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giovedì 18 luglio 2013

Mercedes vietate in Francia

Parigi ha deciso di bloccare l'immatricolazione di Mercedes-Benz Classe A, Classe B e CLA fabbricate dopo il 12 giugno. Accusa la Daimler di utilizzare per costruire le macchine un gas refrigerante bandito dalle norme Ue.

mercoledì 17 luglio 2013

Tutti in affitto dai fondi sovrani

Quando i soldi crescono sugli alberi – o sgorgano dal sottosuolo – ci si può an­che permettere di spenderli mala­mente. Per esempio facendo indigestione di a­zioni delle più grandi banche mondiali pochi mesi prima del crollo di Lehman Brothers. A­dia, il fondo sovrano di Abu Dhabi, aveva pun­tato pesante sulle regine della finanza britan­nica proprio alla vigilia della grande crisi. Co­me risultato, secondo uno studio del Council on Foreign Relations, solo tra il 2007 e il 2008 ci ha perso 183 miliardi di dollari. Il fondo sovrano li­bico Lia, che si era affidato a Goldman Sachs per guadagnare con i derivati di azioni e valute, ha affidato alla leggendaria banca americana 1,2 miliardi. Alla fine dei giochi ha avuto indietro meno di 2 milioni. Qia, Il fondo del Qatar con cui gli sceicchi dell’Emirato si dilettano tra squa­dre di calcio (il Paris Saint Germain) e prestigiose griffe ( Valentino), ha speso un miliardo e mez­zo di sterline per costruire lo Shard, la torre di Renzo Piano che domina Londra. Perfido, il 

Daily Mail
 un mese fa ha scritto che lo spetta­colo dello Shard di notte è una tristezza: i prez­zi sono troppo alti, la torre semivuota e buia è una macchia nera che stona con le luci degli uffici della City. Piano se l’è presa, ha fatto pre­sente che lo Shard deve essere ancora comple­tato e ha promesso che quando sarà pronto – questo ottobre – il suo grattacielo a forma di scheggia si riempirà.

Vedremo. Per gli emiri del Qatar cambia poco: già un anno fa avevano spiegato che gli piace­va l’idea della torre di vetro, il prezzo e il senso economico dell’operazione non avevano im­portanza. Perché i soldi dell’emiro, appunto, e­rompono dal terreno, nella forma del petrolio e del gas che, esportati in tutto il mondo, ali­mentano queste enormi spese.

Secondo i calcoli del Sovereign Wealth Fund In­stitute, l’organizzazione che studia più a fondo questo settore, il patrimonio dei fondi sovrani a giugno ammontava a 5.474 miliardi di dolla­ri. Sono 1.500 miliardi in più rispetto a tre anni fa, è quasi la metà del Pil della zona euro. Que­sta enorme quantità di denaro non viene tutta dalle materie prime: i fondi che vivono di gas e petrolio hanno un patrimonio di circa 3.100 mi­liardi. Quasi tutto il resto appartiene a quei fon­di sovrani che raccolgono i disavanzi commer­ciali dei loro Paesi. Come il Cic, il China Invest­ment Corporation costruito da Pechino quasi 40 anni fa. Con un patrimonio di 482 miliardi di dollari è il secondo fondo sovrano più gran­de del pianeta, dietro quello norvegese (ali­mentato a gas naturale) che ha in gestione 746 miliardi.

Finché il prezzo del petrolio o il commercio in­ternazionale tengono, questi fondi possono continuare a crescere pur chiudendo i conti in rosso. Però per chi li gestisce è sempre più dif­
ficile giustificare le perdite. «I fondi sovrani han­no dovuto affrontare critiche pubbliche nei lo­ro paesi a causa di una serie di perdite sugli in­vestimenti esteri alla vigilia della crisi – ha scrit­to la casa di consulenza inglese TheCityUk in un report diffuso a marzo –. Come risultato le en­tità delle operazioni sono state ridotte negli ul­timi anni». I soldi comunque non mancheran­no. È ancora TheCityUk a scrivere che «i fondi potranno vedere un continuo afflusso di capitali nei prossi­mi anni, con i paesi asiatici, in particolare la Cina, che conti­nueranno a fare scorta di mo­neta estera e con la domanda di materie prime che crescerà grazie alla ripresa dell’econo­mia globale e alla domanda dei mercati emergenti».

