Cerca nel blog

venerdì 20 dicembre 2013

Gli anni di Bernanke alla Federal Reserve

Il vecchio Richard Shelby, storico senato­re dell’Alabama, glielo aveva detto. Lo a­veva avvertito precisamente il 15 no­vembre 2005, quando Ben Shalom Bernanke si era presentato in Senato per ottenere la conferma della nomina alla guida della Fe­deral Reserve avuta qualche mese prima dal presidente George W. Bush. «Spero che non debba avere a che fare con una crisi da ge­stire, ma so che le capiterà» aveva detto Shelby introducendo una domanda sulle ca­pacità della Fed di reagire a una crisi. Ber­nanke aveva risposto di avere fiducia negli strumenti a disposizione della Banca cen­trale americana. «E farò sicuramente del mio meglio – aveva promesso – per essere pre­parato a qualsiasi cosa possa incontrare lun­go la mia strada. Ma credo che siano stati fat­ti progressi nel rafforzare il sistema per resi­stere meglio davanti agli choc».

O Shelby è un gran menagramo o un vero indovino, perché la crisi che aveva pronosti­cato è arrivata ed è stata gigantesca. Ber­nanke si era detto pronto a tutto ed è stato servito. Questo geniale ebreo americano del­la Georgia, nipote di un immigrato polacco e figlio di un farmacista e di una maestra, si è trovato a dovere gestire: il collasso del si­stema finanziario americano e forse mon­diale, una clamorosa caduta del Pil degli Sta­ti Uniti, l’incapacità di rialzarsi dell’econo­mia globale. È entrato in carica nel febbraio del 2006 e un anno dopo sono arrivati i pri­mi scricchiolii dai mutui subprime.Nell’e­state del 2008 la crisi dell’immobiliare ame­ricano era già enorme. Il 15 settembre falli­va Lehman Brothers e la finanza mondiale finiva nel panico. Bernanke spiegherà che la Fed sarebbe anche intervenuta, ma il Teso­ro non poteva salvare Lehman con soldi pub­blici e il Congresso si sarebbe probabilmen­te opposto. Insomma, se lasciare fallire Leh­man Brothers è stata una colpa – e questo è tutt’altro che scontato – comunque è una colpa che Bernanke condivide con molti al­tri.
Più 'sua' è la responsabilità – e anche su questa solo la storia dirà se ha fatto bene o male – di avere tentato di spingere la ripre­sa guidando la Fed con un’audacia mai vista. Bernanke non si è limitato ad azzerare il co­sto del denaro (ha ereditato tassi al 4,5% ha provato a portarli sopra il 5% ma ha finito per ridurli bruscamente fino all’attuale 0-0,25%, fissato a fine 2008) ma ha anche usa­to i soldi potenzialmente illimitati della Fed per gonfiare il Pil degli Stati Uniti. Nel no­vembre del 2008 la Banca centrale ha avvia­to il primo quantitative easing ,un piano per rendere ancora più abbondante la disponi­bilità di denaro non solo usando i tassi ma anche la creazione di moneta. La Fed ha i­niziato a comprare miliardi e miliardi di ti­toli legati ai mutui e obbligazioni del Tesoro. Si è fermata dopo un anno e mezzo di tem­po e 1.300 miliardi di spesa, quando sem­brava che la ripresa fosse abbastanza forte da resistere senza aiuti. Ma non era vero, e Ber­nanke – nel frattempo confermato da Barack Obama – è stata costretto a riprendere lo shopping dopo pochi mesi. Il secondo pia­no diquantitative easing è durato altri sei mesi ed è costato altri 600 miliardi alla Fe­deral Reserve. Anche questa operazione non è stata sufficiente. Nel settembre del 2012 Bernanke ha annunciato che la Fed si sa­rebbe messa a comprare ogni mese titoli le­gati ai mutui per 40 miliardi di dollari e a di­cembre ha alzato il tiro fino a 85 miliardi. Gli acquisti, ha spiegato la Fed, sarebbero andati avanti finché la ripresa non fosse stata so­lida. E per ripresa solida, ha chiarito Ber­nanke, si intende con una disoccupazione al 6,5%. Il tasso oggi è al 7% e il bilancio del­la Fed in sette anni è cresciuto da 800 mi­liardi a 4mila miliardi di dollari. Sugli effet­ti positivi o meno del quantitative easing è aperto il dibattito tra i massimi economi­sti del mondo. Quelli sondati dal Wall Street Journal si sono divisi equamente tra so­stenitori e critici. Dai giornalisti Bernanke sarà ricordato an­che come il governatore che ha 'inventa­to' la conferenza stampa per annunciare le decisioni della Fed. Quella dell’aprile del 2011 è stata la prima nel secolo di storia della banca centrale americana. Quella di ieri è stata l’ultima con Bernanke come protagonista. Se al debutto era stato ava­rissimo di notizie, all’addio ha regalato ai cronisti l’inizio del tapering. Quasi una galanteria, per evitare che toccasse a Ja­net Yellen, che da gennaio lo sostituirà alla guida della Fed, l’onere di dare la prima – indispensabile – frenata.
da Avvenire

martedì 17 dicembre 2013

Le tasse scontate per la rivalutazione della Banca d'Italia

Il controverso decreto legge che riforma la Banca d’Italia, in di­scussione in questi giorni al Sena­to, non precisa quante tasse dovran­no pagare i soci della nostra Banca centrale sui profitti che otterranno. Non è una variabile da poco. La rifor­ma rivaluta le quote della Banca d’I­talia di 50mila volte, portandone il va­lore complessivo da 156mila a 7,5 mi­liardi di euro. In questo modo il de­creto genera dal nulla un profitto e­norme per quelle banche private che hanno ereditato dal loro passato di i­stituti di credito statali il possesso del 95% delle quote della Banca centrale, e che adesso possono venderle o te­nerle per migliorare i loro bilanci. L’as­senza di chiarezza sulla tassazione di questa generosa rivalutazione era sta­ta segnalata anche come un proble­ma nell’audizione in Senato di Igna­zio Visco, governatore della Banca d’I­talia, e Giovanni Sabatini, presidente dell’Associazione bancaria.

Il governo ha provveduto intervenen­do sulla legge di Stabilità. Un emen­damento introdotto dall’esecutivo al comma 91 della finanziaria stabilisce che su quei 7,5 miliardi di rivalutazio­ne i soci della Banca d’Italia paghe­ranno un’aliquota del 12%, sostituti­va dell’Ires, dell’Irap e di eventuali al­tre addizionali. Il versamento sarà in tre rate, senza interessi, di cui la prima nella prossima primavera.

È un trattamento molto favorevole per le banche che hanno quote nella Ban­ca centrale (a partire da Intesa San­paolo,
 UniCredit e Generali, che as­sieme controllano il 71%). Se su quei 7,5 miliardi di profitti avessero dovu­to pagarci l’Ires, l’imposta sui redditi delle imprese, l’aliquota sarebbe sta­ta più che doppia (al 27,5%) in condi­zioni normali e addirittura tripla l’an­no prossimo, considerato che per il 2014 l’Ires su banche e assicurazioni subirà un’addizionale di altri 8,5 pun­ti percentuali. Per l’Erario si parlereb­be di un incasso di oltre due miliardi e mezzo di euro.

Invece, se l’emendamento passerà, lo Stato dovrà accontentarsi di incassa­re 900 milioni di euro. Poco, conside­rato che fino ai giorni scorsi si parla­va di un gettito superiore al miliardo da ottenere attraverso un’imposta compresa tra il 16 e il 20%. Nel primo caso il gettito sarebbe stato di 1,2 mi­liardi, nel secondo di 1,5 miliardi. Di questi tempi 600 milioni di euro in più da ottenere su questo mezzo regalo alle banche sarebbero potuti essere molto utili per le casse pubbliche.

Un altro aiuto alle banche arriverà dal possibile ritiro dell’emendamento sul­la Tobin Tax. La modifica corregge­rebbe la tassa sulle transazioni finan­ziarie, che ha dato risultati molto al di sotto delle aspettative, abbassando l’a­liquota
 (dallo 0,1 allo 0,01%) ma ap­plicando l’imposta a tutte le transa­zioni finanziarie, escluse quelle sui ti­toli di Stato. Il testo ha trovato un ap­poggio trasversale: tutti i capigruppo della Commissione Bilancio della Ca­mera la hanno sostenuta. Ma il gover­no è contrario e il viceministro dell’E­conomia, Stefano Fassina, ha chiesto di ritirarla: «L’obiettivo è condiviso, ma la portata dell’operazione è molto ri­levante, non è un caso se nessuno Sta­to nazionale ha fatto questa opera­zione prima di noi». I sostenitori del­l’emendamento, a partire da Luigi Bobba, del Pd, primo firmatario del testo, potrebbero accettare il ritiro a condizione che a gennaio il governo riapra, in Italia e in Europa, il dibatti­to sulla tassa anti-speculazione.


giovedì 12 dicembre 2013

La riforma della Banca d'Italia. Perché no

La riforma della Banca d’Italia non è uno di quegli argomenti di cui si chiacchiera nei bar. Se proprio devono parlare di politica, gli italiani discutono piuttosto dell’Imu e dei suoi sostituti dai nomi esotici. Ma in questi giorni l’abolizione della tassa sulla casa (almeno nella sua vecchia forma) e la trasformazione della nostra Banca centrale in una public companycondividono lo stesso destino, perché il governo a fine novembre li ha inseriti nel medesimo decreto legge, il numero 133. Un testo che adesso è in discussione in Senato e che, se approvato in via definitiva dal Parlamento, può rendere il nostro Paese un caso unico al mondo: in nessun’altra nazione investitori privati stranieri possono avere una quota di maggioranza della Banca centrale.

