Cerca nel blog

venerdì 28 dicembre 2012

Come è fatto il fiscal cliff


Gli eroi dei film di azione di Hollywood hanno sempre bisogno di arrivare a un istante dalla catastrofe per dimostrarsi veri intrepidi ed evitarla. Lo fanno anche i meno gloriosi politici dei palazzi Washington. Nell’estate del 2011 l’accordo al Congresso sull’innalzamento del tetto del debito pubblico arrivò il 31 luglio: senza un’intesa il Tesoro due giorni dopo non avrebbe potuto pagare i creditori degli Stati Uniti d’America. Il conto alla rovescia sull’indebitamento di Stato è già ripartito: il tetto del debito, oggi a 16.394 miliardi di dollari, sarà raggiunto il 31 dicembre e Timothy Geithner, il segretario al Tesoro, sta studiando le procedure di emergenza per gestire le casse della prima economia mondiale ancora per qualche settimana, nella speranza che entro marzo i membri del Congresso si mettano di nuovo d’accordo.
Le trattative potranno accelerare a gennaio. Adesso è un altro il timer che tiene in ansia l’America e il resto del mondo. I membri del Congresso hanno meno di 100 ore per trovare un accordo ed evitare che la nazione cada nel baratro fiscale – il "fiscal cliff" – dove ad aspettarla c’è una nuova recessione. Il tempo è letteralmente "contato" perché negli Stati Uniti molte leggi sono state introdotte in via temporanea, con una precisa scadenza. Il 31 dicembre scadono norme che prevedono circa 400 miliardi di agevolazioni fiscali e 100 miliardi di spesa pubblica. L’ufficio bilancio del Congresso, che è un organismo indipendente, prevede che queste brusche scadenze spingeranno l’economia americana di nuovo in recessione: se quest’anno il Prodotto interno lordo degli Stati Uniti crescerà del 3,1%, nel prossimo la caduta nel baratro si tradurrà in una discesa del Pil dell0 0,5%.
Concretamente le agevolazioni consistono in aiuti ai redditi medi e alti (il taglio alle tasse vale 221 miliardi di dollari), riduzione del 2% dell’aliquota dei contributi per i dipendenti (95 miliardi), agevolazioni per le imprese (65 miliardi). Senza un intervento, inoltre, scatterebbero aumenti di tassazione sugli investimenti finanziari e sui redditi alti (dai 125 mila dollari in su) per raccogliere 18 miliardi di dollari. Dal lato della spesa pubblica salterebbero 64 miliardi di spese (per metà riguardano la difesa, per l’altra metà i servizi, scuole comprese), i sussidi di emergenza per i disoccupati (per 26 miliardi) e gli aumenti di stipendio dei medici (dovranno rinunciare a 11 miliardi). Il tutto avrebbe un invidiabile risultato sul deficit degli Stati Uniti – il passivo del bilancio pubblicosarebbe quasi dimezzato, passando dai 1.128 miliardi di quest’anno (il 7,3% del Pil) ai 641 miliardi del 2013 – ma affosserebbe il Pil, riporterebbe la disoccupazione ben oltre il 9% (ora siamo sotto l’8%) e peggiorerebbe la crisi globale. Un rallentamento della prima economia del pianeta toglierebbe spazi di mercato alle esportazioni europee ed asiatiche, soffocando una ripresa che, per l’Italia e l’Europa, si prevede comunque apatica.
La "catastrofe" sarebbe graduale, perché gli effetti dei tagli di spesa o degli aumenti delle tasse si sentirebbero solo dopo qualche mese. Ma avremmo anche bruschi cataclismi privati: ad esempio gli assegni di emergenza ai disoccupati, in media da 250 dollari a settimana, sparirebbero già dal prossimo martedì. E nel dubbio sul loro effettivo reddito netto per l’anno prossimo molti cittadini hanno già ridotto le spese, mentre le aziende, nell’incertezza fiscale, tengono in sospeso gli investimenti. Wall Street si aspetta una soluzione, ma ora inizia a mostrarsi preoccupata davero (-1% ieri).
Barack Obama, tornato dalle Hawaii, ha chiamato i leader di repubblicani e democratici per spingere la trattativa. Vorrebbe un’intesa "minima", che rinnovasse tutti i tagli fiscali esclusi quelli per chi guadagna 250 mila dollari. John Boehner, repubblicano e presidente della Camera, aveva proposto ai compagni di partito una tetto a 500 mila dollari ottenendo un rifiuto. Larry Reid, leader dei democratici, ieri si è mostrato preoccupato. «Sembra che siamo diretti verso il "fiscal cliff"» ha detto col tono rassegnato di chi, prima di schivare il baratro, vuole aumentare ancora un po’ la suspense.