La novità è che, scottati dalle troppe batoste subite giocando a conquistare le grandi banche europee e americane (abbia­mo fatto solo qualche esempio, ma potevamo citare tra gli altri i 2 miliardi persi dal coreano Kic con Merrill Lynch, o il caso di Mubadala, sempre di Abu Dhabi, che negli ultimi due an­ni ha fatto svalutazioni di quasi 4,5 miliardi sui suoi titoli finanziari), i fondi si stanno buttan­do sull’immobiliare commerciale. Secondo il Sovereign Investment Lab del centro studi boc­coniano Paolo Baffi, dei 58,4 miliardi di dollari investiti dai fondi sovrani nel 2012 ben 15 mi­liardi (il 26%) erano destinati al 'real estate'. È un aumento del 50% rispetto al 2011. Per la pri­ma volta gli investimenti immobiliari hanno superato quelli finanziari. Ne abbiamo visto un esempio anche in Italia, quan­do a maggio il fondo sovrano del Qatar è entrato, con una quota del 40%, nel progetto immobiliare milanese di Por­ta Nuova. Più in grande, il ci­nese Cic ha comprato i quar­tieri generali di Deutsche Bank a Londra mentre gli arabi del­l’Adia hanno preso il control­lo di quelli di Amundi a Parigi. Come farebbe un piccolo risparmiatore dopo una brutta esperienza di Borsa, i giganteschi fondi degli Stati ora puntano forte sul mattone. Se hanno perso miliardi per diventare soci dei colossi della finanza, ora sperano di guadagna­re affitandogli gli uffici. 

giovedì 11 luglio 2013

I sussidi di disoccupazione negli Stati Uniti

Il sistema di sussidi alla disoccupazione negli Stati Uniti è stato costruito 75 anni fa, durante la grande crisi. La norma, per i singoli Stati, è offrire per 26 settimane un assegno pari in media alla metà del reddito che il disoccupato era abituato a ricevere. In casi di crisi particolarmente gravi lo Stato centrale poteva intervenire a garantire i finanziamenti per qualche settimana aggiuntiva (a volte si è arrivati a 99 settimane di sussidio).
Nove Stati hanno tagliato a 20 le settimane massime di sussidio di disoccupazione, altri 6 Stati hanno ridotto gli assegni o ristretto i criteri per poterli ottenere.
dal Wsj

mercoledì 10 luglio 2013

La Peugeot, quello che la Fiat rischiava di diventare

Sono passati 35 anni da quando la Fiat e la Peugeot si sono alleate nella Sevel per costruire assieme furgoni e furgoncini. Collaborazioni così durature, nell’industria dell’auto, sono rare. Questa joint venture ha funzionato bene perché i due alleati si capiscono e si assomigliano da sempre. I loro soci di riferimento sono ancora i discendenti del fondatore, gli Agnelli e i Peugeot, le loro macchine sono per il pubblico di massa, i loro rapporti con i governi nazionali sono particolarmente forti. Ma le loro storie, in questi ultimi anni, hanno preso direzioni opposte.

