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giovedì 28 febbraio 2013

La stretta di Barclays sui bonus

La mossa successiva al taglio dei bonus, per Barclays, è il ritiro dei premi già promessi. Nei prossimi giorni la banca scozzese dirà ai suoi manager che ha deciso di ridurre di 300 milioni di sterlinei bonus già promessi ma non ancora pagati (che ammontano a 2,9 miliardi di sterline). I soldi, ha spiegato la banca, le serviranno per pagare la multa per lo scandalo del Libor (240 milioni di di sterline) e per sanzioni minori. Anche Hsbc, Royal Bank of Scotland e JPMorgan negil anni passati hanno bloccato il pagamento dei bonus per motivi straordinari. Quest'anno anche Rbs dovrebbe farlo, tenendosi 60 milioni di bonus per pagare la sua multa Libor, da 390 milioni.
dal Ft

L'affidabilità di Marta Grande e quella di D'Alema

Tra Marta Grande, grillina che si è candidata perché ha visto "troppi colleghi costretti ad andare all'estero per lavorare", e Massimo D'Alema, che si chiede "chi può essere contrario al reddito di cittadinanza", io trovo più ragionevole e affidabile la prima. E pazienza se l'assurdità di pagare della gente solo perché è cittadina italiana è proprio del Movimento 5 Stelle: l'impressione è che per i grillini il reddito di cittadinanza sia la risposta a uninsostenibile disoccupazione giovanile, mentre per gli ex dirigenti del Pci invece è il solito modo di comprarsi i voti facendo di ognuno uno statale.

Giappone e Germania puntano sullo shale gas

All'incontro con Barack Obama il premier giapponese Shinzo Abe ha anche annunciato investimenti da mille miliardi di yen (10,9 miliardi di dollari) per linee di garanzia al credito verso le imprese che investono in progetti per la ricerca di shale gas. In Germania, il 26 febbraio, il governo ha preparato una proposta di legge per permettere, pur con diverse limitazioni, la tecnica del fracking. Le autorizzazioni per le trivellazioni saranno concesse solo dopo una"prova di sostenibilita" e mai vicino alle falde acquifere. Le stime parlano di 1,3-2,3 miliardi di metri cubi di shale gas sotto il territorio tedesco.

mercoledì 27 febbraio 2013

I debiti della Cina


Per alimentare la crescita la Cina - scrive il Wsj - ha stimolato l'economia con 500 miliardi di dollari di spesa pubblica e investimenti "privati" pari al 48% del Pil. A questi si aggiunge una enorme massa di credito concesso all'economia reale: dal 2007 questo credito - che arriva dal sistema bancario ufficiale e da quello "ombra" -  è quadruplicato fino ai 2.750 miliardi del 2012. Il debito pubblico cinese sommato a quello privato vale il 200% del Pil.

Per domare lo spread, teniamo buona la Merkel

Sbaglia chi dice che i merca­ti stanno punendo l’Italia perché si è rivelata più 'an­ti- Europa' di quanto si pensasse. «Se c’è qualcuno che è sicura­mente poco filo-Europa quelli so­no i trader. È curioso: il problema dell’Europa, per chi la guarda da Londra o New York, è la crescita, non il debito. Gli investitori si chiedono quello che si chiede Paul Krugman: come può il Vec­chio Continente sopportare tut­ta questa austerità?». Alessandro Fugnoli, strategist della società di gestione del risparmio Kairos, in­vita a guardare le cose da una pro­spettiva un po’ diversa.
La Borsa precipita e lo 'spread' si allarga. Se non è una punizio­ne
 sembra quanto meno il sinto­mo di una certa preoccupazio­ne.
L’ingovernabilità spaventa non perché l’Italia potrebbe abban­donare certe misure di austerità, ma perché potrebbe nascere un governo più ostile alla Germania. Il problema, infatti, non sta nei fondamentali, ma in quello che pensa la Germania.

In che senso?

