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mercoledì 16 ottobre 2013

Banche centrali in un vicolo cieco

Ben Bernanke e Mario Draghi hanno già avuto occasione di ammetterlo: con le stra­tegie monetarie aggressive di que­sti anni – acquisti di titoli di Stato e non, tassi azzerati, soldi quasi in regalo alle banche – la Federal Re­serve e la Banca cen­trale europea si sono incamminate lungo sentieri inesplorati. Quello che i due ban­chieri centrali più po­tenti del mondo non hanno confessato è che non sanno più co­me tornare indietro.

Quando ha fatto capi­re che la Fed stava per tagliare la terza fase del suo
 quantitative ea­sing , e quindi avrebbe ridotto gli 85 miliardi di dollari che da gennaio ogni me­se riversa sui mercati, Bernanke ha spaventato gli investitori ed è sta­to costretto a tornare sui suoi pas­si prima che i tassi dei titoli del Te­soro andassero fuori controllo. Po­trebbe tornare sui suoi passi anche la Bce, che tra dicembre 2011 e feb­braio 2012 ha prestato alle banche mille miliardi di euro a un tasso mi­nimo per evitare che il sistema an­dasse al collasso. La scadenza fina­le del rimborso si avvicina (il pre­stito era triennale) ma si è già ca­pito che molte banche non po­tranno permettersi di sdebitarsi e quindi la Bce sta pensando di aiu­tarle con un altro prestito. Non è diversa la situazione delle Banche centrali di Giappone e Regno U­nito, tanto ardite nelle loro strate­gie monetarie quanto incerte sui percorsi per ritirarle.

«Una Banca centrale può essere il salvatore del sistema, ma se poi il sistema non si muove, allora il sal­vatore diventa il peccatore» ha am­messo Lorenzo Bini Smaghi par­lando ieri a un convegno milanese in cui il Centro Paolo Baffi della Bocconi ha messo assieme econo­misti ed ex alti dirigenti delle gran­di Banche centrali. «Banchieri cen­trali: salvatori o peccatori?» ha chiesto l’istituto di ricerca. Bini Smaghi, che fino al dicembre del 2011 era nel direttivo della Bce, ha
 risposto che per una Banca centra­le è molto facile fare il salvatore del­la situazione («basta comprare quello che i mercati vogliono ven­dere »), ma a quel punto si sta solo prendendo tempo: se i 'salvati' (cioè banche e governi) non usano la tregua monetaria per tagliare i debiti e fare le riforme allora il sal­vataggio diventa un danno. È quel­lo che sta avvenendo in Europa. «Ma credo che quando verrà il mo­mento di usare l’Omt – dice Bini Smaghi citando il programma di acquisto di bond con cui Draghi ha calmato drasticamente le paure dei mercati dall’estate del 2012 in poi – allora sarà chiaro che la Bce può aiutare, ma solo se i governi ri­spettano le sue condizioni». È il punto in cui il 'peccatore' torna ad essere un 'salvatore', ma stavolta molto severo. Questo ruolo toc­cherà anche a Janet Yellen, l’eco­nomista che dal prossimo gennaio prenderà il posto di Bernanke alla guida della Fed e dovrà gestire il ri­tiro delle misure ultra-espansive varate in questi an­ni dalla Banca cen­trale. Al convegno milanese l’ameri­cano Kevin Warsh – che nel 2006 stupì il mondo entrando nel board della Fed senza avere nem­meno 36 anni (ne è uscito nel 2011) – ha lavorato anni con Yellen e assicu­ra che è un’econo­mista «straordina­riamente prepara­ta ». Ma avverte: «È incredibilmen­te focalizzata su modelli economi­ci molto recenti che però que­st’anno si sono dimostrati delu­denti nel prevedere la ripresa a­mericana. Se non funzionassero nemmeno l’anno prossimo, la Fed sarebbe costretta a cambiare stra­tegia ». 
da Avvenire di oggi

