella vicina Cipro contando di metterli al sicuro. Tra le nazioni europee il Regno Unito è quello che può contare più depositi: 1,9 miliardi. Secondo i calcoli delle banche la tassa chiesta da Bruxelles - il 10% sui depositi sopra i 100 mila euro, il 6,7% sotto quella soglia - costerà 2 miliardi di euro ai russi, che sono gli stranieri con la maggiore quantità di depositi a Cipro. E' dalla fine di febbraio che circolavano voci su possibili tasse sui depositi. Nelle ultime settimane tra i 100 e 150 milioni di euro lasciavano Cipro ogni giorno.
dal Ft

venerdì 28 dicembre 2012

Come è fatto il fiscal cliff


Gli eroi dei film di azione di Hollywood hanno sempre bisogno di arrivare a un istante dalla catastrofe per dimostrarsi veri intrepidi ed evitarla. Lo fanno anche i meno gloriosi politici dei palazzi Washington. Nell’estate del 2011 l’accordo al Congresso sull’innalzamento del tetto del debito pubblico arrivò il 31 luglio: senza un’intesa il Tesoro due giorni dopo non avrebbe potuto pagare i creditori degli Stati Uniti d’America. Il conto alla rovescia sull’indebitamento di Stato è già ripartito: il tetto del debito, oggi a 16.394 miliardi di dollari, sarà raggiunto il 31 dicembre e Timothy Geithner, il segretario al Tesoro, sta studiando le procedure di emergenza per gestire le casse della prima economia mondiale ancora per qualche settimana, nella speranza che entro marzo i membri del Congresso si mettano di nuovo d’accordo.
Le trattative potranno accelerare a gennaio. Adesso è un altro il timer che tiene in ansia l’America e il resto del mondo. I membri del Congresso hanno meno di 100 ore per trovare un accordo ed evitare che la nazione cada nel baratro fiscale – il "fiscal cliff" – dove ad aspettarla c’è una nuova recessione. Il tempo è letteralmente "contato" perché negli Stati Uniti molte leggi sono state introdotte in via temporanea, con una precisa scadenza. Il 31 dicembre scadono norme che prevedono circa 400 miliardi di agevolazioni fiscali e 100 miliardi di spesa pubblica. L’ufficio bilancio del Congresso, che è un organismo indipendente, prevede che queste brusche scadenze spingeranno l’economia americana di nuovo in recessione: se quest’anno il Prodotto interno lordo degli Stati Uniti crescerà del 3,1%, nel prossimo la caduta nel baratro si tradurrà in una discesa del Pil dell0 0,5%.
Concretamente le agevolazioni consistono in aiuti ai redditi medi e alti (il taglio alle tasse vale 221 miliardi di dollari), riduzione del 2% dell’aliquota dei contributi per i dipendenti (95 miliardi), agevolazioni per le imprese (65 miliardi). Senza un intervento, inoltre, scatterebbero aumenti di tassazione sugli investimenti finanziari e sui redditi alti (dai 125 mila dollari in su) per raccogliere 18 miliardi di dollari. Dal lato della spesa pubblica salterebbero 64 miliardi di spese (per metà riguardano la difesa, per l’altra metà i servizi, scuole comprese), i sussidi di emergenza per i disoccupati (per 26 miliardi) e gli aumenti di stipendio dei medici (dovranno rinunciare a 11 miliardi). Il tutto avrebbe un invidiabile risultato sul deficit degli Stati Uniti – il passivo del bilancio pubblicosarebbe quasi dimezzato, passando dai 1.128 miliardi di quest’anno (il 7,3% del Pil) ai 641 miliardi del 2013 – ma affosserebbe il Pil, riporterebbe la disoccupazione ben oltre il 9% (ora siamo sotto l’8%) e peggiorerebbe la crisi globale. Un rallentamento della prima economia del pianeta toglierebbe spazi di mercato alle esportazioni europee ed asiatiche, soffocando una ripresa che, per l’Italia e l’Europa, si prevede comunque apatica.
La "catastrofe" sarebbe graduale, perché gli effetti dei tagli di spesa o degli aumenti delle tasse si sentirebbero solo dopo qualche mese. Ma avremmo anche bruschi cataclismi privati: ad esempio gli assegni di emergenza ai disoccupati, in media da 250 dollari a settimana, sparirebbero già dal prossimo martedì. E nel dubbio sul loro effettivo reddito netto per l’anno prossimo molti cittadini hanno già ridotto le spese, mentre le aziende, nell’incertezza fiscale, tengono in sospeso gli investimenti. Wall Street si aspetta una soluzione, ma ora inizia a mostrarsi preoccupata davero (-1% ieri).
Barack Obama, tornato dalle Hawaii, ha chiamato i leader di repubblicani e democratici per spingere la trattativa. Vorrebbe un’intesa "minima", che rinnovasse tutti i tagli fiscali esclusi quelli per chi guadagna 250 mila dollari. John Boehner, repubblicano e presidente della Camera, aveva proposto ai compagni di partito una tetto a 500 mila dollari ottenendo un rifiuto. Larry Reid, leader dei democratici, ieri si è mostrato preoccupato. «Sembra che siamo diretti verso il "fiscal cliff"» ha detto col tono rassegnato di chi, prima di schivare il baratro, vuole aumentare ancora un po’ la suspense.