Prendiamo la Spagna. Aveva pro­messo che avrebbe fatto un defi­cit del 4,5%. A un certo punto ha rinegoziato le condizioni e ha ot­tenuto di potere arrivare al 6%. Alla fine il rosso è stato del 10%. Madrid ha mancato clamorosa­mente i suoi obiettivi di bilancio ma sui mercati non c’è stato nes­suno scossone. Sa perché? Perché
 alla Germania andava bene co­munque, la Merkel ha apprezza­to la buona volontà di Rajoy e non ha voluto esasperare le cose. Gli investitori lo hanno capito.
Anche l’Italia può contare su que­sta accondiscendenza tedesca?

Sicuramente, ma serve un gover­no che in qualche modo 'renda o­maggio' all’Europa, un esecutivo
 che non esageri nei toni ostili ver­so la Merkel. Fino alle elezioni te­desche di settembre, Berlino si potrebbe accontentare della no­stra buona volontà. La nuova dot­trina economica europea, non detta ma praticata, dice che gli scostamenti nel bilancio sono ac­cettati ex post. Conta la volontà. Già lo stiamo sperimentando: è passato il criterio che quando parliamo di deficit parliamo di quello 'strutturale', non del de­ficit complessivo. Corretto per il ciclo economico, il concetto di deficit è molto più elastico.
Però lo spread è già balzato sopra i 340 punti. Possiamo sperare che trovi un nuovo equilibrio a que­sti
 livelli?
Sicuramente vedremo più varia­bilità di quella degli ultimi mesi.
 Ma non credo che rivedremo i 500 punti. La nostra situazione, an­che con questa instabilità politi­ca, non è terrificante. Per fare im­pennare lo 'spread' occorrereb­be un governo apertamente osti­le ai tedeschi e all’Europa. A quel punto Berlino saprebbe come al­zare la temperatura con qualche dichiarazione pesante: i governi e Bruxelles sanno bene quali sono le formule giuste per istigare lo 'spread'. I tedeschi teorizzavano proprio l’uso del differenziale in chiave pedagogica...
Pensa che l’Italia dovrà alla fine fare ricorso al salvagente della Banca centrale europea?

Credo che si possa evitare l’ac­cesso al programma Omt. La si­tuazione non è certo terrificante. Ma serve anche la buona volontà
 di capire che non possiamo con­tinuare ad aumentare il nostro debito: non tanto per rispettare i criteri europei, ma per il nostro bene. Non possiamo andare a­vanti senza fare nulla nella spe­ranza che alla fine ci salverà co­munque qualcun altro.
Certo, difficilmente il prossimo governo vorrà essere ricordato come quello che ha invitato l’Eu­ropa a salvare l’Italia.

Sì, c’è uno 'stigma' negativo non indifferente, però l’esecutivo po­trà sempre dare la colpa al gover­no precedente. E ci sono comun­que dei rischi: in questi anni di crisi della zona euro abbiamo im­parato che non c’è niente di irre­versibile, nemmeno i salvataggi.