giovedì 29 agosto 2013

Il processo alla grande crisi

«C’ è un sacco di gente che sente di a­vere subìto un torto da Jp Morgan ma non può permettersi di pren­dersela con un’enorme banca. Non dovrebbe essere così». Ha ragione Leonard Blavatnik, uno che martedì ha ottenuto dal giudice di farsi risarcire 50 milioni di euro dalla banca d’affari americana. Blavatnik è uno dalle spalle abbastanza larghe per prendersela con chi vuole. Ucraino emigrato negli Stati Uniti da ra­gazzo per studiare prima alla Columbia e poi a Har­vard, ha fatto fortuna azzeccando un investimento giusto dopo l’altro e oggi, a 56 anni, ha un conto da 16 miliardi di dollari che ne fa il 44esimo uomo più ricco del mondo. Ha fatto causa a Jp Morgan perché nel 2006 un suo fondo aveva affidato alla banca 1 mi­liardo di dollari da investire con una strategia “con­servativa” e invece i trader hanno puntato forte sui ti­toli basati sui “subprime”. In due anni gli hanno bru­ciato 100 milioni. Il miliardario Blavatnik sarà par­zialmente rimborsato e sugli ingannati incapaci di difendersi ha ragione davvero; ma se tutte le vittime finanziarie delle scorrettezze che negli anni prima della crisi le banche d’affari americane avevano or­ganizzato per mangiarsi i soldi dei clienti potessero permettersi di chiedere il conto, a Wall Street reste­rebbe una manciata di superstiti.

Non sarà questa distru­zione per via giudiziaria che alcuni si augurano, ma 'il processo alla gran­de crisi' in America è ini­ziato e sta più che inner­vosendo qualche ban­chiere. Ancora Jp Mor­gan, la più grande ma an­che la più tormentata delle banche d’affari a­mericane. Il giorno dopo la vittoria di Balvatnik è emerso che la Fhfa, l’agenzia che regola il mercato del credito immobiliare Usa, ha chiesto alla banca 6 miliardi di dollari come risarci­mento per i titoli basati sui mutui 'subprime' che Jp Morgan ha venduto alle agenzie Fannie Mae e Fred­die Mac, poi salvate dallo Stato con un intervento da 42 miliardi. È la richiesta di rimborso più grossa fat­ta a una banca d’affari per quanto fatto negli anni della crisi. Delle altre 17 banche messe sotto accusa dalla Fhfa tre hanno già accettato di pagare. La sviz­zera Ubs, l’unica che ha comunicato l’importo della 'sanzione' ha chiuso la vicenda con 885 milioni. Se il parametro sarà lo stesso difficilmente Jp Morgan se la caverà con meno di 5 miliardi.

Vedremo. Nel frattempo un altro processo alla gran­de crisi si è appena chiuso con un successo dell’ac­cusa. Il 1° agosto la giuria di Manhattan ha giudicato colpevole di 6 dei 7 reati contestati Fabrice Tourre, ex trader di Goldman Sachs. Il caso è esemplare: Tour­re per Goldman aveva lavorato alla costruzione di A­bacus, un derivato imbottito di altri derivati basati sui mutui che erano stati scelti dal John Paulson. La banca nel 2007 aveva venduto il prodotto ai clienti o­mettendo un dettaglio non indifferente: Paulson a­veva scelto i titoli perché voleva scommetergli con­tro con il suo 'hedge fund'. Una tipica trovata pre-Lehmann. Lo spericolato finanziere ci ha fatto 1 mi­liardo di dollari, i clienti della banca hanno perso al­meno
 altrettanto. Lo sconosciuto trentaquatrenne Tourre, in questa sto­ria, ha pagato per tutti. Però via via che le intricate vi­cende degli anni che hanno portato al crollo mondiale del 2008 si dipanano con l’aiuto dei magistrati ame­ricani, anche ai sopravvissuti della crisi viene chiesto conto delle loro scelte. In tribunale, come testimone, potrebbe finirci Ben Bernanke. Maurice 'Hank' Greenberg, ottantottenne fondatore ed ex proprieta­rio del colosso assicurativo Aig, pretende che il capo della Federal Reserve spieghi davanti ai giudici per­ché nel 2008 decise di salvare Aig togliendone il con­trollo ai suoi azionisti. Secondo il vecchio Greenberg il banchiere centrale in realtà ha voluto salvare Gold­man Sachs, che con il fallimento di Aig avrebbe per­so almeno 20 miliardi di dollari. Il giudice ha convo­cato Bernanke come testimone, ma il governo ame­ricano sta facendo di tutto per evitare al governatore uscente questo passaggio in tribunale. Una scelta che certamente non aiuterà a tranquillizzare chi sospet­ta che in questo grande processo alla crisi Washing­ton abbia ancora qualcosa da nascondere. 
da Avvenire

lunedì 26 agosto 2013

In Borsa tornano le matricole (ma poco in Italia)