da Avvenire di oggi

lunedì 17 dicembre 2012

Il Portogallo vuole tagliare le tasse sul reddito d'impresa

Il governo portoghese ha chiesto alla Commissione europea di portare la sua tassa sul reddito di impresa (l'equivalente dell'Ires italiana, che è al 27,5%) dal 25 al 10% per le nuove aziende. L'idea è che abbassando le tasse si possono attrarre investimenti esteri. E' qualcosa di simile a quello fatto dall'Irlanda, dove la tassa sul reddito delle imprese è al 12%. Un'aliquota al 10 c'è solo a Cipro e in Bulgaria. La media europea è al 22%. Proposte del genere o che almeno vanno in questa direzione  al momento non hanno trovato spazio nei "programmi" dei principali schieramenti politici italiani.

lunedì 10 dicembre 2012

L'Olanda, il più europeo dei paradisi fiscali


Tra gli Stati-falchi che impongono l’austerità all’Unione Europea ce n’è uno che sembra schizofrenico. È l’Olanda, nazione tanto severa nel tassare i propri cittadini ed esigere il rigore dagli altri governi quanto tollerante con le multinazionali che la usano come base di partenza europea per trasferire in esotici paradisi fiscali i miliardi di euro incassati in Europa. Non ci sarebbe nulla di male, se la generosità fiscale degli olandesi non facesse perdere milioni di euro di entrate agli altri Stati dell’Unione.

In Italia la settimana scorsa si è parlato a lungo del caso di Google, che ha ricevuto una visita “fuori programma” della Finanza dopo che il racconto dei suoi complessi stratagemmi fiscali è arrivato alle orecchie del ministro Corrado Passera. Semplifichiamo: il motore di ricerca fattura in Irlanda i soldi della pubblicità venduta a clienti italiani, quindi sposta quasi tutti gli incassi nei Paesi Bassi pagando salate royalties alla sua controllata olandese e infine rimanda il denaro in Irlanda, a una holding di diritto irlandese basata però alle Bermuda. Alla fine del giro il denaro va ai Caraibi e lì si perdono le sue tracce. Google nel 2011 ha pagato appena 8 milioni di euro di tasse sui 12,5 miliardi fatturati in Europa.