da Avvenire di oggi

venerdì 22 febbraio 2013

E Grillo diventa lo spauracchio dei mercati

Ogni mattina sul sito del Financial Times un gruppo di giornalisti finanziari chiac­chiera pubblicamente sulle notizie de­stinate a muovere le Borse. Ieri la loro chiacchie­rata si apriva con una foto di Beppe Grillo. Se­guiva una analisi pubblicata su Euro Intelligen­ce (un servizio di informazione finanziaria sem­pre legato al quotidiano inglese) in cui si raccon­tava che in un’intervista concessa a Euronews il leader del Movimento 5 Stelle ha spiegato tra l’al­tro che intende «ridiscutere» il debito pubblico i­taliano e introdurre sanzioni sulle importazioni. «Quest’uomo – scrive Euro Intelligence citando i sondaggi che danno Grillo al 20% – propone le mi­sure più anti-euro, anti-Ue e mercantiliste della recente storia elettorale europea e lo fa senza il razzismo dei tradizionali partiti dell’estrema de­stra ».Grillo è oggi uno dei grandi spauracchi degli in­vestitori europei, che guardano al voto italiano con una certa ansia perché te­mono che da lunedì sera la ter­za maggiore economia dell’eu­ro sarà, di fatto, ingovernabile. Le analisi diffuse in questi gior­ni da Credit Suisse, Morgan Stanley, Mediobanca Securities, Ig, Allianz Gi e Standard & Poor’s insistono tutte sullo stesso pro­blema: se dal voto uscirà una maggioranza debole l’Italia ri­schia di mancare gli obiettivi di finanza pubblica che si è data e di abbandonare in partenza o­gni tentativo di riforma della sua economia. In una zona eu­ro dove la Germania rallenta (e anch’essa dovrà votare, in au­tunno), la Francia è in evidenti difficoltà e la Spagna resta in pessima forma l’Italia imprigionata dall’incer­tezza politica è proprio la novità meno desidera­bile.
Gli analisti chiaramente non fanno il tifo per qual­che partito specifico. Vogliono più che altro mi­sure capaci, almeno secondo i loro calcoli, di ri­mettere l’Italia in grado di crescere quando l’e­conomia europea troverà la ripresa. Scrive Neil Dwane, di Allianz Gi, che Monti «sebbene sia par­tito col piede giusto, non ha affrontato le più am­pie, e forse più importanti, questioni relative al­l’attrattività dell’Italia per gli investitori istituzio­nali. Se non vengono affrontate a fondo tali questioni, l’Italia ri­schia di rimanere relegata a un futuro molto simile al passato degli ultimi 20 anni: bassa cre­scita, economia debole ed espo­sta alle pressioni regionali e glo­bali, con l’ulteriore aggravio di un pesante debito pubblico». Quasi identica l’analisi di Moritz Kraemer di Standard & Poor’s: «Nonostante le riforme intro­dotte dal governo tecnico di Ma­rio Monti nell’ultimo anno, le prospettive di crescita dell’eco­nomia italiana restano com­presse dalle rigidità sul mercato del lavoro, da un settore dei ser­vizi molto protetto e dall’eleva­to carico fiscale su lavoro e in­dustria ».
Qualche analista si sbilancia di più. Filippo Dio­dovich e Vincenzo Longo di Ig partono dai son­daggi e tra gli esiti più probabili spiegano che quello di una vittoria di Bersani alla Camera e non al Senato, con una situazione che però lo costringa a un’alleanza con Monti e conseguente uscita di Vendola dalla maggioranza «è lo scenario prefe­rito dai mercati e dagli investitori esteri».
E quello scenario – nonostante le ripetute pub­bliche smentite – è anche quello preferito dai te­deschi, che ovviamente non vogliono rischiare nulla sui soldi (soprattutto tedeschi) che l’Euro­pa ha 'prestato' all’Italia. La Banca centrale eu­ropea ieri ha comunicato ufficialmente il detta­glio della sua spesa nel Securities Market Pro­gramme, il piano di acquisti di titoli pubblici del­le nazioni a rischio chiuso all’inizio del 2012: l’i­stituto guidato da Mario Draghi ha in cassaforte titoli per 218 miliardi di euro (ma se a prezzi di mercato valgono 209 miliardi). Di questi poco meno della metà – 102,8 miliardi di valore uffi­ciale, 99 alle quotazioni attuali – sono Btp italia­ni, con una scadenza media di 4,5 anni. Nella mi­gliore delle ipotesi politiche Francoforte avrà il suo rimborso prima della fine della prossima le­gislatura. 

da Avvenire di oggi

giovedì 21 febbraio 2013

La straordinaria lettera di Maurice Taylor al governo Hollande

Fra qualche anno la lettera con cui Maurice M. Taylor Jr., presidente e amministratore delegato di Titan, spiega a Arnaud Montebourg, ministro dello Sviluppo economico del governo Hollande, che non ha nessun interesse a comprare la fabbrica di pneumatici di Amiens potrà essere una pietra miliare emblematica delle ragioni della crisi industriale ed economica della Francia e dell'Europa.