Sono pochissime le Banche centrali non interamente di proprietà dello Stato. Soltanto la Federal Reserve americana, istituita un secolo fa, si serve di "banche centrali federate" il cui capitale è sottoscritto da privati. Ma questi privati sono le stesse banche (tutte, senza eccezioni), obbligate a partecipare al capitale se vogliono esercitare il mestiere di istituto di credito. E comunque le banche americane non sono vigilate dalla Fed, ma dal governo, e sono soci simbolici: le azioni non sono trasferibili e somigliano a una sorta di lasciapassare. Invece la Banca d’Italia è scivolata in mani private durante gli anni Novanta, quando le banche statali che ne controllavano il capitale sono state privatizzate.

Così oggi banche e società di assicurazioni italiane controllano il 94,3% delle quote di Bankitalia, gli enti pubblici Inps e Inail hanno il restante 5,7%. Gli azionisti privati della Banca d’Italia naturalmente non possono intervenire in nessun modo sull’attività istituzionale e le scelte di politica monetaria. Ma c’è un motivo se in quasi tutto il mondo la Banca centrale è gestita dallo Stato. Stampando denaro dal nulla in regime di monopolio e impiegandolo in titoli e prestiti alle banche in cambio di un interesse – l’attività di "signoraggio" – ogni istituto centrale incamera degli utili. Per esempio la nostra Banca centrale nel 2012 ha fatto utili per 2,5 miliardi. Soldi che per statuto vengono in parte messi "a riserva", in parte distribuiti allo Stato e in (piccola) parte divisi tra i soci.

Non c’è motivo per cui dei privati debbano guadagnare da un’attività di totale monopolio concesso per legge dallo Stato. Infatti il Parlamento aveva deciso, nel 2005, che i titoli della Banca centrale sarebbero dovuti tornare sotto il controllo pubblico. Soltanto che lo stesso Parlamento non ha mai approvato il regolamento per l’attuazione di questa legge e quindi il ritorno allo Stato della Banca d’Italia non è mai avvenuto.

La riforma decisa dal governo il 27 novembre abolisce la legge del 2005 e trasforma la Banca d’Italia in una società a proprietà diffusa (una public company, appunto) in cui nessuno può avere una quota superiore al 5%. Attualmente sono tre le banche che superano quella soglia: Intesa Sanpaolo, UniCredit e Generali, che assieme posseggono il 71% del capitale. Quindi dovrebbero cedere complessivamente il 56%.

Il decreto stabilisce che gli azionisti possono essere banche, fondazioni bancarie, società di assicurazioni, enti di previdenza e fondi pensione. Le norme europee non ammettono in generale discriminazioni all’interno dell’Unione, quindi il governo ha pensato bene di stabilire che questi soci possono venire da qualunque dei ventotto Paesi della Ue. Se gli acquirenti delle quote da cedere fossero nuovi soci stranieri, allora ci ritroveremmo con una Banca d’Italia non più italiana.

Così ad esempio – come ha notato Massimo Mucchetti, l’ex vicedirettore del "Corriere della Sera" eletto senatore con il Pd – può succedere che «all’assemblea annuale di Via Nazionale il delegato di una banca cipriota quotista, magari legato ai servizi segreti russi, possa venire a concionare». Con questo decreto il governo dà un aiuto alle banche azioniste e fa incassare qualcosa all’Erario. La legge aggiorna il valore del capitale della Banca d’Italia, che era rimasto alle lire del 1936 (300 milioni, cioè circa 156mila euro) e lo porta a 7,5 miliardi.

Una manna per le banche azioniste: la loro partecipazione nella Banca centrale si rivaluta di quasi 50mila volte. Il decreto del governo corteggia le banche stabilendo che se rivaluteranno nei loro bilanci le quote della Banca d’Italia che detengono allora avranno conti migliori da presentare aglistress test a cui la Banca centrale europea le sottoporrà il prossimo anno. Un abbellimento che però deve ancora essere approvato dalla Bce. Il governo, invece, tasserà queste rivalutazioni per incassare circa un miliardo (soldi che potrà usare per fare quadrare il bilancio pubblico del prossimo anno).

Tutti contenti, dunque? Non proprio, e difatti la riforma sta incontrando più di un ostacolo in Parlamento e anche a Francoforte, dove la Bce non ha potuto ancora dare il suo parere sulla nuova legge a causa – pare – delle forti perplessità della "solita" Bundesbank: i tedeschi considerano questa rivalutazione delle quote un ingiusto regalo alle banche italiane e sospettano che si tratti di una manipolazione vietata dai principi contabili internazionali con i quali i bilanci debbono essere redatti. Può darsi che abbiano ragione.

«Con la Banca centrale europea stiamo facendo una figura molto meschina» ammette Fulvio Coltorti, economista e direttore emerito dell’area studi di Mediobanca. Assieme ad Alberto Quadrio Curzio, Coltorti ha proposto, già dallo scorso aprile, una soluzione che permetterebbe di fare della Banca d’Italia una leva per la crescita dell’economia nazionale. Il piano, battezzato "Bankoro", dal punto di vista tecnico è abbastanza complesso. Semplifichiamo. I due economisti propongono che il Tesoro costituisca la Bankoro Spa, una società della Banca d’Italia che compri l’oro custodito da via Nazionale, 79 milioni di once che ai prezzi attuali valgono circa 72 miliardi di euro.

Attraverso questa vendita la Banca d’Italia avrebbe un profitto su cui dovrebbe pagare circa 20 miliardi di tasse. Il Tesoro incasserebbe quei soldi e li userebbe per liquidare gli attuali soci non pubblici della Banca d’Italia, diventandone socio per oltre il 90%. I soldi incassati dalle banche private in questa operazione sarebbero utili "realizzati", e quindi validi a tutti gli effetti per aumentare il loro patrimonio, che reggerebbe meglio gli stress test della Bce senza rischiare accuse di manipolazioni. Data la loro origine, tuttavia, questi utili sarebbero vincolati in un fondo che lo Stato non tasserebbe per un certo numero di anni, a patto che impieghi le sue risorse per finanziare gli investimenti di aziende particolarmente dinamiche, capaci quindi di "spingere" la ripresa della nostra economia.

«La nostra proposta – spiega Coltorti – parte dall’idea che l’oro della Banca d’Italia appartiene agli italiani. Rivalutarlo può servire a creare un fondo per finanziare la crescita di un Paese in forte depressione economica». L’economista è andato a vedere quanto altre Banche centrali europee hanno versato ai loro Stati negli ultimi quattordici anni, cioè da quando esiste l’euro, sotto forma di tasse e utili: 26 miliardi la Banque de France, 55 miliardi la Bundesbank, 4,6 miliardi la Banca d’Italia.

Questo non tanto perché i profitti della Banca d’Italia siano stati distribuiti tra i suoi azionisti (le banche hanno avuto 709 milioni in 14 anni) ma soprattutto perché la nostra Banca centrale mette molti dei suoi utili "a riserva", e così ha accumulato un tesoretto enorme, che oggi contiene, oltre all’oro, più di 38 miliardi di euro in titoli di Stato, azioni, quote di fondi. La soluzione "Bankoro" sarebbe un modo perché quei soldi vadano a spingere una ripresa che non c’è e che i più ottimisti prevedono comunque debolissima.
La riforma in discussione in Parlamento – elaborata da un ministro, Fabrizio Saccomanni, che viene proprio dalla Banca d’Italia – va in una direzione molto diversa. Coltorti critica anche gli aspetti tecnici. Non solo l’idea della public company in cui possono entrare degli stranieri. Ma anche la perizia appare «non proprio condotta a regola d’arte»: è firmata da tre periti scelti dalla stessa Banca centrale – l’ex presidente della Corte costituzionale Franco Gallo, l’ex vicepresidente della Bce ed ex primo ministro greco Lucas Papademos e il rettore della Bocconi, Andrea Sironi – e il governo ha poi scelto di adottare il valore massimo della loro stima (che suggeriva una forchetta da 5 a 7,5 miliardi).

L’economista una sua spiegazione su queste scelte se l’è data: «Così stando le cose, la Banca d’Italia dimostra di volersi smarcare dal controllo pubblico facendo mancare al sistema il suo aiuto nella fase peggiore della crisi. Ma i profitti di una Banca centrale nascono sulle spalle dello Stato e ad esso devono tornare. Altrimenti finiscono ad alimentare una corporazione che punta solo a garantirsi la sopravvivenza in mezzo a famiglie e imprese sempre più impoverite. Diciamo sempre che vogliamo abbatterle, le corporazioni, e invece...».

mercoledì 11 dicembre 2013

Draghi e Visco rassicuranno Weidmann

In questi anni abbiamo visto le Banche centrali pren­dere decisioni che sarebbero state impensabili fino a poco tempo fa: hanno azzerato i tassi, allargato spaventosamente i loro bilanci, prestato enormi quan­tità di denaro alle banche, comprato miliardi di titoli, e non solo titoli di Stato. Sarà ora di fare ordine e chia­rire che gli obiettivi, se non il mandato, delle Banche centrali sono cambiati?