Ma il motore di ricerca non è l’unico furbo in un mondo di ingenui. Applicano un sistema molto simile diverse aziende americane, e quasi tutti i colossi del Web, comprese Facebook, Apple, Amazon. Si è rivolta a commercialisti altrettanto abili anche Starbucks, la catena americana dei caffè che qualche giorno fa ha finito per arrendersi alle pressioni del fisco inglese accettando di pagare al Regno Unito 20 milioni di sterline. Dal 1998, anno in cui aveva aperto il suo primo caffè inglese, Starbucks aveva incassato 3 miliardi di sterline lasciando solo 8,6 milioni al fisco.

Colpisce, in tutte queste vicende di furbizie fiscali europee, come ci siano sempre di mezzo l’Irlanda e l’Olanda. Dublino fa meno scandalo perché la sua strategia è nota e più accettabile: arrivata agli anni Novanta come uno dei Paesi più poveri d’Europa, l’Irlanda è riuscita a catturare gli investimenti delle grandi aziende straniere applicando una tassazione bassissima sul reddito d’impresa (l’aliquota è al 12,5% contro il 31% italiano) e sul lavoro (il cuneo fiscale medio è del 15,2% contro il 35% della media europea). Il risultato è che diversi nuovi colossi americani hanno scelto di basare in Irlanda il loro quartier generale europeo, e lì hanno costruito uffici e assunto personale.

Nessuna multinazionale non olandese assumerebbe invece personale nei Paesi Bassi, dove le tasse sul lavoro e sul reddito di impresa non sono particolarmente convenienti. Le migliaia di società olandesi create da aziende straniere sono invece imprese fittizie, senza veri uffici e addetti, quasi sempre affidate a un “trust”, una fiduciaria. Sono società vuote, ma legali e molto diffuse. Hanno almeno una controllata finanziaria in Olanda 80 delle 100 aziende più grandi del mondo. Tra le tante multinazionali che hanno scelto Amsterdam come sede della propria attività europea ci sono Nike (che addirittura ha lì delle "cooperative"), Sun Microsystem, Ikea, Boeing, Disney, Prada, Gucci. È olandese anche Oilinvest, il fondo che raccoglieva i soldi della famiglia Gheddafi, e sarà olandese la nuova Fiat Industrial, dopo la fusione con la controllata Cnh.
Tutti vanno in Olanda perché lì c’è un ambiente fiscale che sembra pensato da un commercialista geniale. Per prima cosa le società olandesi non devono pagare tasse sui dividendi o sui profitti di capitale ottenuti all’estero da società controllate. Poi Amsterdam ha firmato una straordinaria quantità di patti fiscali con altre nazioni (circa un centinaio) per ridurre le ritenute alla fonte su dividendi, interessi e royalties (cioè diritti di proprietà intellettuale) incassati dall’estero. In particolare il patto firmato tra l’Olanda e l’Irlanda fissa l’aliquota a zero in tutti e tre i casi.

Gli accordi fiscali firmati negli anni dall’Olanda con ex colonie o attuali dipendenze esotiche – come l’isola di Aruba, a nord del Venezuela – consentono anche di trasferire denaro verso queste aree con una spesa minima, quando non gratis. Così convogliare ad Amsterdam i soldi rastrellati nel Vecchio Continente e da lì spedirli lontano dagli occhi del fisco europeo, magari ai Caraibi, consente enormi risparmi fiscali. I dati del Fondo monetario internazionale danno un’idea della dimensione di questo fenomeno: l’Olanda ha incassato nel 2011 3.327 miliardi di dollari di “investimenti” dall’estero, 200 miliardi in meno della somma degli investimenti diretti verso Cina e Stati Uniti.