da Avvenire di oggi

mercoledì 26 dicembre 2012

Appunti sull'alta velocità cinese


Il treno ad alta velocità che collega Pechino a Guangzhou ha debuttato oggi. Percorre 2.298 chilometri in 8 ore, cioè a una velocità media di 287 chilometri orari (ma sarà qualcosa di più, considerate le fermate). Il treno che c'era prima - e che resta in funzione - ci metteva 21 ore. Il progetto è costato 4 mila miliardi di yuan (485 miliardi di euro, al cambio attuale) e ha impiegato 100 mila lavoratori. Un biglietto di seconda classe costa 865 yuan (105 euro). Oggi la  rete di alta velocità cinese è lunga 9.349 chilometri. I voli tra le due città durano 3 ore e 15 minuti.

lunedì 17 dicembre 2012

Il Portogallo vuole tagliare le tasse sul reddito d'impresa

Il governo portoghese ha chiesto alla Commissione europea di portare la sua tassa sul reddito di impresa (l'equivalente dell'Ires italiana, che è al 27,5%) dal 25 al 10% per le nuove aziende. L'idea è che abbassando le tasse si possono attrarre investimenti esteri. E' qualcosa di simile a quello fatto dall'Irlanda, dove la tassa sul reddito delle imprese è al 12%. Un'aliquota al 10 c'è solo a Cipro e in Bulgaria. La media europea è al 22%. Proposte del genere o che almeno vanno in questa direzione  al momento non hanno trovato spazio nei "programmi" dei principali schieramenti politici italiani.

sabato 15 dicembre 2012

La bad bank spagnola

La bad bank spagnola si  chiama Sareb e questa settimana ha raccolto i suoi primi investimenti: 430 milioni di euro da 5 banche spagnole. Le stesse banche dovrebbero metterci altri 1,3 miilardi. Il fondo pubblico di salvataggio delle banche, il Frob, contribuirà con altri 397 milioni..

venerdì 14 dicembre 2012

Pimco compra titoli italiani

Il fondo di investimento Pimco (la sigla sta per Pacific Investment Management) è il maggiore acquirente di bond del pianeta (ha asset per 559 miliardi di dollari in Europa). Sta comprando titoli di Stato di breve durata di Italia e Spagna, non quelli francesi, che rendono troppo poco. L'incertezza politica sull'Italia, spiega, "non ha colpito l'attrattività dei titoli pubblici italiani che maturano nei prossimi 3 anni". L'Italia prevede di raccogliere 410 miliardi di euro vendendo titoli di Stato nel 2013.

I nuovi aiuti alla Grecia

Con la decisione di ieri l'Eurogruppo presterà 49,1 miliardi alla grecia. Di questi 34,3 miliardi saranno pagati la prossima settimana. E di questi 16 serviranno a ricapitalizzare le banche, 7 per la spesa pubblica, 11,3 per comprare i titoli di Stato ricomprati con il buyback (i titoli ricomprati valevano 34,3 miliardi di debito). L'obiettivo è permettere ad Atene di portare il debito pubblico al 124% nel 2020 e al 110% nel 2022..

L'Italia ha bombardato la Libia

Visto che allora non lo si poteva dire, conviene dirlo, ora che si puó.

http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search&currentArticle=1OTVRZ

martedì 11 dicembre 2012

Le bocciature, ignorate, di Monti

La stampa italiana passa il tempo a parteggiare e quando cita la stampa straniera è per quasi sempre per confermare le tesi dell'editore. Ci fosse stata più sincerità non sarebbero stati solo Libero e il Giornale a far notare (perché stavolta a loro faceva comodo) che Wolfgang Munchau del Financial Times ha bocciato il governo Monti, che avrebbe potuto fare molto e invece in un anno ha fatto una riforma delle pensioni e una mezza riforma del lavoro. Domani forse nessuno citerà il Wall Street Journal, non nel passaggio in cui spiega che "la vera lezione è che l'Italia e il resto d'Europa hanno bisogno di una classe politica che sappia come generare un appoggio popolare per le riforme piuttosto che tentare costantemente di imporle dall'alto".

Il prezzo del petrolio a 50 dollari?

