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martedì 22 ottobre 2013

Lo shale gas passa da Londra per conquistare l'Europa

Lo avevano detto che lo shale gas avrebbe cambiato il mon­do. Due notizie delle ultime settimane: secondo le rilevazioni di Pira, società americana di con­sulenza nel campo dell’energia, grazie al gas non convenzionale gli Stati Uniti quest’anno supereran­no l’Arabia Saudita per diventare il primo produttore di idrocarburi del pianeta; il cartello dell’Opec – che associa i grandi esportatori di pe­trolio – ha annunciato che l’anno prossima la Cina potrebbe scaval­care gli Stati Uniti e diventare il pri­mo importare di greggio al mondo. Sono i primi sorpassi storici dell’e­ra dello scisto: lo sviluppo della tec­nologia che permette di estrarre il gas e il petrolio intrappolati in roc­ce di argilla oltre i tre chilometri di profondità ha permesso agli Stati Uniti di emanciparsi gradualmen­te dalla dipendenza energetica dal­l’estero, tanto che i produttori di petrolio sono stati costretti a rivol­gersi a clienti nuovi. L’evoluzione dello scenario mon­diale dell’energia ha evidenti ri­svolti geopolitici (si potrà più par­lare delle guerre americane per il petrolio quando gli Usa non a­vranno più bisogno di comprare greggio dall’estero? Ed è una pro­spettiva tranquillizzante quella di un rapporto sempre più forte tra Cina e Iran?) ma anche immediate conseguenze pratiche. Con l’ener­gia che in America costa un terzo ri­spetto all’Europa ci sono «le azien­de petrolchimiche produttrici di piastrelle che ora trasferiscono gli impianti nel Texas» ha avvertito qualche giorno fa Paolo Scaroni, con un chiaro riferimento al re­cente passaggio del controllo di Marazzi, colosso emiliano delle piastrelle, al fondo texano Mohawk per 1,5 miliardi di dollari. Da mesi l’amministratore delegato dell’Eni sta facendo pressione perché an­che l’Europa dia il via libera alle e­splorazioni del gas di scisto. È ov­vio che per Eni si tratterebbe di un’occasione in più per fare utili, ma è altrettanto evidente – e il ca­so Marazzi è lì a dimostrarlo – che si tratta soprattutto di una que­stione di competitività.

L’attività di lobbying di Scaroni e delle multinazionali del petrolio fi­no ad oggi non ha ottenuto risulta­ti positivi.«Credo che in Europa continentale oggi sia difficile an­che solo cercare lo
 shale gas. In fu­turo credo sarà più facile perché di­venterà una necessità» ha ammes­so ieri il manager dell’Eni parlando a Londra a un convegno sul gas non convenzionale. L’anno scorso il Parlamento europeo ha approvato due mozioni in cui chiede regole più stringenti sullo shale gas. Lo stesso Parlamento il 9 di ottobre di quest’anno ha votato una modifi­ca alla direttiva sull’impatto am­bientale per estendere l’obbligo di valutare le conseguenze sul terri­torio anche agli idrocarburi non convenzionali. Il fracking,la tecni­ca per spaccare gli scisti di argilla e liberare il gas dal sottosuolo, è si­curamente un processo invasivo e non è ancora chiaro se i liquidi pompati in questo processo pos­sano inquinare le falde acquifere. Ma intanto la linea dura sta facen­do infuriare quei Paesi dell’Est che, almeno secondo i primi studi, po­trebbero avere enormi giacimenti di shale gas. Su tutti la Polonia, che già sta dando lezioni di crescita ai compagni dell’Ue, non è disposta a lasciarsi ostacolare da Bruxelles. Oltre all’opposizione dei legislato­ri il nuovo gas che sta facendo la fortuna del Nuovo Mondo nel Vec­chio Continente incontra spesso l’aperta contestazione della popo­lazione. Le proteste degli abitanti della piccola e povera Pungesti, vil­laggio rumeno da 3mila anime, la settimana scorsa hanno costretto alla ritirata la Chevron. I contadini di Pungesti, ha scritto il quotidiano România Libera «non vogliono la prosperità degli americani, perché vivono di agricoltura e le loro ac­que sarebbero avvelenate».