Non è una recente furbizia ad avere reso l’Olanda così conveniente. I Paesi Bassi hanno sempre avuto un’economia basata sul commercio con l’estero. La Compagnia olandese delle Indie orientali, nata all’inizio del 600, è stata una delle prime multinazionali della storia. Evitare una doppia tassazione sui profitti che le società olandesi fanno all’estero è stata un esigenza antica e autentica, che però nel tempo si è trasformata in una cattiva abitudine. Già negli anni Ottanta andava di moda il cosiddetto “Dutch Sandwich” dei Gruppi nordamericani, che consisteva nel far girare i soldi dall’Olanda alle Antille Olandesi per schivare gli occhi del fisco. Quel panino troppo goloso è stato eliminato da Amsterdam - su pressione internazionale - negli anni Novanta. Ma quasi 15 anni dopo i “severi” Paesi Bassi sono ancora il porto franco che permette a tante multinazionali di mandare ai Caraibi i loro profitti europei lasciando a bocca asciutta gli agenti del fisco.
da Avvenire

giovedì 29 novembre 2012

Google, l'Irlanda, le tasse


La finanza ha avviato questo lunedì una verifica fiscale «extraprogramma» su Google Italy Srl. Vuole capire se la società paga le tasse dovute all’Italia. I manager dell’azienda dovevano aspettarselo. Esattamente una settimana prima Corrado Passera li aveva avvertiti. «C’è tanta gente che fa milioni di utili e fa lezione ogni giorno a tutti e poi viene fuori che non paga le tasse. Ma che diamine!» aveva detto il 19 novembre il ministro dello Sviluppo economico durante una tavola rotonda sulle <+corsivo>start up<+tondo> organizzata a Milano dalla Vodafone. «Bisognerebbe andare a prendere anche i tanti piccoli che evadono – aveva continuato il ministro –, ma ciascuna di queste aziende fa milioni di piccoli, quindi prima andiamo addosso a questi». Detto fatto.
L’indagine della finanza italiana è l’ultima puntata di una campagna giornalistica iniziata ormai due anni fa sulle pagine del quotidiano irlandese <+corsivo>Irish Times<+tondo> e arrivata da qualche settimana in Italia. Il meccanismo è complesso: Google è una società californiana che ha dato in licenza la sua attività pubblicitaria (dalla quale arrivano quasi tutte le sue entrate) alla controllata Google Ireland Holdings, società basata in Irlanda per ragioni fiscali (lì le tasse sugli utili sono al 12,5%) ma gestita dalle Bermuda, dove gli utili non sono tassati per niente. Google Ireland Holdings ha a sua volta dato questa attività in licenza a una società sempre del gruppo ma stavolta con sede in Olanda (dove certe audaci manovre fiscali sono permesse, a prezzi da concordare con l’autorità). La società olandese ha poi passato la licenza a Google Ireland Ltd, la vera base europea del gruppo, che raccoglie tutte le entrate della pubblicità venduta in Europa. Buona parte del denaro incassato da Google Ireland Ltd passa come royalty alla società olandese e quindi viene trasferito alle Bermuda. Col risultato che dei 12,5 miliardi di euro che Google ha fatturato nel 2011 attraverso la pubblicità venduta in Europa 9 miliardi sono andati in spese amministrative (comprese le royalty) e alla fine l’utile prima delle tasse si è fermato a 24 milioni di euro. Roba da media azienda.
Google Italy srl ha invece bilanci da piccola azienda: ha chiuso il 2011 con 40,7 milioni di euro di fatturato e utili per 3,3 milioni . All’Erario sono andati 1,8 milioni. Lo Stato incassa di più da un attaccante medio di serie A. Le cifre del bilancio sono uscite su un’inchiesta sul fisco dei colossi della Silicon Valley (sono organizzate più o meno come Google anche la Apple o Amazon) pubblicata sul magazine <+corsivo>Sette<+tondo> a metà novembre. Da quell’indagine giornalistica emerge che Google Italy Srl ha circa il 50% del mercato italiano della pubblicità on line, cioè un giro d’affari di 600 milioni di euro. Però è quasi tutto denaro fatturato direttamente in Irlanda, e quindi inserito in quel circolo che lo fa passare dall’Olanda e arrivare alle Bermuda.
Sollecitato a fare qualcosa proprio da uno dei giornalisti all’origine dell’inchiesta italiana Passera ha promesso che si sarebbe mosso. Tre giorni dopo Stefano Graziano, deputato del Pd, ha presentato un’interrogazione sulla vicenda alla commissione Finanze della Camera e ieri Vieri Ceriani, sottosegretario all’Economia, ha risposto annunciando l’indagine avviata dalla Finanza. In Francia, secondo indiscrezioni, il governo per un caso quasi identico ha chiesto alla società 1 miliardo di euro. L’esito delle verifiche italiane non è scontato: le cifre citate dal sottosegretario – 96 milioni di euro di Iva che Google non avrebbe pagato sui 240 milioni incassati in Italia tra il 2002 e il 2006 – si riferiscono una simile indagine completata dalla Finanza nel 2007 ma di cui ancora non si conosce il risultato definitivo. L’azienda è tranquilla: «Google – ha comunicato ieri – rispetta le leggi fiscali in tutti i Paesi in cui opera e siamo fiduciosi di rispettare anche la legge italiana. Continueremo a collaborare con le autorità competenti». Lo aveva ammesso lo stesso Passera: in queste aziende quando si tratta di fisco «sono veramente bravi, anche se non riesco a usare la parola bravi per chi evade le tasse...».
da Avvenire

