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venerdì 22 febbraio 2013

E Grillo diventa lo spauracchio dei mercati

Ogni mattina sul sito del Financial Times un gruppo di giornalisti finanziari chiac­chiera pubblicamente sulle notizie de­stinate a muovere le Borse. Ieri la loro chiacchie­rata si apriva con una foto di Beppe Grillo. Se­guiva una analisi pubblicata su Euro Intelligen­ce (un servizio di informazione finanziaria sem­pre legato al quotidiano inglese) in cui si raccon­tava che in un’intervista concessa a Euronews il leader del Movimento 5 Stelle ha spiegato tra l’al­tro che intende «ridiscutere» il debito pubblico i­taliano e introdurre sanzioni sulle importazioni. «Quest’uomo – scrive Euro Intelligence citando i sondaggi che danno Grillo al 20% – propone le mi­sure più anti-euro, anti-Ue e mercantiliste della recente storia elettorale europea e lo fa senza il razzismo dei tradizionali partiti dell’estrema de­stra ».Grillo è oggi uno dei grandi spauracchi degli in­vestitori europei, che guardano al voto italiano con una certa ansia perché te­mono che da lunedì sera la ter­za maggiore economia dell’eu­ro sarà, di fatto, ingovernabile. Le analisi diffuse in questi gior­ni da Credit Suisse, Morgan Stanley, Mediobanca Securities, Ig, Allianz Gi e Standard & Poor’s insistono tutte sullo stesso pro­blema: se dal voto uscirà una maggioranza debole l’Italia ri­schia di mancare gli obiettivi di finanza pubblica che si è data e di abbandonare in partenza o­gni tentativo di riforma della sua economia. In una zona eu­ro dove la Germania rallenta (e anch’essa dovrà votare, in au­tunno), la Francia è in evidenti difficoltà e la Spagna resta in pessima forma l’Italia imprigionata dall’incer­tezza politica è proprio la novità meno desidera­bile.
Gli analisti chiaramente non fanno il tifo per qual­che partito specifico. Vogliono più che altro mi­sure capaci, almeno secondo i loro calcoli, di ri­mettere l’Italia in grado di crescere quando l’e­conomia europea troverà la ripresa. Scrive Neil Dwane, di Allianz Gi, che Monti «sebbene sia par­tito col piede giusto, non ha affrontato le più am­pie, e forse più importanti, questioni relative al­l’attrattività dell’Italia per gli investitori istituzio­nali. Se non vengono affrontate a fondo tali questioni, l’Italia ri­schia di rimanere relegata a un futuro molto simile al passato degli ultimi 20 anni: bassa cre­scita, economia debole ed espo­sta alle pressioni regionali e glo­bali, con l’ulteriore aggravio di un pesante debito pubblico». Quasi identica l’analisi di Moritz Kraemer di Standard & Poor’s: «Nonostante le riforme intro­dotte dal governo tecnico di Ma­rio Monti nell’ultimo anno, le prospettive di crescita dell’eco­nomia italiana restano com­presse dalle rigidità sul mercato del lavoro, da un settore dei ser­vizi molto protetto e dall’eleva­to carico fiscale su lavoro e in­dustria ».
Qualche analista si sbilancia di più. Filippo Dio­dovich e Vincenzo Longo di Ig partono dai son­daggi e tra gli esiti più probabili spiegano che quello di una vittoria di Bersani alla Camera e non al Senato, con una situazione che però lo costringa a un’alleanza con Monti e conseguente uscita di Vendola dalla maggioranza «è lo scenario prefe­rito dai mercati e dagli investitori esteri».
E quello scenario – nonostante le ripetute pub­bliche smentite – è anche quello preferito dai te­deschi, che ovviamente non vogliono rischiare nulla sui soldi (soprattutto tedeschi) che l’Euro­pa ha 'prestato' all’Italia. La Banca centrale eu­ropea ieri ha comunicato ufficialmente il detta­glio della sua spesa nel Securities Market Pro­gramme, il piano di acquisti di titoli pubblici del­le nazioni a rischio chiuso all’inizio del 2012: l’i­stituto guidato da Mario Draghi ha in cassaforte titoli per 218 miliardi di euro (ma se a prezzi di mercato valgono 209 miliardi). Di questi poco meno della metà – 102,8 miliardi di valore uffi­ciale, 99 alle quotazioni attuali – sono Btp italia­ni, con una scadenza media di 4,5 anni. Nella mi­gliore delle ipotesi politiche Francoforte avrà il suo rimborso prima della fine della prossima le­gislatura. 