sabato 16 febbraio 2013

Declassata Standard and Poor's

Standard & Poor’s doveva aspettarselo, perché nel mondo spietato dei 'rating' non esistono amici e nemmeno sorelle. E allora sarai anche la regina dei votacci, quella che si è potuta togliere lo sfizio di levare la tripla A agli Stati Uniti e di tenere in ansia i governi di mezzo mondo, ma puoi essere declassata anche tu. Succede.
Moody’s ha annunciato di avere tagliato di due gradini il suo giudizio su McGraw-Hill – la società che controlla la rivale Standard & Poor’s – da A3 a Baa2 e ha aggiunto che continuerà a tenere sotto controllo l’azienda, perché potrebbe annunciare presto un’altra sforbiciata. Una settimana fa su S&P era caduta la mannaia di Fitch, l’altra sorella del rating: taglio del voto da A- a BBB+. Siamo a livelli bassi, un paio di gradini sopra il terribile declassamento a junk, che significa spazzatura. Può l’azienda che controlla Standard & Poor’s rischiare un rating spazzatura? Sì, se gli Stati Uniti d’America le hanno fatto causa e chiedono 5 miliardi di dollari. Sia Fitch e Moody’s hanno infatti giustificato i tagli con la causa che il dipartimento della Giustizia di Washington ha intentato contro S&P lo scorso 4 febbraio. Dovesse perdere, McGraw-Hill difficilmente sarebbe in grado di tirare fuori quei 5 miliardi: il gruppo fattura ogni anno più o meno 4,8 miliardi di dollari, fa utili per 1,3 miliardi e ha 761 milioni di liquidità. Le serviranno avvocati convincenti, perché una sentenza negativa potrebbe mandarla in bancarotta. È una pessima situazione, il declassamento della regina del 'rating' è inevitabile e le due agenzie rivali, inflessibili, ne hanno preso atto. Ma la sorte potrebbe essere ancora più ironica. I giudici di mezza America infatti stanno studiando a fondo le carte per capire se S&P era davvero l’unica a dare giudizi che, come sostiene l’accusa, erano volutamente menzogneri. Anche Fitch e Moody’s prima dell’esplosione della crisi assegnavano rating a tripla A a derivati strutturati che poi si sono rivelati immondizia o ad aziende clamorosamente fallite in una notte.
Se Washington dovesse chiedere conto anche a loro di quei voti sballati, allora tra le tre sorelle del rating sarà tutto un forsennato declassarsi a vicenda.

da Avvenire di oggi

mercoledì 13 febbraio 2013

Il Giappone chiede alle aziende di alzare gli stipendi


Nella sua lotta alla deflazione il primo ministro Shinzo Abe ha tentato una nuova arma: scrive il Wsj che il premier ha invitato le maggiori aziende ad alzare gli stipendi, così da rompere il ciclo di pessimismo e calo delle aspettative che ha peggiorato la crisi. Gli stipendi dei giapponesi sono diminuiti in 8 degli ultimi 10 anni.

lunedì 11 febbraio 2013

La Dodge Dart (made in Fiat) vende poco


La Dodge Dart, basata sulla Giulietta e prima Chryser derivata da una piattaforma Fiat, non vende bene. Secondo Autodata nel 2012 ne sono state vendute 25.303. Le previsioni indicavano 100 mila immatricolazioni. Chrysler resta conosciuta tra i clienti per le Jeep, i pick up e le auto grosse, convincere i clienti a scegliere le sue auto piccole è più difficile di quanto di pensasse. La Dart costa dai 16 mila dollari in su. Le sue concorrenti sono la Honda Civic (che vende 5 volte tanto) e la Chevrolet Cruze (vende il quadruplo). 