Non sarà l’arrivo di Mossi e Ghisolfi a consolare la Borsa di Hong Kong. Certo, la società basata a Tortona ma con stabilimenti in mezzo mondo è uno dei principali produttori mondiali di polietilene per bottiglie di plastica e imballaggi e ha una dimensione significativa: fattura circa 3 miliardi di dollari e dovrebbe essere valutata poco meno di 2 miliardi. Cifre che farebbero entrare da subito l’impresa di Vittorio Ghisolfi e i figli nel Ftse Mib, l’indice che mette assieme le quaranta società più grosse della piccola Borsa Italiana, ma che non spostano gli equilibri alla piazza di Hong Kong – dove il gruppo ha deciso di quotarsi – che vale quasi dieci volte la nostra. No, Hong Kong non può consolarsi con Mossi e Ghisolfi perché il mercato asiatico dal 2008 al 2011 è stato la maggiore piazza al mondo per i debutti di Borsa ma nel 2012 è scivolato al quarto posto e quest’anno difficilmente riuscirà a fare meglio. Soprattutto, la Borsa di Hong Kong rischia anche di perdersi l’esordio più ricco di tutti.
Quello di Alibaba, gigantesca compagnia cinese del commercio elettronico che gestisce più scambi di Amazon ed eBay messe assieme. Jack Ma, suo fondatore e proprietario, è il più corteggiato dalle Borse mondiali. Se per l’onnipresente Twitter, che sta lavorando per quotarsi a Wall Street, si parla di una valutazione di 10 miliardi di dollari, per Alibaba le stime indicano quotazioni da 70 miliardi. A quei livelli se Ma mettesse sul mercato anche solo un terzo delle azioni il suo debutto varrebbe da solo un quarto del mercato mondiale 2013 delle Ipo, cioè dei collocamenti delle società in Borsa. È comprensibile quindi che Hong Kong – dove Ma aveva quotato Alibaba.com, il suo più interessante sito del commercio online, per poi ricomprarsi tutte le azioni nel 2012 – non voglia farsi sfuggire il prezioso cliente. Però il manager, a quanto pare, starebbe pensando di andare a Wall Street, dove avrebbe la possibilità di suddividere le azioni a seconda dei diritti di voto, così da raccogliere capitali senza rinunciare alla sicurezza delcontrollo del suo gruppo.Il collocamento di Alibaba potrebbe ridare a questo 2013 delle Ipo uno splendore perso nell’ultimo biennio. Non è una questione solo tecnica: quando un numero significativo di società decide di quotarsi in Borsa e quindi andare a raccogliere fondi tra nuovi soci per crescere e allargarsi è anche un segnale importante di ottimismo economico. Nel 2007 l’ottimismo c’era ancora e i nuovi collocamenti avevano portato alle Borse 266 miliardi di dollari di nuovo capitale. È stato il massimo di sempre, poi c’è stata la caduta: solo 85 miliardi le Ipo del 2008, 109 miliardi l’anno dopo. L’illusione della fine della crisiaveva riacceso il mercato nel 2010, un anno in cui la raccolta ha raggiunto i 243 miliardi grazie alle enormi Ipo di Agricoltural Bank of China, Icbc e General Motors. Il ritorno al pessimismo ha caratterizzato altri due anni mediocri: nel 2011 e il 2012 il mercato delle Ipo è rimasto sotto i 100 miliardi.
Quest’anno le cose stanno andando un po’ meglio. Nei primi 7 mesi, secondo i calcoli di Thomson Reuters, attraverso 417 debutti di Borsa sono stati raccolti quasi 80 miliardi di dollari, con un aumento del 14% rispetto allo stesso periodo del 2012. Con Hong Kong in difficoltà, Wall Street regna incontrastata come piazza preferita dalle debuttanti. Ha raccolto 27,6 miliardi con 117 Ipo, ma segna un calo del 10% rispetto all’anno scorso. Aumenta invece addirittura del 310% l’incasso di Tokyo, che ha raccolto 7,7 miliardi e ha ospitato la seconda Ipo più grande dell’anno, quella da 4 miliardi di Suntory Beverage. La prima Ipo è stata brasiliana, con la compagnia assicurativa Bb Seguridade che ha raccolto 5,7 miliardi garantendo alla piazza di Sanpaolo il terzo posto mondiale nella classifica delle Ipo. Una classifica in cui Milano resta indietro. Thomson conta tre Ipo a Piazza Affari in questo 2013, per un incasso di 400 milioni di dollari (+73%). L’unico debutto nostrano veramente rilevante è stato quello di Moleskine. L’azienda delle agendine ha raccolto 269 milioni mettendo sul mercato il 50,2% delle azioni il 3 aprile. Sono passati quasi cinque mesi, la Borsa ha guadagnato il 15% ma il titolo Moleskine ha perso altrettanto. Anche 'affari' come questi aiutano a capire perché le imprese di Tortona vanno a quotarsi nell’Estremo Oriente.
da Avvenire

giovedì 22 agosto 2013

Il crollo nelle riserve delle banche centrali emergenti

Secondo un'analisi di Morgan Stanley, da maggio le banche centrali dei paesi emergenti hanno perso 81 miliardi di dollari di riserve valutarie per effetto di uscite di capitale o interventi sui mercati valutari. La cifra, che esclude la Cina, è circa il 2% delle riserve di queste banche.
dal Ft