Secondo Mario Draghi e Ignazio Visco no, non ce n’è bisogno. L’ex governatore della Banca d’Italia passato alla guida della Banca centrale europea e il suo suc­cessore a Palazzo Koch ne han­no parlato a un convegno ro­mano in memoria di Curzio Giannini, economista e grande studioso delle Banche centrali scomparso dieci anni fa. Il tema, per Draghi, era evidentemente insidiosissimo: la Bun­desbank, già insofferente per le politiche monetarie aggressive sperimentate a Francoforte, non aspetta al­tro che nuove occasioni per andare all’attacco. Ma Dra­ghi non ha dato spunti perché il governatore tedesco Jens Weidmann potesse allarmarsi. È partito da una delle idee di Giannini, quella per cui le Banche centra­li e il denaro si basano sulla «fiducia», per chiarire che perché i cittadini possano fidarsi, e quindi accettare le scelte di un ente sovranazionale come la Bce, questa non può fare scelte che vanno oltre il suo mandato, che consiste nel mantenere la stabilità dei prezzi. «La fiducia è intimamente collegata con l’agire all’interno del proprio mandato. La Bce sta operando e deve o­perare solo all’interno del suo mandato» ha assicura­to Draghi. Poi, a braccio, ha ricor­dato che la 'sua' Banca centrale «è potente, è indipendente ma non è eletta» quindi deve rispettare il compito avuto dai legislatori. Il mandato, però, può includere an­che misure ardite come il piano sal­va- Stati Omt o il prestito salva-ban­che Ltro, che sono «la ricerca della stabilità dei prezzi con tutti i mez­zi che la situazione richiede».

Visco, come era prevedibile, non la vede diversamente. «Non c’è biso­gno di trasformare la stabilità fi­nanziaria in un obiettivo delle politiche monetarie» ha detto il governatore della Banca d’Italia, «fare della sta­bilità finanziaria un obiettivo esplicito e supplemen­tare della politica monetaria può creare confusione sulle responsabilità e creare il rischio di conflitti».

Visco, come era prevedibile, non la vede diversamente.


da Avvenire

martedì 26 novembre 2013

La ripresa? Occhio allo shopping di Natale

Attenti agli acquisti, da qui a Natale. Sarà lo shopping delle pros­sime settimane a dirci se l’e­conomia italiana l’anno pros­simo migliorerà in maniera significativa. Parola di Mario Deaglio, uno dei più autore­voli economisti italiani: «Se le cose funzionano dovremo a­vere un miglioramento lieve già nei consumi natalizi». L’indicazione del professore piemontese (un’indicazione, non una previsione, dato che «nell’economia attuale fare previsioni è molto più diffici­le rispetto a vent’anni fa») può essere presa come la massima sintesi del più com­plesso ragionamento conte­nuto nel Diciottesimo rap­porto sull’economia globale e l’Italia, frutto della collabo­razione tra il Centro di ricer­ca Luigi Einaudi e Ubi Banca.
Contano gli acquisti di Nata­le perché al centro della crisi italiana c’è la paura di spen­dere. «Le famiglie sono anco­ra solide dal punto di vista fi­nanziario, ma hanno paura del futuro – spiega Deaglio –. Quindi contraggono i consu­mi e piuttosto comprano Btp». Ecco che allora «supe­rare la paura di compiere ac­quisti necessari e già rinviati» è un passaggio fondamenta­le per fare ripartire la nostra economia, e quindi «è com­prensibile che si ragioni sui 200 euro in più o in meno...». L’acquisto non più rimanda­to può essere il fattore capa­ce di fare girare verso l’alto la curva della crescita italiana. L’alternativa e un lieve recu­pero e un’immediata stabi­lizzazione su bassi livelli. Se­condo l’analisi del Centro Ei­naudi, per dare più forza a questa risalita debole attesa per il primo trimestre del­l’anno prossimo occorrono poi altri due passaggi: il pri­mo è ricominciare a ragiona­re per settori, nel senso di de­cidere su quali punti di forza puntare per i prossimi anni; il secondo è recuperare i soldi pubblici sprecati e usarli per «iniziative produttive». Ba­sterà? No, se l’Europa non ci aiuta e non facciamo le rifor­me: «All’Eurogruppo a Spa­gna e Francia hanno avuto più tempo per aggiustare i conti, noi no. Se la Germania su questo fosse più leggera a­vremmo quei 4-5 miliardi in più che ci aiuterebbero a spingere la ripresa. Se però poi non facciamo le riforme possiamo avere comunque una ripresa, ma una ripresa breve: andiamo a sbattere su­bito contro un tetto molto basso e dopo 6-8 mesi ci tro­veremo di nuovo nelle diffi­coltà di prima, ma senza nes­suno disposto a farci credito»
 Bisogna proteggere i fili d’er­ba della ripresa dalla gelata (e infatti Fili d’erba, fili di ripre­sa è il titolo dello studio del Centro Einaudi). Vale per l’I­talia ma anche per gli altri. A partire dalla Francia, dove, se­condo Deaglio, «hanno per­so il controllo dell’econo­mia ». Non c’è area del mon­do che oggi sia al riparo dal rischio di una crisi economia: non gli Stati Uniti, dove lo Sta­to e i cittadini sono sempre più indebitati (il tasso di in­solvenza sui prestiti per l’u­niversità, nota l’economista, è allo spaventoso livello del 30%); non la Cina, dove si va verso una società «modera­tamente prospera», ma non ricca; non il Giappone, che sta sperimentando politiche mo­netarie 'kamikaze' per com­battere un declino ormai ven­tennale. La vecchia Europa non sta certo meglio, tra na­zioni che cercano di proteg­gere il loro cortile con misu­re protezionistiche e movi­menti di protesta sociale che combattono la stessa idea di Unione Europea. In questo momento, conclude Deaglio, molto dipende da quello che si deciderà a Berlino: «Sono passati due mesi dalle elezio­ni e ancora i tedeschi pren­dono tempo sul nuovo go­verno. Tengono tutto in so­speso. È pericoloso: se la Ger­mania sbaglia l’Europa è ve­ramente a rischio». 

da Avvenire

giovedì 21 novembre 2013

La Fed che accelera. La Bce che frena

La Federal Reserve continua a spostare in avanti il momento in cui smetterà di spingere l’acceleratore. Martedì sera, al­la cena annuale del club americano degli e­conomisti, il presidente Ben Bernanke ha ri­percorso le motivazioni dietro le scelte fatte nei suoi otto anni alla guida della Banca cen­trale. Ha spiegato che la forward guidance, cioè la scelta di dare ai mercati indicazioni a lungo termine sulle strategie della Fed, rap­presenta un grande passo avanti verso una politica monetaria più trasparente. Poi ha di­feso il quantitative easing : il massiccio ac­quisto di titoli pubblici e legati ai mutui – ha detto Bernanke – sta servendo a tenere bassi i tassi di breve periodo. Quindi il capo della Fed ha fatto capire che questa strategia andrà avanti ancora a lungo: ci vorrà infatti «un po’ di tempo» prima che la politica monetaria a­mericana torni «alla normalità».

Per Bernanke è stato uno degli ultimi discor­si da banchiere centrale. Oggi la Commissio­ne bancaria del Senato americano confer­merà la nomina di Janet Yellen a prendere la
 guida della Fed dal 1 ° febbraio, uno dei pas­saggi finali per la conferma definitiva. Con il cambio di presidenza la Fed potrebbe diven­tare ancora più aggressiva. Rispondendo alle domande di un senatore, Yellen ha sottoli­neato un concetto che Bernanke ha già ripe­tuto un paio di volte negli ultimi mesi: le so­glie non sono meccanismi automatici. Signi­fica che se la Banca centra­le ha detto che i tassi reste­ranno azzerati almeno fin­ché la disoccupazione non tornerà sotto il 6,5%, non è però detto che al raggiungi­mento di quell’obiettivo il costo del denaro tornerà a salire. E lo stesso vale per il quarto piano di quantitive easing: non ci sono automatismi che costrin­geranno al Fed a ridurre gli acquisti di titoli, che da gennaio proseguono al ritmo di 85 mi­liardi di dollari al mese (anche se alla riunio­ne di ottobre i consiglieri della Fed sono tor­nati a parlare della possibilità di tagliare lo shopping nei prossimi mesi).

Sono pessime notizie per i rigoristi della Ban­ca
 centrale europea. Più le altre grandi ban­che centrali sperimentano politiche ultra-ag­gressive più sale la pressione perché la Bce faccia altrettanto. Martedì è stata l’Ocse a da­re un consiglio, non richiesto, a Mario Dra­ghi: «La Bce deve stare molto attenta – ha scrit­to l’organizzazione nel suo rapporto sull’eco­nomia mondiale – ed essere preparata a usa­re misure anche non con­venzionali per eliminare che i rischi di deflazione diven­tino permanenti». Simili ri­chiami non lasciano freddi i responsabili della politica monetaria europea. La set­timana scorsa Peter Praet, capo economista della Bce, ha spiegato che se Fran­coforte vedesse a rischio la sua missione «prenderemo tutte le misure che riterremo di dover prendere per svolgere il nostro manda­to ». Mentre martedì il portoghese Vitòr Con­stâncio ha chiarito che quella del quantitati­ve easingeuropeo è «un’opzione, niente di più». Ma è stata una di quelle mezze smenti­te che si trasformano in conferme. Tanto che Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e leader dei custodi del rigore tedesco all’in­terno del consiglio della Bce, si è fatto inter­vistare dallo Zeit per spiegare che l'attuale po­litica monetaria espansiva è «giustificata» da una prospettiva di inflazione molto bassa e che ora non è il momento di parlare di nuo­ve mosse: «Il consiglio ha appena deciso di tagliare i tassi, dunque non mi sembra sensato mandare immediatamente il messaggio che è pronto a farlo di nuovo».