La Robin Tax: rubare ai ricchi per dare a Robin


Con la Robin Hood tax – introdotta nel giugno del 2008 – lo Stato italiano prometteva di agire come il celebre eroe di Nottingham: sarebbe andato a "rubare" i soldi dei ricchi petrolieri per darli ai poveri italiani. A quanto pare però i ricchi petrolieri si stanno facendo restituire dai poveri italiani i soldi che gli mancano, nessuno ha il potere per farci niente e in questa favola venuta male l'unico che ci guadagna è Robin Hood. Questo sgradevole racconto è contenuto nelle 28 pagine di relazione che l'Autorità per l'energia elettrica e il gas ha consegnato al Parlamento il 24 gennaio. L'Autorità ha il compito di verificare ogni anno che le aziende dell'energia non scarichino sui clienti il costo della tassa, che dal 2011 è una maggiorazione di 10,5 punti dell'aliquota Ires (prima l'addizionale era di 6,5 punti). Si parla di molti soldi: l'aliquota Ires per le aziende dell'energia con un fatturato superiore ai 10 milioni di euro con questa tassa sale dal 27,5 al 38%, nel 2011 il gettito dell'addizionale per il Tesoro è stato di 1,46 miliardi di euro. Secondo le verifiche dell'Autorità 199 imprese dell'energia, sulle 476 controllate, nel 2010 hanno alzato i loro margini. Da qui il sospetto dell'organismo incaricato di vigilare: «È ragionevole supporre – si legge nella relazione – che, a seguito dell'introduzione dell'addizionale Ires, gli operatori recuperino la redditività sottratta dal maggior onere fiscale, aumentando il differenziale tra i prezzi di acquisto e i prezzi di vendita». La "traslazione" dei costi della Robin Hood tax sui clienti – espressamente vietata dalla legge – quindi sembra regolarmente messa in pratica. Le stime dell'Autorità arrivano a calcolare in circa 1,6 miliardi di euro i margini aggiuntivi accumulati nel 2010 dalle imprese dell'energia (0,9 miliardi quelle dell'elettricità, 0,7 quelle del petrolio) proprio per "compensare" il pagamento della Robin Tax. Assoelettrica si difende. «Le imprese elettriche non hanno scaricato la Robin tax sui consumatori – ha detto il presidente Chicco Testa –. Prima di gridare al ladro sarebbe opportuno verificare che sia stato davvero commesso il furto».Se un ladro c'è, comunque, nessuno può farci niente. Le aziende fin dall'inizio hanno fatto ricorso contro la legge, rivolgendosi prima al Tar e poi al Consiglio di Stato. E proprio il Consiglio di Stato ha stabilito che l'Autorità ha tutto il diritto di ottenere dalle aziende i documenti che le servono per condurre il suo lavoro di vigilanza, però la legge le dà solo un potere di «segnalazione». L'organismo presieduto da Guido Bortoni deve quindi limitarsi a segnalare al Parlamento i risultati delle sue indagini sui comportamenti delle aziende che pagano la Robin Hood Tax, ma non può multare le imprese che si comportano in maniera scorretta. E dalla sentenza del Consiglio di Stato emerge anche che se l'Autorità potesse sanzionare le imprese allora la tassa potrebbe rivelarsi incompatibile con la Costituzione. Le associazioni dei consumatori sono comprensibilmente infuriate e promettono esposti all'Antitrust, ma analisi di giuristi diversi confermano che non sembra esserci una via d'uscita da questo stallo legale capace di favorire solo le entrate dirette del Tesoro, che nel frattempo ci rimette pure qualcosa sull'incasso dei dividendi di Enel ed Eni, sue controllate e prime due "vittime" della Robin Tax.
da Avvenire

sabato 9 febbraio 2013

:In Svizzera la bolla immobiliare è più vicina

Del rischio di una bolla immobiliare svizzera avevamo scritto qualche mese fa. Oggi quel rischio è più concreto. Ne scrive il Sole 24 Ore, citando un modello matematico del Politecnico di Zurigo. "Se non un imminente scoppio della bolla immobiliare, sarà almeno una frenata a dominare l’anno in corso del real estate residenziale, che vive oggi un clima da attesa della tempesta perfetta. È innegabile infatti che la corsa delle quotazioni delle case in Svizzera nell’arco dell’ultimo decennio metta oggi in discussione la tenuta del settore".