Ecco che allora lo
 shale gas sta cer­cando di aprirsi una via di ingres­so in Europa passando dal Regno Unito, sempre capace di restare con un piede nell’Ue e l’altro quasi in A­merica. «Non possiamo perdere l’occasione del fracking » ha scritto ad agosto il premier David Came­ron alla popolazione, invitando gli inglesi a non abbandonare la tra­dizione che vede i britannici all’a­vanguardia tecnologica nell’ener­gia. Scaroni e gli altri manager del­l’oro nero ci contano: «Credo che la Gran Bretagna, che il paese più pragmatico d’Europa, possa mo­strare la strada agli altri Paesi eu­ropei nello sfruttamento dello sha­le gas – ha detto ieri l’Ad dell’Eni – . Questa è la mia speranza».
da Avvenire

mercoledì 12 giugno 2013

Le riserve di shale gas

L'Eia ha aggiornato la sua stima sulla riserve globali di shale gas. Calcola che ci siano 7,3 migliaia di miliardi di metri cubi di gas. Gli Stati Uniti, che più stanno sfruttando questa risorsa, ne hanno meno di Cina, Argentina e Algeria. La Polonia, che avrebbe le maggiori riserve europee, non è tra i primi dieci.


venerdì 19 aprile 2013

Shale gas da non esportare

Gli Stati Uniti hanno concesso soltanto una licenza per esportare gas naturale liquefatto in nazioni che non hanno un accordo di libero scambio con gli Usa. Ma altre 16 richieste sono depositate al Dipartimento dell'energia. Le aziende americane, che grazie allo shale gas pagano il gas 4 dollari a metro cubo contro i 12-13 euro dell'Europa, hanno chiesto al governo di non favorire le esportazioni: il prezzo del gas, spiegano, rappresenta un forte vantaggio competitivo senza il quale sono a rischio 100 miliardi di dollari di investimenti.
Ft

martedì 16 aprile 2013

Le perdite delle navi del petrolio

L'associazione degli armatori di tanker di petrolio calcola che il settore ha perso 26 miliardi di dollari dal 2009 al 2012. Le tariffe sono scese fin sotto i costi operativi: il prezzo di un giorno di trasporto sulla rotta Medioriente-Giappone è di 7.085 dollari (aveva toccato massimi sopra i 300 mila dollari nel 2007) mentre il costo per l'armatore è tra i 10 e i 12 mila dollari.
dal Wsj

giovedì 7 marzo 2013

Lo shale gas mette in crisi la Nigeria

La Nigeria rischia di essere la prima grande vittima dello shale gas americano. Nel 2012 le esportazioni di petrolio nigeriano negli Stati Uniti sono crollate da 1 milione a 405 mila barili al giorno. Bel problema per gli africani, che hanno negli Stati Uniti il loro maggiore acquirente e contano sul petrolio per finanziare il loro sviluppo. Ma la disponibilità di shale gas consente agli Usa di tagliare drasticamente le importazioni. Secondo  gli analisti le difficoltà hanno costretto la Nigeria a vendere qualche cargo di petrolio a prezzi da sconto (40 cent sotto il prezzo ufficiale).
dal Wsj