Eppure già ieri qualcuno da Francoforte ha fatto arrivare all’agenzia
 Bloomberg una nuo­va indiscrezione: la Bce starebbe valutando di portare il tasso sui depositi bancari in ne­gativo, allo -0,1%. Sarebbe un altro passo a­vanti verso una Bce più all’americana. 


da Avvenire

martedì 19 novembre 2013

Il trio dell'agenda digitale

Dieci anni fa, quando l’Eurostat ha iniziato a raccogliere le statistiche sulla diffusione delle connessioni veloci a Internet, in Europa c’erano un paio di nazioni straordinariamente avanti, una manciata di Paesi innovativi e una larga maggioranza di Stati dove la banda larga non c’era proprio. L’Italia faceva parte dell’ultimo gruppo.
Abbiamo almeno provato a recuperare, all’inizio: nel 2005 la percentuale di famiglie italiane raggiunte da collegamenti veloci era salita al 13%, una quota che ci assegnava il diciottesimo posto in un’Europa dove la banda larga raggiungeva il 23% dei cittadini. Non sarà stato un grande risultato, ma è il migliore che siamo stati capaci di raggiungere. Negli anni successivi ci siamo lasciati sorpassare quasi da tutti e siamo scivolati alle ultimissime posizioni. Gli ultimi dati, quelli del 2012, dicono che con una percentuale di famiglie a banda larga salita al 55% siamo ancora lontani dalla media europea (è al 72%) e siamo più "moderni" solo di Bulgaria, Grecia e Romania. La tecnologia, però, non ci aspetta. Perché in questo decennio si è anche sviluppata la banda ultralarga, con connessioni che vanno almeno a 30 Megabit al secondo, quando non a 100. È in questa tecnologia che l’Italia dà il peggio di sé: la rete superveloce raggiunge il 14% delle nostra famiglie, la media europea è del 53,8%. Siamo ultimissimi in classifica, a 7 punti percentuali di distanza dalla Grecia, penultima, e a 10 dalla Francia, che chiude il terzetto degli "arretrati". In Irlanda, quart’ultima, le famiglie con la banda ultralarga sono il 42,1%.
Ecco perché il lavoro accettato da Francesco Caio, l’ex manager di Omnitel che il governo a giugno ha designato nuovo responsabile dell’Agenda Digitale per l’Italia, è un mestieraccio. Siamo terribilmente indietro e abbiamo pochi soldi da investire per recuperare. Nel testo della legge di Stabilità, per intenderci, continuano ad apparire e scomparire i soldi per completare la diffusione della banda larga nel centro nord. E sono 20 milioni, appena più di niente. Per fortuna che l’Europa ci dovrebbe dare una mano. L’Italia riceverà circa 35 miliardi di euro di fondi strutturali da Bruxelles tra il 2014 e il 2020. Il premier Enrico Letta, alla fine del vertice europeo di fine ottobre che era proprio dedicato all’Agenda Digitale, ha promesso che il 10% di quei fondi sarà investito nello sviluppo della banda larga.
Ieri il presidente del Consiglio, partecipando a una conferenza sull’Italia organizzata a Roma dal Financial Times, ha dato un’accelerata. Ha nominato due esperti internazionali per aiutare Caio ad analizzare lo stato della nostra rete e definire quali investimenti bisognerà fare «perché l’Italia possa essere competitiva». Con l’aiuto dei due esperti – Gerard Pogorel dell’Università ParisTech e Scott Marcus, ex advisor della Federal Communication Commission americana – Caio entro la fine dell’anno consegnerà al governo un rapporto con i risultati dell’indagine. La parte più interessante sarà il conto finale. I tre fisseranno gli investimenti «che qualunque proprietario della rete dovrà raggiungere». Telecom Italia, attuale proprietaria della rete, e Telefonica, suo grande azionista ispanico, sono avvertite.
da Avvenire di oggi

giovedì 31 ottobre 2013

I tassi bassi e le bolle immobiliari

A Londra il prezzo medio delle case in vendita è salito del 10% solo a settem­bre. La crescita – registrata da Rightmo­ve, primo portale immobiliare inglese – è davve­ro incredibile: a questi ritmi le quotazioni im­mobiliari della City raddoppierebbero entro la prossima estate. Ma anche se si guarda il dato del trimestre, meno volatile, si ottiene un dato fe­nomenale: +5,6%. E non parliamo di proprieta­ri avidi che hanno fissato prezzi stellari facendo fuggire gli acquirenti. Tutt’altro: a Londra le ca­se vanno via con il pane.

Spiega Miles Shipside, direttore del portale: «Alcuni agenti riferiscono che c’è una febbre da acquisto in certe zone del centro di Londra, con una disponibilità di case da comprare così scarsa che spesso loro riman­gono senza niente da vendere». Londra non è l’Italia, dove l’immobiliare è in pes­sima forma, ma non è nemmeno il Regno Uni­to. Nel senso che fuori dalla capitale l’aumento dei prezzi richiesti c’è ma è un più tranquillo +3,8% (in un anno, non in un mese). In alcune regioni come il Galles o West Midlands le quota­zioni sono addirittura in calo, e questo nono­stante il governo, attraverso il programma “Help to Buy”, aiuti i cittadini a comprare casa.

C’è un motivo. Non sono solo gli inglesi a fare shopping del mattone londinese, ma soprattutto gli oli­garchi russi, gli emiri arabi e gli imprenditori ci­nesi. Tutti in cerca dell’appartamento di lusso tra Chelsea e Notting Hill anche come bene rifugio davanti a un futuro incerto in cui una delle po­che certezze è che la City rimarrà la capitale del­la finanza europea. In questo la bolla immobiliare londinese non è troppo diversa da quella che si sta gonfiando altrove. Per esempio a Shanghai, dove i prezzi delle case nuove – ha scritto Bloom­berg – sono saliti del 12% solo in una settimana.

È chiaro che se non vivessimo negli anni dei sol­di facili (per chi può averli), cioè quelli in cui le Banche centrali di Stati Uniti, Europa e Giappo­ne tengono i tassi a zero e riversano ogni mese miliardi sul sistema finanziario, mancherebbe­ro i denari che possono spingere la pazza corsa delle quotazioni. Ed è altrettanto chiaro che, in assenza di altra aria finanziaria capace di gonfiare l’immobiliare, queste bolle rischiano di inter­rompere bruscamente il loro allargamento. Pos­sono anche scoppiare. Sicuramente l’inizio del­le “exit strategy” con cui le banche centrali ri­porteranno la loro politica monetaria a una si­tuazione più normale metterà alla prova molti mercati immobiliari.

Rischia anche la Germania. «I bassi tassi di inte­resse stanno alimentando la domanda per la pro­prietà immobiliare» ha scritto la Bundesbank la settimana scorsa. La Banca centrale tedesca è preoccupata perché «i prezzi delle case nelle città tedesche sono saliti così fortemente dal 2010 che una possibile sopravvalutazione non può esse­re esclusa». Secondo i calcoli dell’istituto cen­trale nelle città della Germania i prezzi delle ca­se sono superiori del 10% rispetto ai valori che sarebbero giustificati da fattori demografici ed economici.

Nei grandi centri come Berlino, Am­burgo o Monaco 'l’esagerazione” delle quota­zioni raggiunge il 20%. Pesa anche in questo ca­so l’investimento che arriva dall’estero, ma è for­te soprattutto la componente locale: i tedeschi, tradizionalmente legati all’affitto, da quando i tassi sono azzerati si trovano molti più soldi a di­sposizione di prima e quindi li investono anche nel mattone.

La formazione di bolle è una delle possibili controindicazioni delle politiche mo­netarie espansive e non può stupire che sia pro­prio la Bundesbank a lanciare l’allarme: se c’è u­na Banca centrale che non si trova a suo agio con le politiche più ardite della Bce di Mario Draghi è sicuramente la vecchia Buba. È un’altra rogna per il banchiere romano.

Le bol­le si formano dove l’economia si riprende: in­fatti mentre il mattone inglese e tedesco si sta rivalutando spaventosamente, quello spa­gnolo resta in agonia (i prezzi medi so­no sotto del 40% rispetto al 2007) e quello italiano è al quarto anno di stallo (il prezzo medio è sceso del 5,9% nel secondo trimestre, terzo peggior risultato nella zona euro). La Bce — che dovrebbe nello stesso tempo favorire con poli­tiche espansive la ri­presa della “periferia” d’Europa e protegge­re con politiche re­strittive la Germa­nia dalla frenesia immobiliare — non può permet­tersi ancora tan­ti anni di Unio­ne monetaria a due velocità.
da Avvenire

mercoledì 30 ottobre 2013

Huawei, le reti cinesi più usate e temute

 Davvero anche Pechino può ascolta­re le nostre telefonate? Giuliano Ta­varoli – ex brigadiere, poi responsa­bile della sicurezza di Pirelli e quindi di Te­lecom Italia, grande protagonista dello scan­dalo del 'dossieraggio' illegale risolto, nel suo caso, con un patteggiamento a 4 anni e mezzo di reclusione – la settimana scorsa lo ha detto esplicitamente in un’intervista al Mattino : «Nessuno ricorda che Telecom ac­quistava e acquista apparecchiature di rete dalla cinese Huawei, un po’ come mettersi il nemico in casa. Che ci spia da tempo».

Era inevitabile. Emerso lo scandalo della N­sa americana si è aperta la grande caccia mondiale alla spia, e Huawei non poteva sperare di restarne fuori. Se c’è un’azienda sospetta è questo colosso basato a Shenzen, una società da 140mila dipendenti e 27 mi­liardi di euro di fatturato che quest’anno è diventata il primo gruppo mondiale nelle componenti delle reti di telecomunicazione nonché il terzo maggior produttore di te­lefonini al mondo. Un anno fa a Washington l’Intelligence Committee della Camera ha dichiarato che le cinesi Huawei e Zte sono
 una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, quindi ha chiesto di escluderle da ogni collaborazione con il governo e ha scon­sigliato alle aziende di fare affari con loro. Sempre per motivi di sicurezza, pochi mesi prima era stata l’Australia a tenere fuori i ci­nesi dalla gara per la rete a banda larga, e il nuovo governo australiano ha già fatto sa­pere che confermerà quella decisione. Nel 2010 era stata l’India a scegliere di evitare l’acquisto di apparecchiature dai cinesi, ci­tando sempre motivi di sicurezza. Anche nelle Nazioni con cui ha un rapporto privi­legiato, questo colosso è guardato con qual­che timore: la sede centrale di Huawei solo qualche giorno fa è stata visitata da George Osbone, il cancelliere dello Scacchiere, e dal 2011 il responsabile per la sicurezza del grup­po è John Suffolk, ex capo dell’ufficio infor­matico del governo inglese; eppure a luglio l’esecutivo di Cameron ha detto chiara­mente che i controlli sul ruolo di Huawei nelle telecomunicazioni in Gran Bretagna sono stati «non sufficientemente robusti».