Il prezzo del Brent resta attorno ai 110 dollari al barile.Secondo Deutsche Bank l'anno prossimo la quotazione potrebbe crollare fino anche a 50 dollari. Secondo l'Aie la domanda mondiale salirà di 660 mila barili al giorno da qui al 2020, nel decennio terminato nel 2008 l'aumento medio annuo era di 1,3 milioni di barili. La spare capacity dell'Opec nel 2005 era di un milione di barili al giorno, circa l'1% della domanda. Nel 2011 è salita a 3,1 milioni (il 3,5%) e a 5,9 milioni nel 2017 (cioè il 6,4% della domanda globale). Con l'Iraq che potrebbe arrivare a produrre 4,2 milioni di barili al giorno dal 2015 e la sempre maggiore indipendenza energetica degli Usa (grazie allo shale gas) l'offerta di petrolio rischia di farsi di molto superiore alla domanda, provocando una caduta del prezzo.

lunedì 10 dicembre 2012

L'Olanda, il più europeo dei paradisi fiscali


Tra gli Stati-falchi che impongono l’austerità all’Unione Europea ce n’è uno che sembra schizofrenico. È l’Olanda, nazione tanto severa nel tassare i propri cittadini ed esigere il rigore dagli altri governi quanto tollerante con le multinazionali che la usano come base di partenza europea per trasferire in esotici paradisi fiscali i miliardi di euro incassati in Europa. Non ci sarebbe nulla di male, se la generosità fiscale degli olandesi non facesse perdere milioni di euro di entrate agli altri Stati dell’Unione.

In Italia la settimana scorsa si è parlato a lungo del caso di Google, che ha ricevuto una visita “fuori programma” della Finanza dopo che il racconto dei suoi complessi stratagemmi fiscali è arrivato alle orecchie del ministro Corrado Passera. Semplifichiamo: il motore di ricerca fattura in Irlanda i soldi della pubblicità venduta a clienti italiani, quindi sposta quasi tutti gli incassi nei Paesi Bassi pagando salate royalties alla sua controllata olandese e infine rimanda il denaro in Irlanda, a una holding di diritto irlandese basata però alle Bermuda. Alla fine del giro il denaro va ai Caraibi e lì si perdono le sue tracce. Google nel 2011 ha pagato appena 8 milioni di euro di tasse sui 12,5 miliardi fatturati in Europa.

Ma il motore di ricerca non è l’unico furbo in un mondo di ingenui. Applicano un sistema molto simile diverse aziende americane, e quasi tutti i colossi del Web, comprese Facebook, Apple, Amazon. Si è rivolta a commercialisti altrettanto abili anche Starbucks, la catena americana dei caffè che qualche giorno fa ha finito per arrendersi alle pressioni del fisco inglese accettando di pagare al Regno Unito 20 milioni di sterline. Dal 1998, anno in cui aveva aperto il suo primo caffè inglese, Starbucks aveva incassato 3 miliardi di sterline lasciando solo 8,6 milioni al fisco.

Colpisce, in tutte queste vicende di furbizie fiscali europee, come ci siano sempre di mezzo l’Irlanda e l’Olanda. Dublino fa meno scandalo perché la sua strategia è nota e più accettabile: arrivata agli anni Novanta come uno dei Paesi più poveri d’Europa, l’Irlanda è riuscita a catturare gli investimenti delle grandi aziende straniere applicando una tassazione bassissima sul reddito d’impresa (l’aliquota è al 12,5% contro il 31% italiano) e sul lavoro (il cuneo fiscale medio è del 15,2% contro il 35% della media europea). Il risultato è che diversi nuovi colossi americani hanno scelto di basare in Irlanda il loro quartier generale europeo, e lì hanno costruito uffici e assunto personale.

Nessuna multinazionale non olandese assumerebbe invece personale nei Paesi Bassi, dove le tasse sul lavoro e sul reddito di impresa non sono particolarmente convenienti. Le migliaia di società olandesi create da aziende straniere sono invece imprese fittizie, senza veri uffici e addetti, quasi sempre affidate a un “trust”, una fiduciaria. Sono società vuote, ma legali e molto diffuse. Hanno almeno una controllata finanziaria in Olanda 80 delle 100 aziende più grandi del mondo. Tra le tante multinazionali che hanno scelto Amsterdam come sede della propria attività europea ci sono Nike (che addirittura ha lì delle "cooperative"), Sun Microsystem, Ikea, Boeing, Disney, Prada, Gucci. È olandese anche Oilinvest, il fondo che raccoglieva i soldi della famiglia Gheddafi, e sarà olandese la nuova Fiat Industrial, dopo la fusione con la controllata Cnh.
Tutti vanno in Olanda perché lì c’è un ambiente fiscale che sembra pensato da un commercialista geniale. Per prima cosa le società olandesi non devono pagare tasse sui dividendi o sui profitti di capitale ottenuti all’estero da società controllate. Poi Amsterdam ha firmato una straordinaria quantità di patti fiscali con altre nazioni (circa un centinaio) per ridurre le ritenute alla fonte su dividendi, interessi e royalties (cioè diritti di proprietà intellettuale) incassati dall’estero. In particolare il patto firmato tra l’Olanda e l’Irlanda fissa l’aliquota a zero in tutti e tre i casi.