lunedì 11 febbraio 2013

La Robin Tax: rubare ai ricchi per dare a Robin


Con la Robin Hood tax – introdotta nel giugno del 2008 – lo Stato italiano prometteva di agire come il celebre eroe di Nottingham: sarebbe andato a "rubare" i soldi dei ricchi petrolieri per darli ai poveri italiani. A quanto pare però i ricchi petrolieri si stanno facendo restituire dai poveri italiani i soldi che gli mancano, nessuno ha il potere per farci niente e in questa favola venuta male l'unico che ci guadagna è Robin Hood. Questo sgradevole racconto è contenuto nelle 28 pagine di relazione che l'Autorità per l'energia elettrica e il gas ha consegnato al Parlamento il 24 gennaio. L'Autorità ha il compito di verificare ogni anno che le aziende dell'energia non scarichino sui clienti il costo della tassa, che dal 2011 è una maggiorazione di 10,5 punti dell'aliquota Ires (prima l'addizionale era di 6,5 punti). Si parla di molti soldi: l'aliquota Ires per le aziende dell'energia con un fatturato superiore ai 10 milioni di euro con questa tassa sale dal 27,5 al 38%, nel 2011 il gettito dell'addizionale per il Tesoro è stato di 1,46 miliardi di euro. Secondo le verifiche dell'Autorità 199 imprese dell'energia, sulle 476 controllate, nel 2010 hanno alzato i loro margini. Da qui il sospetto dell'organismo incaricato di vigilare: «È ragionevole supporre – si legge nella relazione – che, a seguito dell'introduzione dell'addizionale Ires, gli operatori recuperino la redditività sottratta dal maggior onere fiscale, aumentando il differenziale tra i prezzi di acquisto e i prezzi di vendita». La "traslazione" dei costi della Robin Hood tax sui clienti – espressamente vietata dalla legge – quindi sembra regolarmente messa in pratica. Le stime dell'Autorità arrivano a calcolare in circa 1,6 miliardi di euro i margini aggiuntivi accumulati nel 2010 dalle imprese dell'energia (0,9 miliardi quelle dell'elettricità, 0,7 quelle del petrolio) proprio per "compensare" il pagamento della Robin Tax. Assoelettrica si difende. «Le imprese elettriche non hanno scaricato la Robin tax sui consumatori – ha detto il presidente Chicco Testa –. Prima di gridare al ladro sarebbe opportuno verificare che sia stato davvero commesso il furto».Se un ladro c'è, comunque, nessuno può farci niente. Le aziende fin dall'inizio hanno fatto ricorso contro la legge, rivolgendosi prima al Tar e poi al Consiglio di Stato. E proprio il Consiglio di Stato ha stabilito che l'Autorità ha tutto il diritto di ottenere dalle aziende i documenti che le servono per condurre il suo lavoro di vigilanza, però la legge le dà solo un potere di «segnalazione». L'organismo presieduto da Guido Bortoni deve quindi limitarsi a segnalare al Parlamento i risultati delle sue indagini sui comportamenti delle aziende che pagano la Robin Hood Tax, ma non può multare le imprese che si comportano in maniera scorretta. E dalla sentenza del Consiglio di Stato emerge anche che se l'Autorità potesse sanzionare le imprese allora la tassa potrebbe rivelarsi incompatibile con la Costituzione. Le associazioni dei consumatori sono comprensibilmente infuriate e promettono esposti all'Antitrust, ma analisi di giuristi diversi confermano che non sembra esserci una via d'uscita da questo stallo legale capace di favorire solo le entrate dirette del Tesoro, che nel frattempo ci rimette pure qualcosa sull'incasso dei dividendi di Enel ed Eni, sue controllate e prime due "vittime" della Robin Tax.
da Avvenire

martedì 11 dicembre 2012

Il prezzo del petrolio a 50 dollari?

Il prezzo del Brent resta attorno ai 110 dollari al barile.Secondo Deutsche Bank l'anno prossimo la quotazione potrebbe crollare fino anche a 50 dollari. Secondo l'Aie la domanda mondiale salirà di 660 mila barili al giorno da qui al 2020, nel decennio terminato nel 2008 l'aumento medio annuo era di 1,3 milioni di barili. La spare capacity dell'Opec nel 2005 era di un milione di barili al giorno, circa l'1% della domanda. Nel 2011 è salita a 3,1 milioni (il 3,5%) e a 5,9 milioni nel 2017 (cioè il 6,4% della domanda globale). Con l'Iraq che potrebbe arrivare a produrre 4,2 milioni di barili al giorno dal 2015 e la sempre maggiore indipendenza energetica degli Usa (grazie allo shale gas) l'offerta di petrolio rischia di farsi di molto superiore alla domanda, provocando una caduta del prezzo.

lunedì 3 dicembre 2012

Il gas via nave attraversa l'Artico

La Russia fa sempre più fatica a vendere gas all'Europa, dove la crisi economica ha ridotto i consumi di 18 miliardi di metri cubi quest'anno. Le esportazioni russe e norvegesi puntano così sull'Asia. Martedì 4 dicembre la petroliera Ob River consegnerà gas al Giappone dopo avere attraversato l'Artico. Il viaggio è diventato economicamente sostenibile per tre ragioni: durante l'estate le navi ora riescono ad attraversare l'Artico, la domanda di materie prime dell'Asia è in forte aumento e, dopo il terremoto, Tokyo è in emergenza e quindi è disposto a pagare anche prezzi più alti. La spedizione di gas via nave costa 150 mila dollari al giorno in media, a novembre il prezzo è sceso a 105 mila dollari. Una compagnia che invia gas dai Mari del Nord all'Asia può risparmiare 3 milioni di dollari passando dall'Artico: non deve sostenere le spese doganali del canale di Suez o circumnavigare l'Africa.