A inizio settembre Enrico Letta ha ricevuto Sun Yafang, la presidente di Huawei. Dopo l’Inghilterra, l’Italia è il secondo mercato eu­ropeo per questa azienda, che qui collabo­ra con tutti i grandi operatori telefonici, ha 700 dipendenti e investirà un miliardo di dollari in cinque anni. I rapporti tra Roma e Shenzen sono «ottimi», assicura Roberto Loiola, l’italiano responsabile di Huawei per tutta l’Europa occidentale. Se le accuse di Tavaroli «non meritano nemmeno un com­mento, perché la sicurezza è una questione seria», quelle degli Stati Uniti e di altri Paesi secondo Loiola si spiegano con «motivi po­litici ». E il rapporto con Telecom? «Lavoria­mo con Telecom come con altri 500 opera­tori di telecomunicazioni in tutto il mondo. I problemi di sicurezza delle reti non posso­no essere visti in un contesto solo naziona­le, va analizzata tutta la catena: ci sono i di­spositivi, come i telefoni, la rete di accesso, quella di trasporto... è molto complesso. Poi c’è un altro aspetto: temono il fatto che sia­mo cinesi, ma i nostri componenti sono rea­lizzati in tutto il mondo. Abbiamo calcolato che ci sono meno componenti cinesi nei no­stri telefoni che nell’iPhone». Certo, se il fondatore e gran­de capo di Huawei, Ren Zhengfei, non avesse inizia­to la sua carriera lavorando come ingegnere per l’Eserci­to Popolare di Liberazione forse l’azienda sarebbe guar­data con più tranquillità in giro per il mondo. Anche l’as­setto di controllo della so­cietà è un po’ misterioso. Cathy Meng, figlia di Ren, ha spiegato che suo padre con­trolla l’1,4% delle azioni, il re­sto è diviso tra le migliaia di dipendenti. Loiola conferma che è così. In rete però gli ap­passionati di storie di spio­naggio cercano da mesi di re­cuperare la copia di
 Cajing Magazine del settembre del 2012: conteneva un’analisi precisa sulla struttura di con­trollo di Huawei ma ufficiali del governo cinese l’hanno ritirata dalle edicole poche ore dopo la pubblicazione. C’è poi il caso di Shane Todd, a cui il Financial Times ha dedicato un’inchiesta lo scorso febbraio: Todd era un giovane ingegnere america­no, lavorava a Singapore su un progetto tra il centro di ricerca governativo Ime e Huawei. Doveva sviluppare un amplificatore basato sul nitrito di gallio, un semiconduttore ca­pace di resistere a temperature estreme u­sato nell’illuminazione, nelle stazioni te­lefoniche ma anche in apparecchiature mi­­litari, ad esempio come disturbatore di se­gnali radar. Todd è stato trovato impiccato nel bagno di casa sua una settimana prima del suo rientro negli Stati Uniti. La famiglia del ragazzo sospetta dall’inizio che l’inge­gnere sia stato ucciso per evitare che rac­contasse alle autorità degli Stati Uniti i det­tagli di quel progetto. La corte di Singapore ha chiuso il caso definendolo un suicidio e l’ambasciata americana ha accettato que­sta conclusione.La sfida globale a colpi di cavi, intercetta­zioni e modelli di telefonini evidentemente sta dando molto da lavorare ai diplomatici.

da Avvenire

martedì 22 ottobre 2013

Lo shale gas passa da Londra per conquistare l'Europa

Lo avevano detto che lo shale gas avrebbe cambiato il mon­do. Due notizie delle ultime settimane: secondo le rilevazioni di Pira, società americana di con­sulenza nel campo dell’energia, grazie al gas non convenzionale gli Stati Uniti quest’anno supereran­no l’Arabia Saudita per diventare il primo produttore di idrocarburi del pianeta; il cartello dell’Opec – che associa i grandi esportatori di pe­trolio – ha annunciato che l’anno prossima la Cina potrebbe scaval­care gli Stati Uniti e diventare il pri­mo importare di greggio al mondo. Sono i primi sorpassi storici dell’e­ra dello scisto: lo sviluppo della tec­nologia che permette di estrarre il gas e il petrolio intrappolati in roc­ce di argilla oltre i tre chilometri di profondità ha permesso agli Stati Uniti di emanciparsi gradualmen­te dalla dipendenza energetica dal­l’estero, tanto che i produttori di petrolio sono stati costretti a rivol­gersi a clienti nuovi. L’evoluzione dello scenario mon­diale dell’energia ha evidenti ri­svolti geopolitici (si potrà più par­lare delle guerre americane per il petrolio quando gli Usa non a­vranno più bisogno di comprare greggio dall’estero? Ed è una pro­spettiva tranquillizzante quella di un rapporto sempre più forte tra Cina e Iran?) ma anche immediate conseguenze pratiche. Con l’ener­gia che in America costa un terzo ri­spetto all’Europa ci sono «le azien­de petrolchimiche produttrici di piastrelle che ora trasferiscono gli impianti nel Texas» ha avvertito qualche giorno fa Paolo Scaroni, con un chiaro riferimento al re­cente passaggio del controllo di Marazzi, colosso emiliano delle piastrelle, al fondo texano Mohawk per 1,5 miliardi di dollari. Da mesi l’amministratore delegato dell’Eni sta facendo pressione perché an­che l’Europa dia il via libera alle e­splorazioni del gas di scisto. È ov­vio che per Eni si tratterebbe di un’occasione in più per fare utili, ma è altrettanto evidente – e il ca­so Marazzi è lì a dimostrarlo – che si tratta soprattutto di una que­stione di competitività.

L’attività di lobbying di Scaroni e delle multinazionali del petrolio fi­no ad oggi non ha ottenuto risulta­ti positivi.«Credo che in Europa continentale oggi sia difficile an­che solo cercare lo
 shale gas. In fu­turo credo sarà più facile perché di­venterà una necessità» ha ammes­so ieri il manager dell’Eni parlando a Londra a un convegno sul gas non convenzionale. L’anno scorso il Parlamento europeo ha approvato due mozioni in cui chiede regole più stringenti sullo shale gas. Lo stesso Parlamento il 9 di ottobre di quest’anno ha votato una modifi­ca alla direttiva sull’impatto am­bientale per estendere l’obbligo di valutare le conseguenze sul terri­torio anche agli idrocarburi non convenzionali. Il fracking,la tecni­ca per spaccare gli scisti di argilla e liberare il gas dal sottosuolo, è si­curamente un processo invasivo e non è ancora chiaro se i liquidi pompati in questo processo pos­sano inquinare le falde acquifere. Ma intanto la linea dura sta facen­do infuriare quei Paesi dell’Est che, almeno secondo i primi studi, po­trebbero avere enormi giacimenti di shale gas. Su tutti la Polonia, che già sta dando lezioni di crescita ai compagni dell’Ue, non è disposta a lasciarsi ostacolare da Bruxelles. Oltre all’opposizione dei legislato­ri il nuovo gas che sta facendo la fortuna del Nuovo Mondo nel Vec­chio Continente incontra spesso l’aperta contestazione della popo­lazione. Le proteste degli abitanti della piccola e povera Pungesti, vil­laggio rumeno da 3mila anime, la settimana scorsa hanno costretto alla ritirata la Chevron. I contadini di Pungesti, ha scritto il quotidiano România Libera «non vogliono la prosperità degli americani, perché vivono di agricoltura e le loro ac­que sarebbero avvelenate».

Ecco che allora lo
 shale gas sta cer­cando di aprirsi una via di ingres­so in Europa passando dal Regno Unito, sempre capace di restare con un piede nell’Ue e l’altro quasi in A­merica. «Non possiamo perdere l’occasione del fracking » ha scritto ad agosto il premier David Came­ron alla popolazione, invitando gli inglesi a non abbandonare la tra­dizione che vede i britannici all’a­vanguardia tecnologica nell’ener­gia. Scaroni e gli altri manager del­l’oro nero ci contano: «Credo che la Gran Bretagna, che il paese più pragmatico d’Europa, possa mo­strare la strada agli altri Paesi eu­ropei nello sfruttamento dello sha­le gas – ha detto ieri l’Ad dell’Eni – . Questa è la mia speranza».
da Avvenire

mercoledì 16 ottobre 2013

Banche centrali in un vicolo cieco

Ben Bernanke e Mario Draghi hanno già avuto occasione di ammetterlo: con le stra­tegie monetarie aggressive di que­sti anni – acquisti di titoli di Stato e non, tassi azzerati, soldi quasi in regalo alle banche – la Federal Re­serve e la Banca cen­trale europea si sono incamminate lungo sentieri inesplorati. Quello che i due ban­chieri centrali più po­tenti del mondo non hanno confessato è che non sanno più co­me tornare indietro.

Quando ha fatto capi­re che la Fed stava per tagliare la terza fase del suo
 quantitative ea­sing , e quindi avrebbe ridotto gli 85 miliardi di dollari che da gennaio ogni me­se riversa sui mercati, Bernanke ha spaventato gli investitori ed è sta­to costretto a tornare sui suoi pas­si prima che i tassi dei titoli del Te­soro andassero fuori controllo. Po­trebbe tornare sui suoi passi anche la Bce, che tra dicembre 2011 e feb­braio 2012 ha prestato alle banche mille miliardi di euro a un tasso mi­nimo per evitare che il sistema an­dasse al collasso. La scadenza fina­le del rimborso si avvicina (il pre­stito era triennale) ma si è già ca­pito che molte banche non po­tranno permettersi di sdebitarsi e quindi la Bce sta pensando di aiu­tarle con un altro prestito. Non è diversa la situazione delle Banche centrali di Giappone e Regno U­nito, tanto ardite nelle loro strate­gie monetarie quanto incerte sui percorsi per ritirarle.

