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giovedì 29 agosto 2013

Il processo alla grande crisi

«C’ è un sacco di gente che sente di a­vere subìto un torto da Jp Morgan ma non può permettersi di pren­dersela con un’enorme banca. Non dovrebbe essere così». Ha ragione Leonard Blavatnik, uno che martedì ha ottenuto dal giudice di farsi risarcire 50 milioni di euro dalla banca d’affari americana. Blavatnik è uno dalle spalle abbastanza larghe per prendersela con chi vuole. Ucraino emigrato negli Stati Uniti da ra­gazzo per studiare prima alla Columbia e poi a Har­vard, ha fatto fortuna azzeccando un investimento giusto dopo l’altro e oggi, a 56 anni, ha un conto da 16 miliardi di dollari che ne fa il 44esimo uomo più ricco del mondo. Ha fatto causa a Jp Morgan perché nel 2006 un suo fondo aveva affidato alla banca 1 mi­liardo di dollari da investire con una strategia “con­servativa” e invece i trader hanno puntato forte sui ti­toli basati sui “subprime”. In due anni gli hanno bru­ciato 100 milioni. Il miliardario Blavatnik sarà par­zialmente rimborsato e sugli ingannati incapaci di difendersi ha ragione davvero; ma se tutte le vittime finanziarie delle scorrettezze che negli anni prima della crisi le banche d’affari americane avevano or­ganizzato per mangiarsi i soldi dei clienti potessero permettersi di chiedere il conto, a Wall Street reste­rebbe una manciata di superstiti.

Non sarà questa distru­zione per via giudiziaria che alcuni si augurano, ma 'il processo alla gran­de crisi' in America è ini­ziato e sta più che inner­vosendo qualche ban­chiere. Ancora Jp Mor­gan, la più grande ma an­che la più tormentata delle banche d’affari a­mericane. Il giorno dopo la vittoria di Balvatnik è emerso che la Fhfa, l’agenzia che regola il mercato del credito immobiliare Usa, ha chiesto alla banca 6 miliardi di dollari come risarci­mento per i titoli basati sui mutui 'subprime' che Jp Morgan ha venduto alle agenzie Fannie Mae e Fred­die Mac, poi salvate dallo Stato con un intervento da 42 miliardi. È la richiesta di rimborso più grossa fat­ta a una banca d’affari per quanto fatto negli anni della crisi. Delle altre 17 banche messe sotto accusa dalla Fhfa tre hanno già accettato di pagare. La sviz­zera Ubs, l’unica che ha comunicato l’importo della 'sanzione' ha chiuso la vicenda con 885 milioni. Se il parametro sarà lo stesso difficilmente Jp Morgan se la caverà con meno di 5 miliardi.

Vedremo. Nel frattempo un altro processo alla gran­de crisi si è appena chiuso con un successo dell’ac­cusa. Il 1° agosto la giuria di Manhattan ha giudicato colpevole di 6 dei 7 reati contestati Fabrice Tourre, ex trader di Goldman Sachs. Il caso è esemplare: Tour­re per Goldman aveva lavorato alla costruzione di A­bacus, un derivato imbottito di altri derivati basati sui mutui che erano stati scelti dal John Paulson. La banca nel 2007 aveva venduto il prodotto ai clienti o­mettendo un dettaglio non indifferente: Paulson a­veva scelto i titoli perché voleva scommetergli con­tro con il suo 'hedge fund'. Una tipica trovata pre-Lehmann. Lo spericolato finanziere ci ha fatto 1 mi­liardo di dollari, i clienti della banca hanno perso al­meno
 altrettanto. Lo sconosciuto trentaquatrenne Tourre, in questa sto­ria, ha pagato per tutti. Però via via che le intricate vi­cende degli anni che hanno portato al crollo mondiale del 2008 si dipanano con l’aiuto dei magistrati ame­ricani, anche ai sopravvissuti della crisi viene chiesto conto delle loro scelte. In tribunale, come testimone, potrebbe finirci Ben Bernanke. Maurice 'Hank' Greenberg, ottantottenne fondatore ed ex proprieta­rio del colosso assicurativo Aig, pretende che il capo della Federal Reserve spieghi davanti ai giudici per­ché nel 2008 decise di salvare Aig togliendone il con­trollo ai suoi azionisti. Secondo il vecchio Greenberg il banchiere centrale in realtà ha voluto salvare Gold­man Sachs, che con il fallimento di Aig avrebbe per­so almeno 20 miliardi di dollari. Il giudice ha convo­cato Bernanke come testimone, ma il governo ame­ricano sta facendo di tutto per evitare al governatore uscente questo passaggio in tribunale. Una scelta che certamente non aiuterà a tranquillizzare chi sospet­ta che in questo grande processo alla crisi Washing­ton abbia ancora qualcosa da nascondere. 
da Avvenire