giovedì 22 novembre 2012

Benzina e tasse - un aggiornamento


Certi italiani, probabilmente quelli che ci badano meno, alla fine dell’estate erano arrivati a pagare 2 euro per avere un litro di benzina. Tra fine agosto e inizio settembre applicavano questo prezzo strabiliante le stazioni di rifornimento più piccole, vecchie e rigorosamente senza il fai-da-te. Un pieno sotto i 2 euro al litro, in realtà, è sempre stato disponibile in ogni città d’Italia. In queste settimane chi dà un’occhiata attenta ai listini dei distributori prima di entrarci può trovare benzinai che vendono la verde a 1,7 euro al litro, o anche a meno, e il gasolio attorno agli 1,65 euro al litro.
Con la benzina funziona così: quando il prezzo sale fa molto rumore, quando scende se ne parla appena. Dalle rilevazioni del ministero dello Sviluppo economico – l’ultima è del 19 novembre – emerge che il prezzo medio della benzina negli ultimi tre mesi è sceso di 15 centesimi, da 1,89 a 1,74 euro al litro, quello del gasolio è calato della metà, da 1,78 a 1,70 euro al litro. Queste diminuzioni si spiegano con il miglioramento del cambio tra euro e dollaro e un calo delle quotazioni internazionali. Non tanto quelle del petrolio grezzo – il Brent europeo è sempre attorno ai 115 dollari al barile – quanto quelle del Platts, il mercato su cui si scambiano i prodotti raffinati. Su questa piattaforma il prezzo della benzina in euro è sceso dalla media di 67 centesimi al litro di agosto ai 55 centesimi attuali, quello del gasolio è passato da 68 a 63 centesimi al litro. Anche a guardare lo “stacco”, cioè la differenza tra il prezzo della benzina in Italia e la media europea, al netto delle tasse, la tendenza è positiva: sia per la benzina che per il gasolio siamo attorno ai 2,5 centesimi al litro, cioè sotto i 4 centesimi considerati “strutturali”.
Ma ne ha di strada da scendere, la benzina, prima di tornare a valori sensati. Nei 27 Stati dell’Unione europea la verde costa in media 1,61 euro al litro, il gasolio 1,46, cioè rispettivamente 15 e 24 centesimi in meno dei prezzi italiani, che sono entrambi al secondo posto nella classifica europea. Tutta colpa delle tasse, mostruosamente salite dal 2011 ad oggi fino a pesare più di 1 euro su un litro di benzina e 91 centesimi su un litro di gasolio. Nessun Paese della zona euro tassa i carburanti come l’Italia. Nell’intera Unione europea, e solo per l’effetto cambio, solo il fisco inglese è più esoso del nostro. L’ultimo aumento, subdolo, è nella legge di stabilità, con una norma che rende stabile il rincaro delle accise dicirca 4 centesimi al litro introdotto in agosto per finanziare la ricostruzione delle zone terremotate dell’Emilia. Doveva durare fino a fine anno, invece - come è successo fin dai tempi della guerra di Abissinia - resterà per sempre. In questo contesto l’unico che ci guadagna è lo Stato: nei primi 10 mesi dell’anno, calcolano dal Centro studi promotor, i consumi di carburanti sono scesi del 10% (a 32,8 miliardi di litri), la cifra spesa dagli italiani per fare il pieno è però aumentata del 6,9% (a 56,8 miliardi) e l’incasso dell’erario ha segnato un +15,5%, a 26 miliardi di euro.
I benzinai sono infuriati, ed è difficile non capirli. Già fanno un’attività a bassissimo margine, dato che guadagnano in media 3-5 centesimi ogni litro venduto (gli utili grossi, nella filiera del petrolio, si fanno ormai solo con i pozzi), adesso stretti tra le pressioni del fisco e quelli delle compagnie rischiano di fallire uno dopo l’altro. Non si oppongono al piano di riduzione della rete di distribuzione, troppo grande e costosa, ma non vogliono stare zitti mentre vengono soffocati. Ieri le organizzazioni dei gestori Faib Confesercenti, Fegica Cisl e Figisc/Anisa hanno annunciato che spegneranno le pompe dal 12 al 14 dicembre e per una settimana, a fine mese, non accetteranno i pagamenti con le carte di credito. Accusano il governo di non avere mantenuto le promesse fatte questa estate e le compagnie petrolifere di non rinnovare gli accordi collettivi. Il governo, per convincerli a rinunciare alla protesta, ha convocato un tavolo per il 4 dicembre. Un taglio di quelle tasse che pesano per più della metà di ogni pieno, però, sembra improbabile.
da Avvenire di oggi