giovedì 22 novembre 2012

Benzina e tasse - un aggiornamento


Certi italiani, probabilmente quelli che ci badano meno, alla fine dell’estate erano arrivati a pagare 2 euro per avere un litro di benzina. Tra fine agosto e inizio settembre applicavano questo prezzo strabiliante le stazioni di rifornimento più piccole, vecchie e rigorosamente senza il fai-da-te. Un pieno sotto i 2 euro al litro, in realtà, è sempre stato disponibile in ogni città d’Italia. In queste settimane chi dà un’occhiata attenta ai listini dei distributori prima di entrarci può trovare benzinai che vendono la verde a 1,7 euro al litro, o anche a meno, e il gasolio attorno agli 1,65 euro al litro.
Con la benzina funziona così: quando il prezzo sale fa molto rumore, quando scende se ne parla appena. Dalle rilevazioni del ministero dello Sviluppo economico – l’ultima è del 19 novembre – emerge che il prezzo medio della benzina negli ultimi tre mesi è sceso di 15 centesimi, da 1,89 a 1,74 euro al litro, quello del gasolio è calato della metà, da 1,78 a 1,70 euro al litro. Queste diminuzioni si spiegano con il miglioramento del cambio tra euro e dollaro e un calo delle quotazioni internazionali. Non tanto quelle del petrolio grezzo – il Brent europeo è sempre attorno ai 115 dollari al barile – quanto quelle del Platts, il mercato su cui si scambiano i prodotti raffinati. Su questa piattaforma il prezzo della benzina in euro è sceso dalla media di 67 centesimi al litro di agosto ai 55 centesimi attuali, quello del gasolio è passato da 68 a 63 centesimi al litro. Anche a guardare lo “stacco”, cioè la differenza tra il prezzo della benzina in Italia e la media europea, al netto delle tasse, la tendenza è positiva: sia per la benzina che per il gasolio siamo attorno ai 2,5 centesimi al litro, cioè sotto i 4 centesimi considerati “strutturali”.
Ma ne ha di strada da scendere, la benzina, prima di tornare a valori sensati. Nei 27 Stati dell’Unione europea la verde costa in media 1,61 euro al litro, il gasolio 1,46, cioè rispettivamente 15 e 24 centesimi in meno dei prezzi italiani, che sono entrambi al secondo posto nella classifica europea. Tutta colpa delle tasse, mostruosamente salite dal 2011 ad oggi fino a pesare più di 1 euro su un litro di benzina e 91 centesimi su un litro di gasolio. Nessun Paese della zona euro tassa i carburanti come l’Italia. Nell’intera Unione europea, e solo per l’effetto cambio, solo il fisco inglese è più esoso del nostro. L’ultimo aumento, subdolo, è nella legge di stabilità, con una norma che rende stabile il rincaro delle accise dicirca 4 centesimi al litro introdotto in agosto per finanziare la ricostruzione delle zone terremotate dell’Emilia. Doveva durare fino a fine anno, invece - come è successo fin dai tempi della guerra di Abissinia - resterà per sempre. In questo contesto l’unico che ci guadagna è lo Stato: nei primi 10 mesi dell’anno, calcolano dal Centro studi promotor, i consumi di carburanti sono scesi del 10% (a 32,8 miliardi di litri), la cifra spesa dagli italiani per fare il pieno è però aumentata del 6,9% (a 56,8 miliardi) e l’incasso dell’erario ha segnato un +15,5%, a 26 miliardi di euro.
I benzinai sono infuriati, ed è difficile non capirli. Già fanno un’attività a bassissimo margine, dato che guadagnano in media 3-5 centesimi ogni litro venduto (gli utili grossi, nella filiera del petrolio, si fanno ormai solo con i pozzi), adesso stretti tra le pressioni del fisco e quelli delle compagnie rischiano di fallire uno dopo l’altro. Non si oppongono al piano di riduzione della rete di distribuzione, troppo grande e costosa, ma non vogliono stare zitti mentre vengono soffocati. Ieri le organizzazioni dei gestori Faib Confesercenti, Fegica Cisl e Figisc/Anisa hanno annunciato che spegneranno le pompe dal 12 al 14 dicembre e per una settimana, a fine mese, non accetteranno i pagamenti con le carte di credito. Accusano il governo di non avere mantenuto le promesse fatte questa estate e le compagnie petrolifere di non rinnovare gli accordi collettivi. Il governo, per convincerli a rinunciare alla protesta, ha convocato un tavolo per il 4 dicembre. Un taglio di quelle tasse che pesano per più della metà di ogni pieno, però, sembra improbabile.
da Avvenire di oggi