lunedì 26 agosto 2013

In Borsa tornano le matricole (ma poco in Italia)

Non sarà l’arrivo di Mossi e Ghisolfi a consolare la Borsa di Hong Kong. Certo, la società basata a Tortona ma con stabilimenti in mezzo mondo è uno dei principali produttori mondiali di polietilene per bottiglie di plastica e imballaggi e ha una dimensione significativa: fattura circa 3 miliardi di dollari e dovrebbe essere valutata poco meno di 2 miliardi. Cifre che farebbero entrare da subito l’impresa di Vittorio Ghisolfi e i figli nel Ftse Mib, l’indice che mette assieme le quaranta società più grosse della piccola Borsa Italiana, ma che non spostano gli equilibri alla piazza di Hong Kong – dove il gruppo ha deciso di quotarsi – che vale quasi dieci volte la nostra. No, Hong Kong non può consolarsi con Mossi e Ghisolfi perché il mercato asiatico dal 2008 al 2011 è stato la maggiore piazza al mondo per i debutti di Borsa ma nel 2012 è scivolato al quarto posto e quest’anno difficilmente riuscirà a fare meglio. Soprattutto, la Borsa di Hong Kong rischia anche di perdersi l’esordio più ricco di tutti.
Quello di Alibaba, gigantesca compagnia cinese del commercio elettronico che gestisce più scambi di Amazon ed eBay messe assieme. Jack Ma, suo fondatore e proprietario, è il più corteggiato dalle Borse mondiali. Se per l’onnipresente Twitter, che sta lavorando per quotarsi a Wall Street, si parla di una valutazione di 10 miliardi di dollari, per Alibaba le stime indicano quotazioni da 70 miliardi. A quei livelli se Ma mettesse sul mercato anche solo un terzo delle azioni il suo debutto varrebbe da solo un quarto del mercato mondiale 2013 delle Ipo, cioè dei collocamenti delle società in Borsa. È comprensibile quindi che Hong Kong – dove Ma aveva quotato Alibaba.com, il suo più interessante sito del commercio online, per poi ricomprarsi tutte le azioni nel 2012 – non voglia farsi sfuggire il prezioso cliente. Però il manager, a quanto pare, starebbe pensando di andare a Wall Street, dove avrebbe la possibilità di suddividere le azioni a seconda dei diritti di voto, così da raccogliere capitali senza rinunciare alla sicurezza delcontrollo del suo gruppo.Il collocamento di Alibaba potrebbe ridare a questo 2013 delle Ipo uno splendore perso nell’ultimo biennio. Non è una questione solo tecnica: quando un numero significativo di società decide di quotarsi in Borsa e quindi andare a raccogliere fondi tra nuovi soci per crescere e allargarsi è anche un segnale importante di ottimismo economico. Nel 2007 l’ottimismo c’era ancora e i nuovi collocamenti avevano portato alle Borse 266 miliardi di dollari di nuovo capitale. È stato il massimo di sempre, poi c’è stata la caduta: solo 85 miliardi le Ipo del 2008, 109 miliardi l’anno dopo. L’illusione della fine della crisiaveva riacceso il mercato nel 2010, un anno in cui la raccolta ha raggiunto i 243 miliardi grazie alle enormi Ipo di Agricoltural Bank of China, Icbc e General Motors. Il ritorno al pessimismo ha caratterizzato altri due anni mediocri: nel 2011 e il 2012 il mercato delle Ipo è rimasto sotto i 100 miliardi.
Quest’anno le cose stanno andando un po’ meglio. Nei primi 7 mesi, secondo i calcoli di Thomson Reuters, attraverso 417 debutti di Borsa sono stati raccolti quasi 80 miliardi di dollari, con un aumento del 14% rispetto allo stesso periodo del 2012. Con Hong Kong in difficoltà, Wall Street regna incontrastata come piazza preferita dalle debuttanti. Ha raccolto 27,6 miliardi con 117 Ipo, ma segna un calo del 10% rispetto all’anno scorso. Aumenta invece addirittura del 310% l’incasso di Tokyo, che ha raccolto 7,7 miliardi e ha ospitato la seconda Ipo più grande dell’anno, quella da 4 miliardi di Suntory Beverage. La prima Ipo è stata brasiliana, con la compagnia assicurativa Bb Seguridade che ha raccolto 5,7 miliardi garantendo alla piazza di Sanpaolo il terzo posto mondiale nella classifica delle Ipo. Una classifica in cui Milano resta indietro. Thomson conta tre Ipo a Piazza Affari in questo 2013, per un incasso di 400 milioni di dollari (+73%). L’unico debutto nostrano veramente rilevante è stato quello di Moleskine. L’azienda delle agendine ha raccolto 269 milioni mettendo sul mercato il 50,2% delle azioni il 3 aprile. Sono passati quasi cinque mesi, la Borsa ha guadagnato il 15% ma il titolo Moleskine ha perso altrettanto. Anche 'affari' come questi aiutano a capire perché le imprese di Tortona vanno a quotarsi nell’Estremo Oriente.
da Avvenire