venerdì 8 febbraio 2013

Bruxelles chiede all'Agcom di tagliare di più i costi della rete fissa

La Commissione europea giovedì ha bocciato la proposta dell'Agcom italiana sul "pedaggio" della rete fissa che Telecom - proprietaria dell'infrastruttura - fa pagare alle altre compagnie. Qualche giorno fa Ibarra, numero uno di Wind, aveva spiegato che aveva intenzione di chiudere Infostrada perché, con questi costi, fare concorrenza a Telecom sul fisso non è possibile. Bruxelles conferma che le tariffe previste dall'Agom - 0,272 centesimi di euro/minuto nel 2012 a 0,043 centesimi di euro/minuto nel 2015 - pur essendo più basse di quelle attuali sarebbero «nettamente più alte rispetto a quelle di qualsiasi altro Paese Ue». Liberalizzato male, il mercato delle telecomunicazioni in Italia è uno di quei settori in cui aziende para-monopoliste possono drenare denaro dei consumatori più o meno indisturbate.

Lo Stato francese Francia pensa di entrare in Peugeot

Gira voce che il governo francese voglia entrare nel capitale di Psa Peugeot Citoren. "E' possibile, questa azienda non dve sparire e noi dobbiamo fare il possibile perché l'azienda sopravviva" ha detto il ministro del Bilancio, Jérôme Cahuzac. L'intervento potrebbe avvenire tramite il Fsi, il fondo sovrano francese. Successivamente fonti interne al ministero hanno ridimensionato il progetto.

 Lo Stato francese è già socio di Renault, dalla seconda guerra mondiale, con una quota del 15%. Nel suo ultimo bilancio Psa - che è controllato al 25% dalla famiglia Peugeot, ha svalutato per 4,1 miliardi di euro il valore degli impianti e di altri asset collegati all'auto. L'azienda perde 200 milioni di euro al mese e sta tagliando 8 mila posti di lavoro.

martedì 5 febbraio 2013

Nissan assume in Spagna, ma taglia gli stipendi


Mentre il mercato dell’auto europea vive il momento peggiore dell’ultimo ventennio, le fabbriche lottano per restare aperte. Lo stabilimento Nissan nella Zona Franca di Barcellona – 3 mila dipendenti – rischiava la chiusura. Ha invece ottenuto nuovi investimenti e assunzioni (preziosissime in un Paese dove la disoccupazione è al 26%) in cambio di un taglio dei salari.
L’accordo, arrivato dopo 6 mesi di trattative, è stato annunciato ieri. Dal luglio del 2014 Nissan produrrà nella Zona Franca un nuovo modello – dovrebbe essere un’auto compatta – in 80 mila esemplari all’anno. La fabbrica catalana, che oggi produce dei furgoni e un’auto elettrica, lavorerà così a pieno regime. L’azienda giapponese alleata di Renault assumerà mille persone (se si considera anche l’indotto i nuovi posti di lavoro sono 4 mila) e investirà 130 milioni di euro. I nuovi assunti, però, prenderanno 19.900 euro lordi all’anno, il 20% in meno dei 25 mila euro incassati da chi già sta nella fabbrica. I sindacati Ccoo e Ugt, che all’inizio avevano respinto l’accordo siglato solo dal sindacato Usoc, hanno accettato la riduzione dei salari dopo avere ottenuto una clausola che impedisce alla Nissan di licenziare gli attuali dipendenti per sostituirli con i nuovi.
Affamata di posti di lavoro (anche a poco prezzo) più di altre nazioni europee, la Spagna continua a conquistare gli investimenti delle case automobilistiche. A ottobre la Ford ha deciso di spostare dallo stabilimento belga di Genk a quello di Valencia la produzione dei suoi nuovi monovolume (con un costo del lavoro ridotto da 40,6 a 22 euro all’ora). La Renault a novembre ha annunciato 1.300 assunzioni per la fabbrica di Palencia, mentre a gennaio Volkswagen ha ufficializzato un piano di investimenti da 1 miliardo per costruire anche le future Polo a Pamplona. Secondo i dati dell’Oica, l’associazione mondiale dei produttori di auto, nel 2011 la Spagna ha costruito 1,8 milioni di automobili, l’Italia 485 mila.
da Avvenire di oggi