mercoledì 31 ottobre 2012

La tassa di successione negli Stati Uniti

La tassa di successione negli Stati Uniti attualmente prevede un'aliquota del 35% sulle eredità, ma solo sui valori da 5 milioni di dollari in su. Questa soluzione è frutto di un accordo del 2010 tra democratici e repubblicani. Quello stesso accordo prevede che la tassa - quasi eliminata da Bush - ritorni al 55% l'anno prossimo mentre la soglia minima nel frattempo scenderebbe a 1 milione. Non succederà: Romney vuole cancellare la tassa di successione mentre Obama ora propone un'aliquota del 45% dai 3,5 milioni in su. Nel 2011 questa tassa ha generato entrate da 7,4 miliardi di dollari, quest'anno dovrebbe arrivare a 11 miliardi.

martedì 16 ottobre 2012

Definitivo il rialzo dell'accisa sulla benzina

L'articolo 12, comma 13, del ddl stabilità stabilisce che gli aumenti dell'accisa sulla benzina legati alle emergenze di Emilia e Abruzzo «restano confermati» dal primo gennaio prossimo. «Resi stabili», chiarisce la Relazione tecnica della Ragioneria. Che poi quantifica questa "stabilizzazione" in entrate aggiuntive per 947 milioni nel 2013, 840 nel 2014 e 863 dal 2015. Si tratta di 2 centesimi e 37 in più su ogni litro di benzina o gasolio: 2 centesimi per l'Emilia e 37 per Abruzzo e gestori.
da Repubblica

lunedì 16 luglio 2012

La Cina taglia le tasse alle società straniere

Il governo di Pechino ha annunciato una riduzione del 50% dell'aliquota fiscale sui profitti cinesi ottenuti dalle imprese straniere basate in nazioni che hanno un accordo sulla doppia-tassazione.con la Cina. L'aliquota era del 10% e ora scenderà al 5%. Si applica anche sui dividendi.
dal Ft

lunedì 26 marzo 2012

Cosa spinge i prezzi della benzina e chi ci guadagna

da Avvenire del 25 marzo 2012


1.Perché la benzina a­desso costa quasi 2 euro al litro?