«Una Banca centrale può essere il salvatore del sistema, ma se poi il sistema non si muove, allora il sal­vatore diventa il peccatore» ha am­messo Lorenzo Bini Smaghi par­lando ieri a un convegno milanese in cui il Centro Paolo Baffi della Bocconi ha messo assieme econo­misti ed ex alti dirigenti delle gran­di Banche centrali. «Banchieri cen­trali: salvatori o peccatori?» ha chiesto l’istituto di ricerca. Bini Smaghi, che fino al dicembre del 2011 era nel direttivo della Bce, ha
 risposto che per una Banca centra­le è molto facile fare il salvatore del­la situazione («basta comprare quello che i mercati vogliono ven­dere »), ma a quel punto si sta solo prendendo tempo: se i 'salvati' (cioè banche e governi) non usano la tregua monetaria per tagliare i debiti e fare le riforme allora il sal­vataggio diventa un danno. È quel­lo che sta avvenendo in Europa. «Ma credo che quando verrà il mo­mento di usare l’Omt – dice Bini Smaghi citando il programma di acquisto di bond con cui Draghi ha calmato drasticamente le paure dei mercati dall’estate del 2012 in poi – allora sarà chiaro che la Bce può aiutare, ma solo se i governi ri­spettano le sue condizioni». È il punto in cui il 'peccatore' torna ad essere un 'salvatore', ma stavolta molto severo. Questo ruolo toc­cherà anche a Janet Yellen, l’eco­nomista che dal prossimo gennaio prenderà il posto di Bernanke alla guida della Fed e dovrà gestire il ri­tiro delle misure ultra-espansive varate in questi an­ni dalla Banca cen­trale. Al convegno milanese l’ameri­cano Kevin Warsh – che nel 2006 stupì il mondo entrando nel board della Fed senza avere nem­meno 36 anni (ne è uscito nel 2011) – ha lavorato anni con Yellen e assicu­ra che è un’econo­mista «straordina­riamente prepara­ta ». Ma avverte: «È incredibilmen­te focalizzata su modelli economi­ci molto recenti che però que­st’anno si sono dimostrati delu­denti nel prevedere la ripresa a­mericana. Se non funzionassero nemmeno l’anno prossimo, la Fed sarebbe costretta a cambiare stra­tegia ». 
da Avvenire di oggi

giovedì 29 agosto 2013

Il processo alla grande crisi

«C’ è un sacco di gente che sente di a­vere subìto un torto da Jp Morgan ma non può permettersi di pren­dersela con un’enorme banca. Non dovrebbe essere così». Ha ragione Leonard Blavatnik, uno che martedì ha ottenuto dal giudice di farsi risarcire 50 milioni di euro dalla banca d’affari americana. Blavatnik è uno dalle spalle abbastanza larghe per prendersela con chi vuole. Ucraino emigrato negli Stati Uniti da ra­gazzo per studiare prima alla Columbia e poi a Har­vard, ha fatto fortuna azzeccando un investimento giusto dopo l’altro e oggi, a 56 anni, ha un conto da 16 miliardi di dollari che ne fa il 44esimo uomo più ricco del mondo. Ha fatto causa a Jp Morgan perché nel 2006 un suo fondo aveva affidato alla banca 1 mi­liardo di dollari da investire con una strategia “con­servativa” e invece i trader hanno puntato forte sui ti­toli basati sui “subprime”. In due anni gli hanno bru­ciato 100 milioni. Il miliardario Blavatnik sarà par­zialmente rimborsato e sugli ingannati incapaci di difendersi ha ragione davvero; ma se tutte le vittime finanziarie delle scorrettezze che negli anni prima della crisi le banche d’affari americane avevano or­ganizzato per mangiarsi i soldi dei clienti potessero permettersi di chiedere il conto, a Wall Street reste­rebbe una manciata di superstiti.

Non sarà questa distru­zione per via giudiziaria che alcuni si augurano, ma 'il processo alla gran­de crisi' in America è ini­ziato e sta più che inner­vosendo qualche ban­chiere. Ancora Jp Mor­gan, la più grande ma an­che la più tormentata delle banche d’affari a­mericane. Il giorno dopo la vittoria di Balvatnik è emerso che la Fhfa, l’agenzia che regola il mercato del credito immobiliare Usa, ha chiesto alla banca 6 miliardi di dollari come risarci­mento per i titoli basati sui mutui 'subprime' che Jp Morgan ha venduto alle agenzie Fannie Mae e Fred­die Mac, poi salvate dallo Stato con un intervento da 42 miliardi. È la richiesta di rimborso più grossa fat­ta a una banca d’affari per quanto fatto negli anni della crisi. Delle altre 17 banche messe sotto accusa dalla Fhfa tre hanno già accettato di pagare. La sviz­zera Ubs, l’unica che ha comunicato l’importo della 'sanzione' ha chiuso la vicenda con 885 milioni. Se il parametro sarà lo stesso difficilmente Jp Morgan se la caverà con meno di 5 miliardi.

Vedremo. Nel frattempo un altro processo alla gran­de crisi si è appena chiuso con un successo dell’ac­cusa. Il 1° agosto la giuria di Manhattan ha giudicato colpevole di 6 dei 7 reati contestati Fabrice Tourre, ex trader di Goldman Sachs. Il caso è esemplare: Tour­re per Goldman aveva lavorato alla costruzione di A­bacus, un derivato imbottito di altri derivati basati sui mutui che erano stati scelti dal John Paulson. La banca nel 2007 aveva venduto il prodotto ai clienti o­mettendo un dettaglio non indifferente: Paulson a­veva scelto i titoli perché voleva scommetergli con­tro con il suo 'hedge fund'. Una tipica trovata pre-Lehmann. Lo spericolato finanziere ci ha fatto 1 mi­liardo di dollari, i clienti della banca hanno perso al­meno
 altrettanto. Lo sconosciuto trentaquatrenne Tourre, in questa sto­ria, ha pagato per tutti. Però via via che le intricate vi­cende degli anni che hanno portato al crollo mondiale del 2008 si dipanano con l’aiuto dei magistrati ame­ricani, anche ai sopravvissuti della crisi viene chiesto conto delle loro scelte. In tribunale, come testimone, potrebbe finirci Ben Bernanke. Maurice 'Hank' Greenberg, ottantottenne fondatore ed ex proprieta­rio del colosso assicurativo Aig, pretende che il capo della Federal Reserve spieghi davanti ai giudici per­ché nel 2008 decise di salvare Aig togliendone il con­trollo ai suoi azionisti. Secondo il vecchio Greenberg il banchiere centrale in realtà ha voluto salvare Gold­man Sachs, che con il fallimento di Aig avrebbe per­so almeno 20 miliardi di dollari. Il giudice ha convo­cato Bernanke come testimone, ma il governo ame­ricano sta facendo di tutto per evitare al governatore uscente questo passaggio in tribunale. Una scelta che certamente non aiuterà a tranquillizzare chi sospet­ta che in questo grande processo alla crisi Washing­ton abbia ancora qualcosa da nascondere. 
da Avvenire

lunedì 26 agosto 2013

In Borsa tornano le matricole (ma poco in Italia)