giovedì 22 agosto 2013

Il crollo nelle riserve delle banche centrali emergenti

Secondo un'analisi di Morgan Stanley, da maggio le banche centrali dei paesi emergenti hanno perso 81 miliardi di dollari di riserve valutarie per effetto di uscite di capitale o interventi sui mercati valutari. La cifra, che esclude la Cina, è circa il 2% delle riserve di queste banche.
dal Ft

L'incertezza della Fed sull'uscita dal quantitative easing

Ci fosse Esther L. George, al­la guida della Federal Re­serve, la Banca centrale a­mericana avrebbe probabilmente già smesso di pompare ogni mese 85 miliardi nel sistema finanziario statunitense. Invece alla guida del­la Fed, almeno fino a gennaio, c’è Ben Bernanke e George, che è la presidente della Federal Reserve di Kansas City, deve accontentar­si di partecipare alle riunioni del comitato direttivo della Banca cen­trale. Ma lì il 31 luglio questo ban­chiere del Midwest si è fatta senti­re: il suo è stato l’unico voto con­trario al comunicato finale con cui Bernanke non diceva con chiarez­za quando la Fed avrebbe ridotto o meno il suo flusso di acquisti.

La pubblicazione dei verbali del­l’ultima riunione del Federal Open Market Committee non ha aiuta­to gli investitori a capire meglio quali sono le intenzioni della Ban­ca centrale. Nel testo si ripete che i membri del direttivo sono divisi. Alcuni si aspettano che la crescita economica americana accelererà, altri sono più cauti, i primi sotto­lineano anche che la disoccupa­zione sta scendendo rapidamen­te, i secondi notano che comun­que il mercato del lavoro è debo­le. Gli "ottimisti" ritengono sia già arrivato il momento di smetterla di pompare tanto denaro nel si­stema, i 'pessimisti' (che per ora stanno vincendo) chiedono mag­giore cautela. Le divisioni, co­munque, sono forti. Solo la Geor­ge è arrivata a votare contro, ma un numero significativo di altri
 banchieri centrali crede, come lei, che sia arrivato il momento di ini­ziare a ridurre il flusso di acquisti, che a gennaio è stato allargato da 40 a 85 miliardi di dollari al mese. Sono di più gli altri, però, quelli che «hanno sottolineato l’impor­tanza di essere pazienti». L’unica certezza, almeno ufficiale, è che entro la metà del 2014 l’intera ter­za fase del 'quantitative easing' dovrà concludersi con l’elimina­zione di tutti gli 85 miliardi di spe­sa mensile. È sulla base di questo scenario che i grandi fondi in queste ultime set­timane si stanno riorganizzando: ritirano i soldi investiti nei merca­ti più rischiosi (ma anche più red­ditizi) e li spostano verso investi­menti più tranquilli. La rupia in­diana è scesa a un nuovo minimo storico mentre continuano a pre­cipitare anche le valute di Thai­landia, Indonesia, Brasile e Tur­chia. Ed è figlio dell’incertezza il nervosismo che stiamo vedendo sulle Borse. Ieri, per la terza gior­nata consecutiva, i mercati europei hanno chiuso in calo, anche se so­no stati evitati gli scivoloni pesan­ti di lunedì e martedì (Milano ha