Gli attuali prezzi dei carburanti (1,87 cente­simi al litro in media la benzina, 1,78 il ga­solio, se si considerano i listini al 'servito') sono il risultato di due fattori. Quello do­minante è il fattore fiscale. Lo scorso anno il governo Berlusconi ha alzato per quattro volte le accise su benzina e gasolio, portan­dole rispettivamente da 56,4 e 42,3 a 62,2 e 48,1 centesimi al litro. Il governo Monti ha aggiunto un quinto e più sostanzioso aumento, che ha portato l’accisa sul­la
 benzina a 70,4 centesimi al litro e quella sul gasolio a 59,3 centesimi al li­tro. A settembre, i­noltre, l’Iva (che si calcola sia sul prez­zo industriale della benzina che sull’accisa) è stata portata dal 20 al 21%, producendo così un rialzo linea­re dell’1%. E a gennaio 5 giunte regionali hanno fatto scattare le addizionali locali, o­ra applicate in 10 Regioni su 20. In breve: durante il 2011 le tasse nazionali sul carbu­rante sono salite di 16 centesimi al litro per la benzina e di 20 per il gasolio. L’altro fat­tore dietro gli aumenti è il costo della ma­teria prima, che si è impennato ne­gli ultimi mesi. Il Platts cif Med, l’in­dice delle quotazioni dei carburan­ti sui mercati europei, tra novembre scorso e oggi è salito per la benzina da 52 centesimi a 67 centesimi al li­tro, per il gasolio da 62 a 69 centesi­mi.

1.34


2.
Come mai questo Platts au­menta
 tanto?

La quotazione Platts – elaborata dal­l’omonima agenzia internazionale sulla base degli scambi quotidiani di prodotti petroliferi tra le varie a­ziende della filiera del petrolio – e­sprime il prezzo 'all’ingrosso' della benzina e del gasolio. Su questi va­lori incidono sia la normale dinami­ca della domanda e dell’offerta (di prodotti già raffinati) che la quota­zione
 del prodotto da raffinare, cioè il pe­trolio. La quotazione del petrolio 'europeo', il Brent, tra dicembre e oggi è salito da 104 a 125 dollari al barile (in euro il passaggio è da 75 a 94 euro al barile). La quotazione è e­levatissima, tanto che ieri l’Agenzia inter­nazionale dell’energia ha lanciato l’allarme: a questi prezzi si rischia la recessione. Le tensioni iraniane pesano ma non spiegano questa impennata. Non si capisce cosa ci sia dietro. Lo stesso ministro del Petrolio saudita, Alì al Naimi, ha detto che non ca­pisce cosa stia spin­gendo il prezzo. L’U­nione petrolifera ha detto qualche setti­mana fa che le ban­che stanno facendo salire i prezzi perché investono anche sui

futures
 petroliferi i 1.000 miliardi di eu­ro avuti in prestito agevolato dalla Bce. I tempi dei rialzi, in effetti, coincidono.

3.
Chi sta guadagnando da questi rincari?


Sicuramente ci guadagnano i Paesi espor­tatori che, secondo i calcoli dell’Aie, que­st’anno guadagneranno dal petrolio la cifra più alta di sempre: 1.200 miliardi di dollari. Anche le compagnie petrolifere, che estrag­gono
 e raffinano il greggio più o meno con gli stessi costi di prima, vedono sali­re i loro margini. Fe­steggiano anche al­l’Erario: nei primi due mesi del 2012, secondo i calcoli del centro studi Promo­tor, il Tesoro ha già incassato 5,5 miliar­di dai carburanti, con un aumento del 19,8% rispetto a un an­no fa. E questo nonostante i consumi nel frattempo siano diminuiti del 9,6%. Chi ci perde, infatti, sono evidentemente gli ita­liani, che per fare meno rifornimento han­no comunque già speso in due mesi 10,1 miliardi quest’anno, l’11% in più nel con­fronto con il 2011. Senza contare che i rincari dei trasporti provocano un aumento generalizzato dei prezzi de­gli altri beni che si devono spostare per il Paese. E ci perde anche il ben­zinaio, che ha un margine fisso al li­tro (tra i 4 e i 5 centesimi) ma sta ven­dendo meno carburante di prima.