da Avvenire di oggi

martedì 8 gennaio 2013

Il vaso di Pandora del Libor


«Il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti! Ascolta amico, loro sono...sono i tipi...sono quelli che mettono la gente in galera! Perché diavolo vuoi parlargli?». Cominciava a spaventarsi davvero, Tom Hayes: era fine marzo del 2011 e un suo collega trader di Ubs gli stava raccontando che degli investigatori americani avevano contattato la banca per fissare un appuntamento. Volevano interrogarlo, per capire com’è che funzionavano le comunicazioni sui tassi Libor inviate dagli uffici di Ubs a Tokyo, dove i due avevano lavorato insieme. Sospettavano che quelle comunicazioni fossero bugiarde, truccate per aiutare i trader della banca svizzera a guadagnare di più. Il sospetto era fondato, Hayes aveva ragione ad avere paura: a 32 anni e con un figlio in arrivo a breve avrebbe dovuto chiudere la sua strepitosa carriera nella grande finanza per passare alla condizione di carcerato. L’11 dicembre scorso la polizia britannica lo è andato a prendere nella sua villa nell Surrey, appena fuori Londra, per portarlo in galera. Gli Stati Uniti hanno chiesto la sua estradizione ma gli inglesi non lo lasceranno partire: il primo ministro David Cameron ha promesso che il Regno Unito dimostrerà ai suoi cittadini che sa punire con durezza anche i criminali della finanza.
Hayes, assieme a due colleghi della società di brokeraggio RP Martin, Terry Farr e Jim Gilmour, è il primo arrestato nel colossale scandalo del Libor, esploso la scorsa estate e ancora agli inizi. Il Libor è un tasso interbancario che indica, con scadenze che vanno da 1 giorno a 12 mesi, gli interessi a cui le banche si stanno prestando reciprocamente denaro (in particolare sterline, dollari e yen). È un indicatore chiave della finanza mondiale, perché su questo tasso si basano contratti per un valore complessivo stimato attorno ai 350mila miliardi di dollari, cifra pari a cinque volte il Prodotto interno lordo mondiale. Sono contratti di tutti i tipi, dai più banali mutui e prestiti a derivati complessi. Nonostante l’indice sia così delicato, il valore del Libor è fissato secondo un meccanismo rozzo: l’associazione delle banche inglesi ogni giorno chiede a 15 istituti a che tasso contano di ottenere denaro in prestito dalle altre banche il giorno dopo, quindi fa la media e fissa l’indice. Queste modalità presto cambieranno, lo scandalo ha costretto le autorità a studiare una riforma di un meccanismo che si è rivelato pieno di buchi. Perché se gli addetti delle banche si accordano per dare informazioni sballate, il tasso si allontana dalla realtà e favorisce speculazioni sleali. Come quelle di Hayes. Secondo le accuse, già dal 2006 (quando aveva appena 27 anni) il trader d’accordo con Roger Darin, che per Ubs comunicava il Libor sullo yen, e assieme a decine di colleghi di altre banche tentava quasi tutti i giorni di muovere il tasso in maniera anomala per favorire le sue strategie speculative. Gli investigatori americani sostengono che un movimento del Libor di 0,01 punti percentuali a suo favore valesse 2 milioni di dollari di profitti sul suo portafoglio di investimenti. Grazie a questo sistema nei tre anni passati in Giappone Hayes avrebbe fatto guadagnare a Ubs 260 milioni di dollari. Non si sa quanto la banca svizzera abbia premiato il suo ragazzo prodigio – che nel 2009 è passato a Citigroup –, ma visto che nella finanza i bonus sono legati ai risultati è presumibile che Hayes incassasse qualche milione di dollari all’anno. Certo, non era solo.
Sullo scandalo Libor stanno indagando tribunali e organismi di controllo di 10 nazioni diverse, tra America, Asia ed Europa. Le banche coinvolte sono quasi 20 (non ci sono italiane), gli indagati sono decine. Inchieste simili riguardano anche l’Euribor, l’interbancario della zona euro su cui si basano contratti per 150 mila miliardi di euro (compresi i mutui e le linee di credito delle nostre imprese). Sull’Euribor indagano anche a Trani, nella procura dove l’attivissimo pm Michele Ruggiero a novembre ha chiesto il rinvio a giudizio per 7 ex dirigenti delle agenzie di <+corsivo>rating<+tondo> Fitch e Standard & Poor’s. Ma l’Euribor però si forma con le indicazioni di quasi 40 banche, non 15, e quindi è più difficile da manipolare.
Le indagini sul Libor, condotte dalla Fsa inglese e dalla Sec americana, hanno già dato risultati eclatanti. La banca inglese Barclays a giugno è stata la prima ad arrivare a un accordo con le autorità britanniche e americane per chiudere il caso: ha ammesso le sue responsabilità e ha pagato multe per 290 milioni di sterline. Il presidente Marcus Agius e l’amministratore delegato Bob Diamond sono stati costretti ad andarsene. A dicembre è arrivato il turno di Ubs, la banca di Hayes, che ha pagato 940 milioni di sterline. La prossima a "costituirsi" dovrebbe essere Royal Bank of Scotland, che tratta da mesi con le autorità. Poi potrebbe toccare ad altri: in fila ci sono anche i colossi Hsbc, JPMorgan, Deutsche Bank, Citigroup, Lloyds.
Stavolta però le banche rischiano di non riuscire a cavarsela pagando solo una multa, per quanto miliardaria. Perché mentre i loro addetti imbrogliavano rastrellando milioni grazie alle anomali e del Libor c’era qualcuno che quegli strani andamenti del tasso li subiva. Fannie Mae e Freddie Mac, le disgraziate agenzie dei mutui controllate da Washington, dicono di averci perso 3 miliardi di dollari e vogliono un indennizzo. Vogliono rimborsi anche il Comune di New York e quello di Baltimora. E anche Annie Bell Adams, 65enne dell’Alabama che per colpa della crisi dei mutui ha perso la casa e in estate ha avviato una class action. In tanti l’hanno seguita. Le richieste di partecipare alle nuove cause miliardarie contro le banche dell’imbroglio Libor sono così numerose che gli avvocati americani, sempre a caccia di preziose vittime, stanno pubblicando manuali sul contenzioso. Il fatto è che quando chi imbroglia ha giocato con un pilastro della finanza mondiale praticamente chiunque può avere diritto di essere risarcito. Nel caso, i giudici quantificheranno il danno. Ma per certi imperi del denaro l’eccesso di potenza rischia di rivelarsi fatale.
da Avvenire di oggi 