sabato 2 febbraio 2013

Il 2012 della Fiat, una cronologia


Il 5 gennaio, Fiat ha annunciato che è stato raggiunto l’“Ecological Event” (il terzo performance event contemplato dal "Amended and Restated LLC Operating Agreement", dalla cui realizzazione è derivato un ulteriore incremento del 5% della partecipazione in Chrysler. La partecipazione di Fiat in Chrysler è quindi pari al 58,5%. Il rimanente 41,5% di Chrysler è posseduto dallo UAW Retiree Medical Benefits Trust (“VEBA”).
Durante il primo trimestre, Fiat ha completato l’emissione di due prestiti obbligazionari, il primo emesso in data 7 Marzo per 425 milioni di franchi svizzeri (con cedola fissa del 5,00%, scadenza a settembre 2015) e l’altro emesso in data 23 Marzo per 850 milioni di euro (con cedola fissa del 7,00%, scadenza a marzo 2017). I titoli emessi da Fiat Finance and Trade Ltd SA - società interamente controllata da Fiat S.p.A. – e garantiti da Fiat S.p.A. nell’ambito del programma di Global Medium Term Note (GMTN), hanno ottenuto l’assegnazione di un rating pari a Ba3 da Moody’s, BB da Standard & Poor’s e BB da Fitch.
Il 25 aprile, Chrysler ha comunicato ad Ally Financial, Inc. (“Ally”) la sua intenzione di non rinnovare l’attuale “Auto Finance Operating Agreement” alla scadenza del 30 aprile 2013. Chrysler sta discutendo con istituzioni finanziarie in merito a diverse opzioni al fine di garantire le necessità di finanziamento della rete di vendita e dei clienti del Gruppo Chrysler.
Il 27 aprile, Standard & Poor’s ha ridotto il rating sul debito a lungo termine di Fiat S.p.A. da “BB” a “BB-”, con outlook stabile. Il rating a breve termine è confermato a “B”.
Il 2 maggio, Fiat e Tata, con l’obiettivo di sviluppare ulteriormente il marchio Fiat in India, hanno
concordato il trasferimento della gestione delle attività commerciali e di distribuzione relative al marchio Fiat ad una società indipendente di proprietà Fiat. Lo sviluppo della nuova rete di concessionari Fiat sta avvenendo in modo progressivo. I concessionari Tata affiliati Fiat saranno incoraggiati a costituire le basi della futura rete di vendita.
Il 21 maggio, Fiat S.p.A., in attuazione della delibera dell’assemblea straordinaria del 4 aprile 2012, ha dato corso alla conversione obbligatoria di tutte le azioni privilegiate e di risparmio in azioni ordinarie. Il capitale sociale è salito a 4.476.441.927,34 euro, suddiviso in n. 1.250.402.773 azioni ordinarie del valore nominale unitario pari a 3,58 euro.
Il 28 giugno, nello stabilimento GAC-Fiat di Changsha (Cina), si è svolta la cerimonia di inaugurazione del nuovo impianto e per celebrare l’avvio produttivo della Fiat Viaggio, il primo modello Fiat prodotto in Cina dalla joint-venture.
Il 3 luglio, Fiat ha comunicato a VEBA la volontà di esercitare la sua opzione di acquisto di una quota della partecipazione detenuta da VEBA in Chrysler che rappresenta circa il 3,3% del capitale di Chrysler.
Il 16 luglio Fiat ha emesso un prestito obbligazionario da 600 milioni di euro (con cedola fissa del 7,75% e scadenza a ottobre 2016). I titoli, emessi da Fiat Finance and Trade Ltd S.A. e garantiti da Fiat S.p.A.
Il 26 luglio, Fiat Group Automobiles S.p.A. (FGA) e PSA Peugeot Citroën hanno siglato l’accordo per il trasferimento a PSA Peugeot Citroën della quota detenuta da FGA nella joint venture SevelNord. In base all’accordo, SevelNord continuerà a produrre veicoli commerciali leggeri per
entrambi i gruppi fino alla fine del 2016. Tale progetto non avrà alcun impatto sugli altri accordi di