La storia di Fiat la conosciamo bene: arrivata a un passo dallo sfascio si è rimessa in marcia costruendo la sua rinascita sugli 1,6 miliardi di euro che le ha dato General Motors per non comprarla, quindi ha puntato forte su modelli 'ricercati' (come la 500) e sull’espansione del mercato brasiliano, infine si è lanciata nella conquista di Chrysler. La storia recente di Psa, cioè del gruppo Peugeot- Citroën , è poco seguita nel nostro Paese. Peccato, perché le vicende della casa francese raccontano quella che sarebbe potuta essere oggi la Fiat se Sergio Marchionne non si fosse buttato nell’avventura americana. Partiamo dalla fine. Psa ha chiuso i primi sei mesi dell’anno con 1,5 milioni di auto vendute, il 9,8% in meno rispetto alla prima metà del 2012. Crollano, naturalmente, le vendite europee. La forte crescita delle immatricolazioni in Cina (+32%) non basta a compensarle. L’Asia però sembra l’unica strada percorribile per i Peugeot. L’amministratore delegato, Philippe Varin, una settimana fa ha inaugurato a Wuhan la terza fabbrica cinese di Psa. Nel 2015, quando sarà in grado di produrre 750mila auto all’anno, sarà lo stabilimento più grande del gruppo. L’apertura dell’impianto cinese stride con le chiusure annunciate in Europa. Chiuderà l’anno prossimo (se non alla fine del 2013) la fabbrica parigina di Aulnay-sous-Bois, che è stata al centro dello scontro con il governo Hollande. I sindacati, a maggioranza, hannodovuto digerire un piano di ristrutturazione delle attività francesi che prevede 11.200 esuberi.
Non avevano molta scelta: con il mercato auto europeo al collasso, Psa, che dipende ancora da vetture di fascia media e bassa, è in crisi nera. Nel 2012 ha bruciato 2,5 miliardi di euro di cassa, per quest’anno prevede di bruciare un altro miliardo e mezzo. Le risorse non sono infinite. È dovuto intervenire il governo francese, che ha concesso garanzie e prestiti per un totale di 7 miliardi di euro. A Bruxelles stanno studiando quegli aiuti, perché potrebbero essere contrari alle regole sulla concorrenza. Nei piani di Varin l’azienda attraverso il radicale taglio dei costi e l’aumento delle vendite in Asia potrebbe chiudere le falle nei suoi conti correnti già l’anno prossimo, per ritrovare l’utile nel 2015. La maggioranza degli analisti è scettica.
Comunque andrà, la famiglia Peugeot, che ha il 25% delle azioni e il 38% dei diritti di voto, sembra destinata, dopo due secoli, a perdere il controllo dell’azienda. Serve un aumento di capitale e a loro mancano i soldi. Il denaro potrebbe arrivare da General Motors. La più grande delle tre sorelle di Detroit, tornata forte dopo il fallimento di quattro anni fa, nel 2012 è entrata in società comprando il 7% per 400 milioni di euro. Sta valutando l’idea di fondere Psa con la sua Opel. A fine giugno l’agenzia Reuters ha rilanciato le voci di imminente scalata. Sono arrivate le dovute smentite, ma gli investitori ci credono così poco che da 10 giorni sono tornati a far scorta delle azioni Psa.
Ecco: la conquista americana, con gli yankee nella parte dei predatori, sarebbe la perfetta chiusura della storia degli opposti destini degli Agnelli e dei Peugeot.

I cinesi che non si integrano

Dai giornali di oggi due bei esempi di come la comunità cinese non sia in grado di integrarsi in Italia.

La dichiarazione su Repubblica di Angelo Ouci, uno dei leader della comunità cinese milanese:
«Il sindaco non è mai venuto a una nostra manifestazione, né organizzato un incontro con la nostra comunità, ha ospitato il Dalai Lama ad Assago, dove di solito facciamo le feste cinesi. Quest’anno siamo stati costretti a spostarci al PalaSesto, essendo che Assago era ormai contaminato».

Sul Sole 24 Ore qualche dettaglio tecnico sulle strategie cinesi per lavorare in pace ignorando ogni legge italiana. 
Fanno "ditte con un solo addetto, che chiudono al secondo anno di attività. Per prassi, i controlli fiscali scattano non prima di 20 mesi: i cinesi lo hanno capito e alla scadenza del biennio cancellano la vecchia ditta e ne aprono un'altra". "L'ultima novità? La notte dopo il sequestro dei macchinari, i cinesi violano i sigilli, caricano le macchine su un Tir e le rivendono ai loro amici".
Non solo. "In pochi sanno che non esiste un patto di estradizione tra Italia e Repubblica Popolare". Aldo Milone, assessore a Prato, ha consegnato all'Agenzia delle Entrate 357 dossier qualificati, "cioè già setacciati dalla polizia municipale, di cittadini cinesi che evadono sistematicamente tasse comunali, regionali e nazionali. Importo complessivo stimato per difetto: oltre un miliardo l'anno".

martedì 9 luglio 2013

Il problema di Fiat: quanto costerà sfilarsi?

Secondo Riccardo Ruggeri la questione di Fiat non è tanto il costo del lavoro, quanto la necessità di procedere a tagli strutturali nelle sue fabbriche europee.

Il costo del lavoro operaio (diretti, indiretti, manutentori, ecc.) in Fiat rappresenta il 7 per cento del costo. L’intero processo di fabbrica, dalla lastro-ferratura al montaggio finale, per una Panda vale 11 ore, assumiamo un costo/operaio di 22 euro/ora, totale 242 euro/auto. In Polonia costerebbe 88 euro (8 euro/ora), in Germania 330 (30 euro/ora). Come si vede, il costo del lavoro è poco significativo. Costruire 200.000 Panda in Italia, di puro costo-lavoro, spendi 48 milioni di euro, in Polonia 18 (in crescita), la differenza di 30 milioni è irrilevante, trascurando gli altri ben noti fattori, qualità percepita compresa. [...] Ora sono di nuovo tutti lì a sfruculiare su argomenti irrilevanti o a interpretare sentenze, solo nello specifico, di scarsa rilevanza. In realtà il problema Fiat-Italia noi investitori l’abbiamo chiaro da tempo: “Fiat Auto ha stabilimenti e personale in esubero in termini strutturali, quanto costerà sfilarsi?”.