mercoledì 17 ottobre 2012

Gli investimenti dei sistemi automatici

Più di 35 anni fa Thomas Peterffy, un immigrato ungherese negli Stati Uniti, assumeva 80 programmatori per scrivere software che riuscissero a trovare profitti sui mercati finanziari più rapidamente degli esseri umani. (la storia qui)
Il lunedì nero di Wall Street - il 19 ottobre del 1987 - mostrò al mondo i rischi del trading computerizzato: i sistemi automatici mandarono Wall Street sotto del 25%.
Recenti casi di anomalie causate dai computer: la collocazione di Facebook rimandata, il flash crash di maggio 2010, quando in pochi minuti le borse bruciarono 860 miliardi di dollari. Dopo quel caso la Sec ha chiesto di creare dei "circuit breakers" in grado di fermare i sistemi automatici quando la situazione va fuori controllo.
In agosto Knight Capital, tra i più grandi fondi attivi a Wall Street, ha rischiato il collasso perché un errore in un codice ha spinto il suo sistema automatico a ripetere in continuazione le stesse operazioni: l'errore ha fatto perdere al fondo 440 milioni in 45 minuti. 
dal Ft

venerdì 22 giugno 2012

A Londra gli azionisti voteranno sui compensi

Il governo britannico ha annunciato un progetto di legge che darebbe agli investitori il diritto di esprimere un voto vincolante sui compensi dei manager delle aziende di cui sono soci e obbligherebbe le aziende a comunicare ogni anno in maniera chiara il compenso ricevuto da ognuno dei suoi manager. La regola, illustrata dal segretario agli Affari Vince Cable, varrebbe solo per i membri del consiglio di amministrazione.