lunedì 19 novembre 2012

I problemi di Desertec

Il progetto Desertec, quello che prevede di produrre energia elettrica con centrali solari nell'Africa del Nord, perde pezzi. A fine ottobre è uscita Siemens, poi ha lasciato anche Bosch. Costi troppo alti e progetti troppo rischiosi, dicono. La Spagna, poi, non ha firmato il progetto di connessione della rete elettrica con il Marocco. A tre anni dall'avvio del progetto ancora non è stato realizzato nulla.

giovedì 8 novembre 2012

Il petrolio iracheno delude. Piace il Kurdistan

Il petrolio iracheno si sta rivelando una delusione per le compagnie occidentali. Non tanto per i risultati delle esplorazioni (che sono ottimi, con la produzione che secondo la Iea potrebbe raddoppiare in 8 anni) quanto per le complicazioni burocratiche. "Se avessimo avuto piu' soddisfazione dal nostro duro lavoro, non ci porremmo nemmeno il tema, perché offrirci per West Qurna o per Nassiriya sarebbe stato una scelta ovvia, ma ci stiamo domandando se aumentare il nostro impegno in un Paese si è rivelato più complesso di quello che immaginavamo" ha detto qualche giorno fa l'Ad dell'Eni Paolo Scaroni. Ed è notizia di ieri che la Exxon è in cerca di qualcuno a cui vendere la sua fetta del progetto West Qurna-1 (un giacimento da 400 mila barili al giorno) lamentandosi di condizioni contrattuali poco favorevoli e infrastrutture pessime. Exxon preferisce lavorare in Kurdistan (e Baghdad, che non riconosce quel Paese, non permette di lavorare sui suoi giacimenti a chi collabora con il Kurdistan). I curdi (che oggi producono 100 mila barili al giorno ma possono crescere a 175 mila già quest'anno) rischiano di portare via agli iracheni parecchi compagnie. Si mormora di Chevron e della stessa Eni. Anche i turchi di Tpao sono stati allontanati dall'Iraq perché la Turchia sta stringendo legami troppo stretti con i curdi.

mercoledì 7 novembre 2012

Il petrolio rischia un brusco calo dei prezzi

Secondo la Us Energy Information Administration la produzione di petrolio degli Stati Uniti raggiungerà gli 11,7 milioni di barili al giorno entro la fine del 2013. Sarebbe l'8,5% in più rispetto ad ora, così gli Usa avrebbero una capacità petrolifera quotidiana vicina a quella dell'Arabia Saudita (che è in grado di produrre 12 milioni di barili al giorno ma oggi ne produce solo 10). Il solo North Dakota produce 700 mila barili al giorno, cioè più dei 500 mila dell'Ecuador e poco meno dei 750 mila barili del Qatar. Come risultato la quota di importazioni sul totale del consumo petrolifero americano l'anno prossimo scenderà sotto il 40% per la prima volta dal 1991. Sono problemi per il cartello dell'Opec, che produce 31 milioni di barili al giorno e vedrà ridursi significativamente la domanda di greggio degli Stati Uniti. L'Opec soffre anche perché la Russia - che non ha intenzione di entrare nel cartello - sta producendo 10,5 milioni di barili al giorno, il 2% in più rispetto a un anno fa e il massimo dagli anni '80.
Leonardo Maugeri, ex manager del'Eni esperto di petrolio, il prezzo del greggio va verso un brusco calo: "In assenza di crisi vere - ad esempio una guerra nel gofo persico o una improvvisa e simultanea interruzione della produzione in diversi paesi produttori -le forze che muovono il mercato petrolifero puntano a un significativo calo dei prezzi".