4.
Anche nel resto d’Europa i prezzi salgono tanto?


Quasi, nel senso che tra lo scorso no­vembre e oggi in Europa il prezzo me­dio della benzina è salito del 9% e quello del gasolio dell’11%, mentre in Italia gli aumenti sono stati del 14% in entrambi i casi. Questo, però, se si considerano le tasse. Al netto delle imposte, il rialzo europeo è del 18% per la verde e del 9% per il diesel, quello italiano è del 15% sulla benzi­na e dell’8% per il gasolio. Senza le nuove tasse, che ci hanno 'regalato' la benzina più cara d’Europa e il se­condo gasolio più costoso, saremmo vicini alla media Ue. Difatti il cosid­detto 'stacco', cioè la differenza, tas­se escluse, tra il prezzo al litro del car­burante italiano e la media europea (calcolato dall’Unione petrolifera) si è ridotto dai 3,6 centesimi medi del 2011 agli attuali 2,5 centesimi. La ten­denza al rialzo è comunque globale. Gli Usa, ad e­sempio,
 sono in al­larme perché in al­cuni Stati la benzi­na ha superato la soglia di 4 dollari al gallone (che ai cam­bi attuali sono 81 centesimi al litro).

5.
Cosa si può fare per fermare gli aumenti?


Sul lato fiscale, se non si vogliono tagliare le tasse, si potrebbe almeno ritentare la strada della sterilizzazione dell’Iva: un meccanismo che riduce l’accisa (e quindi l’imposta) per un certo periodo quando il prezzo della materia prima supera una cer­ta quota. Sperimentata nel 2000 e nel 2008,
 la sterilizzazione ha permesso risparmi modesti, nell’ordine dei 2 centesimi al li­tro. Sul lato industriale si può agire solo su quei 15-16 centesimi al litro che sono il margine lordo di gestori e compagnie. U­na loro riduzione di un terzo vale al mas­simo 5 centesimi. Le liberalizzazioni ap­pena approvate permettono ai benzinai di vendere altri prodotti e di restare sempre aperti, così i gestori hanno una base di gua­dagno più larga e sono meno 'benzina-di­pendenti'. Questo permette loro un con­tenimento del prezzo. Ma tra sconti, fai da te e 'pompe bianche' è inutile sperare in risparmi che vadano oltre i 10-15 centesi­mi al litro.

Pietro Saccò
  

martedì 13 marzo 2012

La storia fiscale (recente) d'italia


La serie storica della pressione fiscale in Italia elaborata dalla Cgia di Mestre su dati Istat (i dati sono in percentuale sul Pil).
----------------------------------------------------------------
   Anni                Pressione fiscale
----------------------------------------------------------------
   1980                      31,4
   1981                      31,1
   1982                      34,1
   1983                      36,3
   1984                      34,9
   1985                      34,6
   1986                      35,0
   1987                      35,4
   1988                      36,6
   1989                      37,3
   1990                      38,2
   1991                      39,2
   1992                      41,7
   1993                      42,7
   1994                      40,6
   1995                      40,9
   1996                      41,4
   1997                      43,4
   1998                      42,2
   1999                      41,9
   2000                      41,3
   2001                      41,0
   2002                      40,5
   2003                      41,0
   2004                      40,4
   2005                      40,1
   2006                      41,7
   2007                      42,7
   2008                      42,6
   2009                      43,0
   2010                      42,6
   2011                      42,5