sabato 14 aprile 2012

La caduta delle Borse del 13 aprile


Gli investitori stanno scommettendo pesantemente sul fallimento della Spagna. Dall’inizio di marzo tutti vogliono i credit default swap (Cds) iberici, quei titoli che garantiscono un rimborso nel caso che Madrid non sia in grado di onorare i suoi debiti. All’inizio di marzo assicurarsi contro l’insolvenza spagnola costava 355 dollari per ogni 10 mila dollari di credito, dopo 15 giorni il prezzo è salito fino a oltre i 400 dollari, ieri ha superato i 500, toccando un nuovo record. Quello precedente, 492, era stato segnato lo scorso novembre, nel peggior momento della crisi del debito europeo. In quelle settimane i Cds italiani erano arrivati a superare i 590 punti e l’Italia fino a ieri era l’unica nazione dell’euro che aveva visto i suoi Cds superare quota 500 ma non aveva dovuto chiedere aiuti internazionali (come invece hano fatto Grecia, Portogallo e Irlanda). Adesso i nostri Cds costano 428 dollari, 70 in più rispetto all’inizio di marzo, ma sopra quota 500 c’è appunto Madrid.
Da qualche giorno il governo guidato da Mariano Rajoy è costretto a smentire che la Spagna debba essere salvata, eppure la voce di un imminente piano di salvataggio continua a circolare. Il principale problema è che il governo ha comunicato dati sul debito pubblico che però non comprendono quelli delle Regioni, e senza informazioni più complete l’Europa continua a dubitare dell’efficacia del piano di risanamento dei conti spagnolo. La credibilità del nuovo premier iberico nel mondo finanziario sta scendendo tanto che ieri il <+corsivo>Wall Street Journal<+tondo> gli ha dedicato un duro editoriale. Basta il titolo: «Pollyanna in Madrid». Un dato, poi, ha fatto ulteriormente salire la tensione: a marzo le banche spagnole hanno raddoppiato la loro richiesta di fondi alla Banca centrale europea, ottenendo 227 miliardi di euro sui 361 messi a disposizione da Francoforte. E questo dopo essere state in prima fila nell’attingere alle aste a tasso scontato con cui la Bce ha concesso alle banche mille miliardi tra dicembre e febbraio. Sembra, insomma, che gli istituti di credito iberici, in serissime diffiicoltà per avere gonfiato la bolla immobiliare nazionale, non riescano a raccogliere fondi sul mercato se non chiedendoli alla Bce.
Il nuovo allarme ha spinto in alto di altri 16 punti i tassi dei Bonos spagnoli (al 5,98%), con gli italiani che li seguono a distanza sentendo la tensione (5,52%, 12 punti in più). Il nostro <+corsivo>spread<+tondo> rispetto ai Bund tedeschi è salito da 362 a 379 punti, quello spagnolo è salito fino a 424 punti.
Le Borse sono crollate, anche in vista del probabile taglio di rating delle banche europee da parte di Moody’s, che però è stato rimandato: alle italiane doveva toccare lunedì, ma a mercati chiusi l’agenzia ha annunciato una modifica dell’agenda, rinviando tutti a maggio. I titoli bancari (-6% Unicredit, -4,8% Intesa) hanno affondato Milano, che ha perso il 3,4% bruciando 11 miliardi di capitalizzazione. Giù del 3,6% Madrid, -2,5% Parigi, -2,4% Francoforte e -1% Londra. Male anche Wall Street, che vede peggiorare lo scenario globale: ieri sono arrivati cattivi dati sulla fiducia dei consumatori americani e sulla crescita cinese (il Pil salirà dell’8,1% invece dell’8,4% previsto).
In questo contesto estremamente complesso, per l’Italia c’è anche il altro rischio di perdere il controllo delle aziende, ha avvertito un allarmato Giovanni Perissinotto, amministratore delegato di Generali: «La Borsa non funziona – ha detto il manager –, bisogna cambiare le regole. C’è troppa speculazione e i prezzi sono preoccupanti, con le aziende sottovalutate in maniera pericolosa e attaccabili dall’estero».

venerdì 13 aprile 2012

Gli speculatori che aspettano il Maxi-Taglio


Se entro lunedì prossimo Moody’s dovesse tagliare il rating di 24 banche italiane (più o meno tutte quelle più note), questa settimana sarebbe quella giusta per vendere. Almeno per chi in Borsa cerca profitti rapidi ed è pronto a rischiare. Si può spiegare anche così la caduta di Piazza Affari di questo martedì, quel -5% figlio del crollo dei titoli delle banche. Circola infatti un documento elaborato dalla banca d’affari americana Morgan Stanley in cui si indicano le previsioni delle scadenze della revisione dei rating di 114 istituti finanziari europei avviata da Moody’s lo scorso 15 febbraio. Sono divise per nazionalità. Per le banche portoghesi la scadenza era il 26 marzo ed è stata rispettata col taglio del rating per tutte le 7 banche coinvolte. Il 16 aprile dovrebbe toccare alle banche italiane, il 23 a quelle spagnole, il 30 alle austriache. Per le altre le scadenze sono il 7 e il 14 maggio. Ovviamente non è detto che il taglio tocchi a tutti, ma considerato il peggioramento del contesto sembra probabile. Dopo gli antipasti delle critiche alle nostre banche pubblicate da New York Times, Wall Street Journal e Bloomberg nei giorni scorsi, un declassamento collettivo delle banche potrebbe essere il piatto forte da servire al banchetto della speculazione, dove chef e invitati sono tutti (o quasi) molto yankee.

da Avvenire