fatto -0,7%). Continua anche la ri­salita del tasso dei Btp decennali, che sul mercato secondario è sali­to di 6 centesimi, al 4,37% portan­dosi a 250 punti di distanza dai Bund tedeschi. Wall Street, come sempre unica grande Borsa aper­ta quando la Fed ha diffuso il co­municato (alle 20 italiane) era già in ribasso e ha accelerato la disce­sa (ma sotto l’1%). Gli analisti di­cono di aspettarsi a questo punto una piccola riduzione del 'quan­titative easing' nella riunione del­la Fed di metà settembre.


da Avvenire

sabato 17 agosto 2013

La grande fuga dai titoli Usa

È bastato che Ben Bernanke suggerisse con molta cautela che forse, se l’economia americana continuerà a migliorare, la Federal Reserve nei prossimi mesi potrebbe iniziare a ridurre il suo massiccio rifornimento mensile di denaro fresco al sistema finanziario (sono 85 miliardi di dollari al mese) per provocare una storica sbandata dei titoli di Stato americani. A giugno, ha comunicato nel giorno dell’Assunta il dipartimento del Tesoro, la quantità di titoli di Stato in mani straniere è diminuita di 57 miliardi di dollari, a 5.600 miliardi totali. Non è stato solo il terzo mese consecutivo di uscita degli investitori internazionali dal debito americano: da quando il ministero diffonde le cifre (e sono 36 anni) una fuga dai titoli del Tesoro come quella di giugno non si era mai vista.

A vendere, e questo è ancora più preoccupante per Washington, sono i suoi due maggiori creditori: la Cina, il cui portafoglio di titoli americani si è ridotto da 1.297 a 1.276 miliardi, e il Giappone, che ha tagliato i suoi investimenti a stelle e strisce da 1.103 a 1.083 miliardi. Da soli i due colossi asiatici valgono il 70% delle vendite di titoli del debito pubblico americano. Peggiora ulteriormente lo scenario il fatto che le vendite non siano concentrate solo sui titoli pubblici. Gli investitori internazionali hanno iniziato quella che sembra una fuga da tutti i tipi di titoli statunitensi: le azioni delle imprese (-26,8 miliardi), le loro obbligazioni (-5 miliardi), i titoli delle agenzie governative (-5,2 miliardi).

Non si può dire che questi numeri siano stati una sorpresa per Bernanke. Già sui mercati secondari i titoli del Tesoro avevano scontato subito l’apertura a una possibile riduzione delle politiche ultra-aggressive. Anche a Wall Street le cadute degli indici azionari erano state fragorose. Per fermare l’emorragia (e qualcuno sospetta su pressione governativa), nelle settimane successive il presidente della Fed ha corretto le posizioni della banca centrale, facendo capire che c’è fretta di uscire dal piano di stimolo. I dati di luglio, che saranno diffusi il mese prossimo, mostreranno se il passo indietro avrà riportato gli investitori a puntare sugli Usa. Se i numeri indicassero che la fuga va avanti, per Lawrence Summers e Janet Yellen, i due candidati alla successione di Bernanke alla guida della Fed, si prospetterebbe un debutto da incubo.


da Avvenire