Gli accordi fiscali firmati negli anni dall’Olanda con ex colonie o attuali dipendenze esotiche – come l’isola di Aruba, a nord del Venezuela – consentono anche di trasferire denaro verso queste aree con una spesa minima, quando non gratis. Così convogliare ad Amsterdam i soldi rastrellati nel Vecchio Continente e da lì spedirli lontano dagli occhi del fisco europeo, magari ai Caraibi, consente enormi risparmi fiscali. I dati del Fondo monetario internazionale danno un’idea della dimensione di questo fenomeno: l’Olanda ha incassato nel 2011 3.327 miliardi di dollari di “investimenti” dall’estero, 200 miliardi in meno della somma degli investimenti diretti verso Cina e Stati Uniti.

Non è una recente furbizia ad avere reso l’Olanda così conveniente. I Paesi Bassi hanno sempre avuto un’economia basata sul commercio con l’estero. La Compagnia olandese delle Indie orientali, nata all’inizio del 600, è stata una delle prime multinazionali della storia. Evitare una doppia tassazione sui profitti che le società olandesi fanno all’estero è stata un esigenza antica e autentica, che però nel tempo si è trasformata in una cattiva abitudine. Già negli anni Ottanta andava di moda il cosiddetto “Dutch Sandwich” dei Gruppi nordamericani, che consisteva nel far girare i soldi dall’Olanda alle Antille Olandesi per schivare gli occhi del fisco. Quel panino troppo goloso è stato eliminato da Amsterdam - su pressione internazionale - negli anni Novanta. Ma quasi 15 anni dopo i “severi” Paesi Bassi sono ancora il porto franco che permette a tante multinazionali di mandare ai Caraibi i loro profitti europei lasciando a bocca asciutta gli agenti del fisco.
da Avvenire

sabato 8 dicembre 2012

Aston Martin e Bonomi

Scrive il Financial Times che per produrre una decente quantità di profitti la Aston Martin non può continuare a vendere 3 mila auto all'anno. Deve farne come minimo il doppio. Questa è la sfida di Andrea Bonomi e di Investindustrial.

lunedì 3 dicembre 2012

Il gas via nave attraversa l'Artico

La Russia fa sempre più fatica a vendere gas all'Europa, dove la crisi economica ha ridotto i consumi di 18 miliardi di metri cubi quest'anno. Le esportazioni russe e norvegesi puntano così sull'Asia. Martedì 4 dicembre la petroliera Ob River consegnerà gas al Giappone dopo avere attraversato l'Artico. Il viaggio è diventato economicamente sostenibile per tre ragioni: durante l'estate le navi ora riescono ad attraversare l'Artico, la domanda di materie prime dell'Asia è in forte aumento e, dopo il terremoto, Tokyo è in emergenza e quindi è disposto a pagare anche prezzi più alti. La spedizione di gas via nave costa 150 mila dollari al giorno in media, a novembre il prezzo è sceso a 105 mila dollari. Una compagnia che invia gas dai Mari del Nord all'Asia può risparmiare 3 milioni di dollari passando dall'Artico: non deve sostenere le spese doganali del canale di Suez o circumnavigare l'Africa.

Le dimensioni delle Sparkassen

I più accaniti oppositori dell'Unione bancaria in Germania sono le 423 Sparkassen, casse di risparmio pubbliche. Sono piccole banche: la maggiore ha attivi per 40 miliardi di euro, 100 delle Sparkassen più piccole non arrivano a bilanci di 1 miliardo. Tutte assieme, però, hanno un bilancio di 1.098 miliardi e siccome sono una rete vera considerarle come un'unica entità non è così assurdo. Fanno il 38% dei prestiti tedeschi e hanno il 37% dei depositi. Sono anche legate alle sette Lansebanken, le banche regionali (Lbbw, BayernLb, LbBerlin, Hsh Nordbank, Helaba, NordLb, SaarLb) che hanno 1.495 miliardi di asset ed è nel loro giro anche DekaBank, istituto da 134 miliardi di euro. Dicono che la Bce non può fare supervisione su di loro, perché non può capire il loro modo di lavorare.