collaborazione attualmente esistenti tra FGA e PSA Peugeot Citroën, inclusa la joint venture Sevel in Val di Sangro, che continuerà ad operare come da contratti in essere.
Il 13 settembre, per il quarto anno consecutivo Fiat S.p.A. è stata confermata nei Dow Jones Sustainability Indexes (DJSI) World e Europe con un punteggio di 91/100 rispetto a una media di 74/100 delle aziende del settore Automobile analizzate da SAM, società specializzata nel campo della sostenibilità. Il DJSI World e il DJSI Europe sono prestigiosi indici borsistici ai quali accedono solo le società giudicate migliori dal punto di vista economico-finanziario sia da quello sociale e ambientale.
Il 19 settembre, Fitch ha confermato il rating sul debito a lungo termine di Fiat S.p.A. a “BB” e quello sul debito a breve termine a “B”. Il 10 ottobre, Moody’s ha ridotto da “Ba2” a “Ba3” il Corporate Family Rating di Fiat S.p.A. e conseguentemente, secondo la propria metodologia, da “Ba3” a “B1” il rating delle obbligazioni emesse da Fiat Finance & Trade Ltd. S.A. e da Fiat Finance North America, Inc. Per entrambe le agenzie l’outlook è negativo.
Il 26 di settembre Fiat S.p.A., attraverso la sua controllata Fiat North America, ha avviato un giudizio di accertamento dinnanzi al Court of Chancery del Delaware per ottenere conferma del prezzo che dovrà essere corrisposto per la partecipazione, in considerazione del mancato accordo tra le parti sul prezzo stesso.
Il 7 novembre, è stato assegnato allo stabilimento Fiat di Pomigliano D’Arco il prestigioso riconoscimento internazionale “Automotive Lean Production 2012” nella categoria OEM, dopo un processo di analisi e valutazione da parte di una commissione di esperti selezionati dalla rivista tedesca “Automobil Produktion” e da una società di consulenza.
Il 23 novembre, Fiat ha completato l’emissione di un prestito obbligazionario da 400 milioni di franchi svizzeri con cedola fissa del 5,25% e scadenza a novembre 2016. I titoli, emessi da Fiat Finance and Trade Ltd S.A. e garantiti da Fiat S.p.A. nell’ambito del programma GMTN, hanno ottenuto un rating pari a B1 da Moody’s, BB- da Standard & Poor’s e BB da Fitch.
Il 29 novembre, a seguito della riapertura del prestito obbligazionario da 600 milioni di euro con cedola fissa del 7,75% e scadenza a ottobre 2016 (inizialmente emesso il 16 luglio 2012), è stata completata l’emissione di obbligazioni per 400 milioni di euro, che ha portato a 1 miliardo di euro l’ammontare complessivo del prestito. I titoli, emessi da Fiat Finance and Trade Ltd S.A. e garantiti da Fiat S.p.A.
Il 20 dicembre, presso lo stabilimento di Melfi, il Presidente della Fiat John Elkann e l’Amministratore Delegato Sergio Marchionne, alla presenza del Primo Ministro Mario Monti, hanno presentato i piani per la produzione dal 2014 di un nuovo modello a marchio Jeep uno a marchio Fiat. A seguito di investimenti per un miliardo di euro, Melfi sarà uno dei più avanzati stabilimenti al mondo per la produzione di automobili, dotato delle tecnologie più avanzate e gestito secondo i principi e gli standard del World Class Manufacturing.

(dalla relazione sul Bilancio del Cda del 30 gennaio)

venerdì 1 febbraio 2013

Le indennità di disoccupazione in Europa

In Francia bastano 4 mesi di lavoro per avere diritto, per due anni, a un'indennità di disoccupazione pari al 67% dell'ultimo stipendio. In Germania dopo 12 mesi si può avere il sussidio per altri 12 mesi, al 62%, in Italia dopo 12 mesi si può avere, per 8 mesi, un assegno che vale il 47% dello stipendio.
dal Wsj