Solare, nuova crisi in vista

In cinque anni la capitalizzazione complessiva dei primi 5 gruppi mondiali del solare è crollata del 90%. Molte compagnie sono già fallite. "Se c'era qualcosa di sbagliato da fare, l'industria l'ha fatto, dalla sovrapacità al basarsi sui sussidi governativi" (Ft). Secondo le previsioni di Bernstein il prossimo anno il costo per Watt dell'energia solare potrebbe scendere dagli attuali 1,23 dollari ben sotto il dollaro. Un prezzo che renderà questa energia più conveniente del gas nelle zone più assolate della Cina (ma comunque il prezzo per Watt è del 50% superiore a quello del petrolio) ma che porterà al fallimento chi non riesce a stare dietro a certi prezzi.

domenica 7 ottobre 2012

Apertura russa sul petrolio dell'Artico

La Russia sta pensando di concedere alle società occidentali le licenze per cercare petrolio nelle acque del'Artico. L'idea, presentata al Ft dal ministro dell'Energia Alexander Novak, è quella di permettere alle compagnie di avere accesso alla produzione e almeno partecipare alle licenze, che oggi sono esclusiva dei gruppi parastatali Rosfnet e Gazprom.

mercoledì 15 agosto 2012

La truffa in Puglia per Suntech


L'industria cinese dei pannelli solari è un mondo affollato di colossi morenti. Sono aziende cresciute a dismisura per ragioni più politiche che di mercato: il governo di Pechino anni fa ha deciso che la Cina doveva dominare il mercato mondiale delle energie alternative e non ha badato ha spese per raggiungere questo obiettivo. Solo nel 2010 la Repubblica Popolare ha finanziato le aziende del fotovoltaico con 25 miliardi di dollari. Inondate di denaro, le fabbriche si sono messe a produrre pannelli in quantità esagerate, finché il mercato non ha raggiunto un dimensione spaventosamente sproporzionata. Nel mondo oggi si producono il doppio dei pannelli solari che si comprano. In Cina – spiegava a gennaio Zhang Longenn, di JinkoSolar Holding – l’eccesso di produzione è del 75%: c’è mercato per 20 gigawatt di energia solare ma si producono pannelli per 75 GW.
Ovviamente in questa situazione i colossi del solare cinese bruciano soldi alla velocità della luce. Il più grosso di loro (cioè il più grande produttore di pannelli solari del pianeta) è la Suntech, un gruppo da 3 miliardi di dollari di fatturato che, tra un passivo e l’altro, ha subito in Italia quella che rischia di essere la botta finale: una truffa da mezzo miliardo di euro.
La vicenda, comunicata agli investitori (Suntech è quotata a Wall Street) lo scorso 30 luglio, è complessa. Qualche anno fa il gruppo cinese ha creato il Suntech Global Solar Fund (Gsf) per investire su aziende che gestiscono o sviluppano “solar farm”. L’obiettivo dei cinesi era quello di allargare il giro d’affari europeo dei pannelli solari, creando nel Vecchio Continente un adeguato mercato di sbocco. L’80% del fondo appartiene a Suntech, il 10% è in mano al manager interno Zhengrong Shi, un altro 10% è dello spagnolo Javier Romero, che era il miglior agente di Suntech in Europa e che diventa manager del nuovo fondo. Romero vede un buon affare nel solare in Puglia e crea, per l’occasione, Solar Puglia II, una società di diritto lussemburghese. L’investimento richiesto dall’operazione è consistente: più di 500 milioni di euro. I soldi (554 milioni di euro) arrivano con un prestito dalla China Development Bank, una delle maggiori banche di Stato della Repubblica Popolare. Ma la banca non concede crediti a società estere, chiede sempre che ci sia una controparte cinese. Per questo è il Gsf che si fa garante del prestito, coprendosi con 560 milioni di euro in titoli di Stato tedeschi messi a disposizione da un altro fondo, controllato tutto da Romero. Il massimo della sicurezza, di questi tempi. Se non fosse che quei Bund o sono contraffatti o non sono mai esistiti. I cinesi se ne sono accorti a luglio (mentre cercavano di vendere la loro quota nel fondo Gsf per raccogliere soldi e pagare i debiti). Quindi Suntech ha un debito da 554 milioni di euro con la Development Bank, debiti che si aggiungono ai 540 milioni di dollari che l’azienda deve rimborsare alle banche nella prima metà dell’anno prossimo e agli 1,6 miliardi di indebitamento complessivo.
Le cose sarebbero potute andare diversamente se la banca cinese avesse dato retta ad Alberto Forchielli, il titolare del fondo di private equity Mandarin Capital Partners, al quale la China Development Bank si era rivolta chiedendogli di partecipare al progetto di Solar Puglia. Forchielli ha raccontato all’agenzia Reuters di avere ripetutamente avvertito la banca – sua socia in numerosi progetti – che in quel’affare pugliese lui sentiva odore di truffa: «Ci è venuto il sospetto perché era citata una serie di nomi importanti di società, banche, consulenti legali legati al progetto, secondo una tattica normalmente adottata dai truffatori secondo quella che è la mia esperienza». Ma la banca ha ignorato il consiglio e probabilmente non lo ha nemmeno girato alla Suntech.
L’incidente pugliese ha costretto Suntech ha rimandare la presentazione dei risultati del secondo trimestre 2012. Prima di chiudere i conti i manager vogliono valutare precisamente i danni. Nel frattempo gli investitori spostano i loro soldi altrove: il titolo Suntech, quotato a Wall Street, valeva 1,6 dollari prima del 30 luglio, ra vale si è no un dollaro. Ieri i cinesi hanno annunciato di avere ottenuto da un non specificato tribunale europeo il blocco di tutti gli asset dell’azienda di Romero. Devono sperare che gli asset dello spagnolo, a differenza dei suoi Bund, valgano davvero qualcosa. Anche le banche di Stato cinesi, sempre generose con i campioni del fotovoltaico nazionale, si stanno spazientendo e, considerati i danni di questa incredibile truffa italiana, potrebbero negare a Suntech una nuova ristrutturazione del debito. Staccandole definitivamente la spina.
(mio pezzo da Avvenire di oggi)