Non sarà l’arrivo di Mossi e Ghisolfi a consolare la Borsa di Hong Kong. Certo, la società basata a Tortona ma con stabilimenti in mezzo mondo è uno dei principali produttori mondiali di polietilene per bottiglie di plastica e imballaggi e ha una dimensione significativa: fattura circa 3 miliardi di dollari e dovrebbe essere valutata poco meno di 2 miliardi. Cifre che farebbero entrare da subito l’impresa di Vittorio Ghisolfi e i figli nel Ftse Mib, l’indice che mette assieme le quaranta società più grosse della piccola Borsa Italiana, ma che non spostano gli equilibri alla piazza di Hong Kong – dove il gruppo ha deciso di quotarsi – che vale quasi dieci volte la nostra. No, Hong Kong non può consolarsi con Mossi e Ghisolfi perché il mercato asiatico dal 2008 al 2011 è stato la maggiore piazza al mondo per i debutti di Borsa ma nel 2012 è scivolato al quarto posto e quest’anno difficilmente riuscirà a fare meglio. Soprattutto, la Borsa di Hong Kong rischia anche di perdersi l’esordio più ricco di tutti.
Quello di Alibaba, gigantesca compagnia cinese del commercio elettronico che gestisce più scambi di Amazon ed eBay messe assieme. Jack Ma, suo fondatore e proprietario, è il più corteggiato dalle Borse mondiali. Se per l’onnipresente Twitter, che sta lavorando per quotarsi a Wall Street, si parla di una valutazione di 10 miliardi di dollari, per Alibaba le stime indicano quotazioni da 70 miliardi. A quei livelli se Ma mettesse sul mercato anche solo un terzo delle azioni il suo debutto varrebbe da solo un quarto del mercato mondiale 2013 delle Ipo, cioè dei collocamenti delle società in Borsa. È comprensibile quindi che Hong Kong – dove Ma aveva quotato Alibaba.com, il suo più interessante sito del commercio online, per poi ricomprarsi tutte le azioni nel 2012 – non voglia farsi sfuggire il prezioso cliente. Però il manager, a quanto pare, starebbe pensando di andare a Wall Street, dove avrebbe la possibilità di suddividere le azioni a seconda dei diritti di voto, così da raccogliere capitali senza rinunciare alla sicurezza delcontrollo del suo gruppo.Il collocamento di Alibaba potrebbe ridare a questo 2013 delle Ipo uno splendore perso nell’ultimo biennio. Non è una questione solo tecnica: quando un numero significativo di società decide di quotarsi in Borsa e quindi andare a raccogliere fondi tra nuovi soci per crescere e allargarsi è anche un segnale importante di ottimismo economico. Nel 2007 l’ottimismo c’era ancora e i nuovi collocamenti avevano portato alle Borse 266 miliardi di dollari di nuovo capitale. È stato il massimo di sempre, poi c’è stata la caduta: solo 85 miliardi le Ipo del 2008, 109 miliardi l’anno dopo. L’illusione della fine della crisiaveva riacceso il mercato nel 2010, un anno in cui la raccolta ha raggiunto i 243 miliardi grazie alle enormi Ipo di Agricoltural Bank of China, Icbc e General Motors. Il ritorno al pessimismo ha caratterizzato altri due anni mediocri: nel 2011 e il 2012 il mercato delle Ipo è rimasto sotto i 100 miliardi.
Quest’anno le cose stanno andando un po’ meglio. Nei primi 7 mesi, secondo i calcoli di Thomson Reuters, attraverso 417 debutti di Borsa sono stati raccolti quasi 80 miliardi di dollari, con un aumento del 14% rispetto allo stesso periodo del 2012. Con Hong Kong in difficoltà, Wall Street regna incontrastata come piazza preferita dalle debuttanti. Ha raccolto 27,6 miliardi con 117 Ipo, ma segna un calo del 10% rispetto all’anno scorso. Aumenta invece addirittura del 310% l’incasso di Tokyo, che ha raccolto 7,7 miliardi e ha ospitato la seconda Ipo più grande dell’anno, quella da 4 miliardi di Suntory Beverage. La prima Ipo è stata brasiliana, con la compagnia assicurativa Bb Seguridade che ha raccolto 5,7 miliardi garantendo alla piazza di Sanpaolo il terzo posto mondiale nella classifica delle Ipo. Una classifica in cui Milano resta indietro. Thomson conta tre Ipo a Piazza Affari in questo 2013, per un incasso di 400 milioni di dollari (+73%). L’unico debutto nostrano veramente rilevante è stato quello di Moleskine. L’azienda delle agendine ha raccolto 269 milioni mettendo sul mercato il 50,2% delle azioni il 3 aprile. Sono passati quasi cinque mesi, la Borsa ha guadagnato il 15% ma il titolo Moleskine ha perso altrettanto. Anche 'affari' come questi aiutano a capire perché le imprese di Tortona vanno a quotarsi nell’Estremo Oriente.
da Avvenire

giovedì 22 agosto 2013

Il crollo nelle riserve delle banche centrali emergenti

Secondo un'analisi di Morgan Stanley, da maggio le banche centrali dei paesi emergenti hanno perso 81 miliardi di dollari di riserve valutarie per effetto di uscite di capitale o interventi sui mercati valutari. La cifra, che esclude la Cina, è circa il 2% delle riserve di queste banche.
dal Ft

L'incertezza della Fed sull'uscita dal quantitative easing

Ci fosse Esther L. George, al­la guida della Federal Re­serve, la Banca centrale a­mericana avrebbe probabilmente già smesso di pompare ogni mese 85 miliardi nel sistema finanziario statunitense. Invece alla guida del­la Fed, almeno fino a gennaio, c’è Ben Bernanke e George, che è la presidente della Federal Reserve di Kansas City, deve accontentar­si di partecipare alle riunioni del comitato direttivo della Banca cen­trale. Ma lì il 31 luglio questo ban­chiere del Midwest si è fatta senti­re: il suo è stato l’unico voto con­trario al comunicato finale con cui Bernanke non diceva con chiarez­za quando la Fed avrebbe ridotto o meno il suo flusso di acquisti.

La pubblicazione dei verbali del­l’ultima riunione del Federal Open Market Committee non ha aiuta­to gli investitori a capire meglio quali sono le intenzioni della Ban­ca centrale. Nel testo si ripete che i membri del direttivo sono divisi. Alcuni si aspettano che la crescita economica americana accelererà, altri sono più cauti, i primi sotto­lineano anche che la disoccupa­zione sta scendendo rapidamen­te, i secondi notano che comun­que il mercato del lavoro è debo­le. Gli "ottimisti" ritengono sia già arrivato il momento di smetterla di pompare tanto denaro nel si­stema, i 'pessimisti' (che per ora stanno vincendo) chiedono mag­giore cautela. Le divisioni, co­munque, sono forti. Solo la Geor­ge è arrivata a votare contro, ma un numero significativo di altri
 banchieri centrali crede, come lei, che sia arrivato il momento di ini­ziare a ridurre il flusso di acquisti, che a gennaio è stato allargato da 40 a 85 miliardi di dollari al mese. Sono di più gli altri, però, quelli che «hanno sottolineato l’impor­tanza di essere pazienti». L’unica certezza, almeno ufficiale, è che entro la metà del 2014 l’intera ter­za fase del 'quantitative easing' dovrà concludersi con l’elimina­zione di tutti gli 85 miliardi di spe­sa mensile. È sulla base di questo scenario che i grandi fondi in queste ultime set­timane si stanno riorganizzando: ritirano i soldi investiti nei merca­ti più rischiosi (ma anche più red­ditizi) e li spostano verso investi­menti più tranquilli. La rupia in­diana è scesa a un nuovo minimo storico mentre continuano a pre­cipitare anche le valute di Thai­landia, Indonesia, Brasile e Tur­chia. Ed è figlio dell’incertezza il nervosismo che stiamo vedendo sulle Borse. Ieri, per la terza gior­nata consecutiva, i mercati europei hanno chiuso in calo, anche se so­no stati evitati gli scivoloni pesan­ti di lunedì e martedì (Milano ha fatto -0,7%). Continua anche la ri­salita del tasso dei Btp decennali, che sul mercato secondario è sali­to di 6 centesimi, al 4,37% portan­dosi a 250 punti di distanza dai Bund tedeschi. Wall Street, come sempre unica grande Borsa aper­ta quando la Fed ha diffuso il co­municato (alle 20 italiane) era già in ribasso e ha accelerato la disce­sa (ma sotto l’1%). Gli analisti di­cono di aspettarsi a questo punto una piccola riduzione del 'quan­titative easing' nella riunione del­la Fed di metà settembre.


da Avvenire

sabato 17 agosto 2013

La grande fuga dai titoli Usa

È bastato che Ben Bernanke suggerisse con molta cautela che forse, se l’economia americana continuerà a migliorare, la Federal Reserve nei prossimi mesi potrebbe iniziare a ridurre il suo massiccio rifornimento mensile di denaro fresco al sistema finanziario (sono 85 miliardi di dollari al mese) per provocare una storica sbandata dei titoli di Stato americani. A giugno, ha comunicato nel giorno dell’Assunta il dipartimento del Tesoro, la quantità di titoli di Stato in mani straniere è diminuita di 57 miliardi di dollari, a 5.600 miliardi totali. Non è stato solo il terzo mese consecutivo di uscita degli investitori internazionali dal debito americano: da quando il ministero diffonde le cifre (e sono 36 anni) una fuga dai titoli del Tesoro come quella di giugno non si era mai vista.

A vendere, e questo è ancora più preoccupante per Washington, sono i suoi due maggiori creditori: la Cina, il cui portafoglio di titoli americani si è ridotto da 1.297 a 1.276 miliardi, e il Giappone, che ha tagliato i suoi investimenti a stelle e strisce da 1.103 a 1.083 miliardi. Da soli i due colossi asiatici valgono il 70% delle vendite di titoli del debito pubblico americano. Peggiora ulteriormente lo scenario il fatto che le vendite non siano concentrate solo sui titoli pubblici. Gli investitori internazionali hanno iniziato quella che sembra una fuga da tutti i tipi di titoli statunitensi: le azioni delle imprese (-26,8 miliardi), le loro obbligazioni (-5 miliardi), i titoli delle agenzie governative (-5,2 miliardi).

Non si può dire che questi numeri siano stati una sorpresa per Bernanke. Già sui mercati secondari i titoli del Tesoro avevano scontato subito l’apertura a una possibile riduzione delle politiche ultra-aggressive. Anche a Wall Street le cadute degli indici azionari erano state fragorose. Per fermare l’emorragia (e qualcuno sospetta su pressione governativa), nelle settimane successive il presidente della Fed ha corretto le posizioni della banca centrale, facendo capire che c’è fretta di uscire dal piano di stimolo. I dati di luglio, che saranno diffusi il mese prossimo, mostreranno se il passo indietro avrà riportato gli investitori a puntare sugli Usa. Se i numeri indicassero che la fuga va avanti, per Lawrence Summers e Janet Yellen, i due candidati alla successione di Bernanke alla guida della Fed, si prospetterebbe un debutto da incubo.


da Avvenire

giovedì 18 luglio 2013

Mercedes vietate in Francia

Parigi ha deciso di bloccare l'immatricolazione di Mercedes-Benz Classe A, Classe B e CLA fabbricate dopo il 12 giugno. Accusa la Daimler di utilizzare per costruire le macchine un gas refrigerante bandito dalle norme Ue.

mercoledì 17 luglio 2013

Tutti in affitto dai fondi sovrani

Quando i soldi crescono sugli alberi – o sgorgano dal sottosuolo – ci si può an­che permettere di spenderli mala­mente. Per esempio facendo indigestione di a­zioni delle più grandi banche mondiali pochi mesi prima del crollo di Lehman Brothers. A­dia, il fondo sovrano di Abu Dhabi, aveva pun­tato pesante sulle regine della finanza britan­nica proprio alla vigilia della grande crisi. Co­me risultato, secondo uno studio del Council on Foreign Relations, solo tra il 2007 e il 2008 ci ha perso 183 miliardi di dollari. Il fondo sovrano li­bico Lia, che si era affidato a Goldman Sachs per guadagnare con i derivati di azioni e valute, ha affidato alla leggendaria banca americana 1,2 miliardi. Alla fine dei giochi ha avuto indietro meno di 2 milioni. Qia, Il fondo del Qatar con cui gli sceicchi dell’Emirato si dilettano tra squa­dre di calcio (il Paris Saint Germain) e prestigiose griffe ( Valentino), ha speso un miliardo e mez­zo di sterline per costruire lo Shard, la torre di Renzo Piano che domina Londra. Perfido, il 

Daily Mail
 un mese fa ha scritto che lo spetta­colo dello Shard di notte è una tristezza: i prez­zi sono troppo alti, la torre semivuota e buia è una macchia nera che stona con le luci degli uffici della City. Piano se l’è presa, ha fatto pre­sente che lo Shard deve essere ancora comple­tato e ha promesso che quando sarà pronto – questo ottobre – il suo grattacielo a forma di scheggia si riempirà.