Saccomanni chiama i banchieri per fare ripartire i prestiti

Scrive Fubini che Fabrizio Saccomanni martedì prossimo incontrerà a Roma i banchieri italiani per elaborare un sistema di rilancio dei prestiti per le imprese.

Il ministro dell'Economia e del Tesoro Fabrizio Saccomanni spedirà domani gli inviti per un vertice ristretto previsto il 16 luglio a Roma, parteciperanno una trentina di personaggi chiave del sistema finanziario italiano. Obiettivo: superare il crollo dei prestiti alle aziende, allargando il numero dei soggetti che possono elargire credito oltre alle banche. Si pensa ai fondi pensione, assicurazioni e Fondazioni bancarie.

venerdì 5 luglio 2013

Le ragioni della fine del capitalismo di relazione

Secondo Luigi Zingales "le ragioni [della fine del capitalismo di relazione in Italia] sono molte, ma forse la più importante è la storica decisione del tribunale di Parma sull'acquisizione da parte di Parmalat del Lactalis American Group (LAG). Se confermato in appello, questo provvedimento rivoluziona la corporate governance in Italia, uccidendo alla radice il capitalismo di relazione. Il motivo del contendere è una delle tante operazioni con parti correlate che caratterizza il nostro sistema: l'acquisizione da parte di Parmalat di una società (LAG) posseduta dalla controllante (Lactalis)".

martedì 2 luglio 2013

L'utile del Fatto Quotidiano

Nel 2011 il Fatto aveva chiuso i conti con un utile di 4,5 milioni. Nel 2012 l'utile è stato di 753mila euro. Più o meno è un -85%. L'editrice Chiarelettere nel 2012 è riuscita a fare utili solo incassando il dividendo del giornale. La casa editrice è controllata al 49% dal gruppo Mauri Spagnol, al 30% dall'editore Lorenzo Fazio, al 15% da Roberto Vitale.

I tagli alla spesa pubblica possibili, secondo Paolo De Ioanna

Per tagliare si può partire così: "Innanzitutto i sussidi statali alle imprese, identificati da Francesco Giavazzi l’anno scorso e che ammontano a circa 10 miliardi l’anno. Poi ci sono le agevolazioni fiscali già censite con il governo Berlusconi da Vieri Ceriani: 160 miliardi nel complesso, di cui almeno 70 giudicati “intoccabili” (quelle per i lavoratori dipendenti, pensionati e i familiari a carico). “Aggiungo che ogni anno, nelle bollette elettriche, sono contenuti 12 miliardi di sussidi per il fotovoltaico. Da tutto questo già qui si potrebbero recuperare 500-600 milioni in sei mesi e poi un miliardo in ragione d’anno. Certo non sono ancora i 20 miliardi che ci servirebbero”.
(Paolo De Ioanna è stato capo di gabinetto al Tesoro con Ciampi e poi con Padoa Schioppa, ha scritto A nostre spese. Crescere di più tagliando meglio).

lunedì 1 luglio 2013

La relazione tra Samsung e Apple


Ricordarsi, quando si parla della battaglia dei brevetti tra Apple e Samsung, che l'azienda americana compra da quella sudcoreana diversi componenti, compresi chip e display. Secondo le stime di Mark Newman, analista a Sanford Bernstein, nel 2012 Apple ha comprato componentistica Samsung per 10 miliardi di dollari (5 miilardi per i processori). Apple si è accordata per comprare in futuro i chip di Tsmc. Non si sa quando saranno pronti.

La disperazione del governo che non sa tagliare

"Il governo si sta muovendo con un approccio che dimostra disperazione per reperire qualche soldo «dal fondo del barile» invece che proporre alla Ue e agli italiani un piano pluriennale di politica fiscale che permetta di ridurre tasse e spese".

Ecco un buon modo di dire, in breve, quello che sta succedendo. Lo ha scritto Alesina sul Corriere di ieri.