martedì 17 luglio 2012

Arabia ed Emirati aggirano lo stretto di Hormuz

Gli Emirati Arabi e l'Arabia Saudita hanno aperto due oleodotti che aggirano lo stretto di Hormuz e rendono l'approvvigionamento di petrolio in Europa più indipendente dall'Iran. La capacità complessiva dei due oleodotti sarà di 3,5 milioni di barili al giorno, e porterà la capacità di aggiramento dello stretto a 6,5 milioni di barili quotidiani, circa il 40% dei 17 milioni di barili che passano dallo stretto. Da ieri è attivo l'oleodotto da 1,5 milioni di barili al giorno che collega il porto di Fujairah, negli Emirati, con Abu Dhabi, aggirando da sotto lo Stretto di Hormuz. L'Arabia Saudia ha invece convertito da gasdotto a oleodotto una condotta da 1.200 chilometri con una capacità di 2 milioni di barili al giorno. 

lunedì 2 luglio 2012

Il Giappone riattiva il primo reattore

Domenica il Giappone ha riattivato il suo primo reattore, chiudendo così i due mesi senza energia nucleare. Il reattore riattivato è il numero 3 di Oi, gestito dalla Kansai Electric. Il 17 luglio dovrebbe essere riattivato anche il reattore numero 4.

giovedì 21 giugno 2012

Il sogno dello shale gas polacco sta morendo

Exxon ha abbandonato i suoi progetti di esplorazioni per la ricerca di shale gas in Polonia. I test condotti non hanno dimostrato la presenza di una quantità di gas sufficiente a giustificare i costi. A marzo il governo polacco ha tagliato le sue riserve si shale gas da 768 a 346 miliardi di metri cubi. Un decimo delle stime iniziali.

lunedì 18 giugno 2012

Il Giappone riapre due centrali nucleari



Il Giappone ha deciso di riattivare due reattori nucleari. Sono le prime riaperture dopo la chiusura, a maggio, dell'ultimo reattore rimasto in attività a 14 mesi da Fukushima. L'avvio degli impianti è previsto per l'inizio di luglio. Le stime del governo dicono che senza energia nucleare l'economia giapponese potrebbe crollare del 5% da qui al 2030.