Vedremo. Per gli emiri del Qatar cambia poco: già un anno fa avevano spiegato che gli piace­va l’idea della torre di vetro, il prezzo e il senso economico dell’operazione non avevano im­portanza. Perché i soldi dell’emiro, appunto, e­rompono dal terreno, nella forma del petrolio e del gas che, esportati in tutto il mondo, ali­mentano queste enormi spese.

Secondo i calcoli del Sovereign Wealth Fund In­stitute, l’organizzazione che studia più a fondo questo settore, il patrimonio dei fondi sovrani a giugno ammontava a 5.474 miliardi di dolla­ri. Sono 1.500 miliardi in più rispetto a tre anni fa, è quasi la metà del Pil della zona euro. Que­sta enorme quantità di denaro non viene tutta dalle materie prime: i fondi che vivono di gas e petrolio hanno un patrimonio di circa 3.100 mi­liardi. Quasi tutto il resto appartiene a quei fon­di sovrani che raccolgono i disavanzi commer­ciali dei loro Paesi. Come il Cic, il China Invest­ment Corporation costruito da Pechino quasi 40 anni fa. Con un patrimonio di 482 miliardi di dollari è il secondo fondo sovrano più gran­de del pianeta, dietro quello norvegese (ali­mentato a gas naturale) che ha in gestione 746 miliardi.

Finché il prezzo del petrolio o il commercio in­ternazionale tengono, questi fondi possono continuare a crescere pur chiudendo i conti in rosso. Però per chi li gestisce è sempre più dif­
ficile giustificare le perdite. «I fondi sovrani han­no dovuto affrontare critiche pubbliche nei lo­ro paesi a causa di una serie di perdite sugli in­vestimenti esteri alla vigilia della crisi – ha scrit­to la casa di consulenza inglese TheCityUk in un report diffuso a marzo –. Come risultato le en­tità delle operazioni sono state ridotte negli ul­timi anni». I soldi comunque non mancheran­no. È ancora TheCityUk a scrivere che «i fondi potranno vedere un continuo afflusso di capitali nei prossi­mi anni, con i paesi asiatici, in particolare la Cina, che conti­nueranno a fare scorta di mo­neta estera e con la domanda di materie prime che crescerà grazie alla ripresa dell’econo­mia globale e alla domanda dei mercati emergenti».

La novità è che, scottati dalle troppe batoste subite giocando a conquistare le grandi banche europee e americane (abbia­mo fatto solo qualche esempio, ma potevamo citare tra gli altri i 2 miliardi persi dal coreano Kic con Merrill Lynch, o il caso di Mubadala, sempre di Abu Dhabi, che negli ultimi due an­ni ha fatto svalutazioni di quasi 4,5 miliardi sui suoi titoli finanziari), i fondi si stanno buttan­do sull’immobiliare commerciale. Secondo il Sovereign Investment Lab del centro studi boc­coniano Paolo Baffi, dei 58,4 miliardi di dollari investiti dai fondi sovrani nel 2012 ben 15 mi­liardi (il 26%) erano destinati al 'real estate'. È un aumento del 50% rispetto al 2011. Per la pri­ma volta gli investimenti immobiliari hanno superato quelli finanziari. Ne abbiamo visto un esempio anche in Italia, quan­do a maggio il fondo sovrano del Qatar è entrato, con una quota del 40%, nel progetto immobiliare milanese di Por­ta Nuova. Più in grande, il ci­nese Cic ha comprato i quar­tieri generali di Deutsche Bank a Londra mentre gli arabi del­l’Adia hanno preso il control­lo di quelli di Amundi a Parigi. Come farebbe un piccolo risparmiatore dopo una brutta esperienza di Borsa, i giganteschi fondi degli Stati ora puntano forte sul mattone. Se hanno perso miliardi per diventare soci dei colossi della finanza, ora sperano di guadagna­re affitandogli gli uffici. 

giovedì 11 luglio 2013

I sussidi di disoccupazione negli Stati Uniti

Il sistema di sussidi alla disoccupazione negli Stati Uniti è stato costruito 75 anni fa, durante la grande crisi. La norma, per i singoli Stati, è offrire per 26 settimane un assegno pari in media alla metà del reddito che il disoccupato era abituato a ricevere. In casi di crisi particolarmente gravi lo Stato centrale poteva intervenire a garantire i finanziamenti per qualche settimana aggiuntiva (a volte si è arrivati a 99 settimane di sussidio).
Nove Stati hanno tagliato a 20 le settimane massime di sussidio di disoccupazione, altri 6 Stati hanno ridotto gli assegni o ristretto i criteri per poterli ottenere.
dal Wsj

mercoledì 10 luglio 2013

La Peugeot, quello che la Fiat rischiava di diventare

Sono passati 35 anni da quando la Fiat e la Peugeot si sono alleate nella Sevel per costruire assieme furgoni e furgoncini. Collaborazioni così durature, nell’industria dell’auto, sono rare. Questa joint venture ha funzionato bene perché i due alleati si capiscono e si assomigliano da sempre. I loro soci di riferimento sono ancora i discendenti del fondatore, gli Agnelli e i Peugeot, le loro macchine sono per il pubblico di massa, i loro rapporti con i governi nazionali sono particolarmente forti. Ma le loro storie, in questi ultimi anni, hanno preso direzioni opposte.

La storia di Fiat la conosciamo bene: arrivata a un passo dallo sfascio si è rimessa in marcia costruendo la sua rinascita sugli 1,6 miliardi di euro che le ha dato General Motors per non comprarla, quindi ha puntato forte su modelli 'ricercati' (come la 500) e sull’espansione del mercato brasiliano, infine si è lanciata nella conquista di Chrysler. La storia recente di Psa, cioè del gruppo Peugeot- Citroën , è poco seguita nel nostro Paese. Peccato, perché le vicende della casa francese raccontano quella che sarebbe potuta essere oggi la Fiat se Sergio Marchionne non si fosse buttato nell’avventura americana. Partiamo dalla fine. Psa ha chiuso i primi sei mesi dell’anno con 1,5 milioni di auto vendute, il 9,8% in meno rispetto alla prima metà del 2012. Crollano, naturalmente, le vendite europee. La forte crescita delle immatricolazioni in Cina (+32%) non basta a compensarle. L’Asia però sembra l’unica strada percorribile per i Peugeot. L’amministratore delegato, Philippe Varin, una settimana fa ha inaugurato a Wuhan la terza fabbrica cinese di Psa. Nel 2015, quando sarà in grado di produrre 750mila auto all’anno, sarà lo stabilimento più grande del gruppo. L’apertura dell’impianto cinese stride con le chiusure annunciate in Europa. Chiuderà l’anno prossimo (se non alla fine del 2013) la fabbrica parigina di Aulnay-sous-Bois, che è stata al centro dello scontro con il governo Hollande. I sindacati, a maggioranza, hannodovuto digerire un piano di ristrutturazione delle attività francesi che prevede 11.200 esuberi.
Non avevano molta scelta: con il mercato auto europeo al collasso, Psa, che dipende ancora da vetture di fascia media e bassa, è in crisi nera. Nel 2012 ha bruciato 2,5 miliardi di euro di cassa, per quest’anno prevede di bruciare un altro miliardo e mezzo. Le risorse non sono infinite. È dovuto intervenire il governo francese, che ha concesso garanzie e prestiti per un totale di 7 miliardi di euro. A Bruxelles stanno studiando quegli aiuti, perché potrebbero essere contrari alle regole sulla concorrenza. Nei piani di Varin l’azienda attraverso il radicale taglio dei costi e l’aumento delle vendite in Asia potrebbe chiudere le falle nei suoi conti correnti già l’anno prossimo, per ritrovare l’utile nel 2015. La maggioranza degli analisti è scettica.
Comunque andrà, la famiglia Peugeot, che ha il 25% delle azioni e il 38% dei diritti di voto, sembra destinata, dopo due secoli, a perdere il controllo dell’azienda. Serve un aumento di capitale e a loro mancano i soldi. Il denaro potrebbe arrivare da General Motors. La più grande delle tre sorelle di Detroit, tornata forte dopo il fallimento di quattro anni fa, nel 2012 è entrata in società comprando il 7% per 400 milioni di euro. Sta valutando l’idea di fondere Psa con la sua Opel. A fine giugno l’agenzia Reuters ha rilanciato le voci di imminente scalata. Sono arrivate le dovute smentite, ma gli investitori ci credono così poco che da 10 giorni sono tornati a far scorta delle azioni Psa.
Ecco: la conquista americana, con gli yankee nella parte dei predatori, sarebbe la perfetta chiusura della storia degli opposti destini degli Agnelli e dei Peugeot.