L'incertezza della Fed sull'uscita dal quantitative easing

Ci fosse Esther L. George, al­la guida della Federal Re­serve, la Banca centrale a­mericana avrebbe probabilmente già smesso di pompare ogni mese 85 miliardi nel sistema finanziario statunitense. Invece alla guida del­la Fed, almeno fino a gennaio, c’è Ben Bernanke e George, che è la presidente della Federal Reserve di Kansas City, deve accontentar­si di partecipare alle riunioni del comitato direttivo della Banca cen­trale. Ma lì il 31 luglio questo ban­chiere del Midwest si è fatta senti­re: il suo è stato l’unico voto con­trario al comunicato finale con cui Bernanke non diceva con chiarez­za quando la Fed avrebbe ridotto o meno il suo flusso di acquisti.

La pubblicazione dei verbali del­l’ultima riunione del Federal Open Market Committee non ha aiuta­to gli investitori a capire meglio quali sono le intenzioni della Ban­ca centrale. Nel testo si ripete che i membri del direttivo sono divisi. Alcuni si aspettano che la crescita economica americana accelererà, altri sono più cauti, i primi sotto­lineano anche che la disoccupa­zione sta scendendo rapidamen­te, i secondi notano che comun­que il mercato del lavoro è debo­le. Gli "ottimisti" ritengono sia già arrivato il momento di smetterla di pompare tanto denaro nel si­stema, i 'pessimisti' (che per ora stanno vincendo) chiedono mag­giore cautela. Le divisioni, co­munque, sono forti. Solo la Geor­ge è arrivata a votare contro, ma un numero significativo di altri
 banchieri centrali crede, come lei, che sia arrivato il momento di ini­ziare a ridurre il flusso di acquisti, che a gennaio è stato allargato da 40 a 85 miliardi di dollari al mese. Sono di più gli altri, però, quelli che «hanno sottolineato l’impor­tanza di essere pazienti». L’unica certezza, almeno ufficiale, è che entro la metà del 2014 l’intera ter­za fase del 'quantitative easing' dovrà concludersi con l’elimina­zione di tutti gli 85 miliardi di spe­sa mensile. È sulla base di questo scenario che i grandi fondi in queste ultime set­timane si stanno riorganizzando: ritirano i soldi investiti nei merca­ti più rischiosi (ma anche più red­ditizi) e li spostano verso investi­menti più tranquilli. La rupia in­diana è scesa a un nuovo minimo storico mentre continuano a pre­cipitare anche le valute di Thai­landia, Indonesia, Brasile e Tur­chia. Ed è figlio dell’incertezza il nervosismo che stiamo vedendo sulle Borse. Ieri, per la terza gior­nata consecutiva, i mercati europei hanno chiuso in calo, anche se so­no stati evitati gli scivoloni pesan­ti di lunedì e martedì (Milano ha fatto -0,7%). Continua anche la ri­salita del tasso dei Btp decennali, che sul mercato secondario è sali­to di 6 centesimi, al 4,37% portan­dosi a 250 punti di distanza dai Bund tedeschi. Wall Street, come sempre unica grande Borsa aper­ta quando la Fed ha diffuso il co­municato (alle 20 italiane) era già in ribasso e ha accelerato la disce­sa (ma sotto l’1%). Gli analisti di­cono di aspettarsi a questo punto una piccola riduzione del 'quan­titative easing' nella riunione del­la Fed di metà settembre.


da Avvenire

sabato 17 agosto 2013

La grande fuga dai titoli Usa

È bastato che Ben Bernanke suggerisse con molta cautela che forse, se l’economia americana continuerà a migliorare, la Federal Reserve nei prossimi mesi potrebbe iniziare a ridurre il suo massiccio rifornimento mensile di denaro fresco al sistema finanziario (sono 85 miliardi di dollari al mese) per provocare una storica sbandata dei titoli di Stato americani. A giugno, ha comunicato nel giorno dell’Assunta il dipartimento del Tesoro, la quantità di titoli di Stato in mani straniere è diminuita di 57 miliardi di dollari, a 5.600 miliardi totali. Non è stato solo il terzo mese consecutivo di uscita degli investitori internazionali dal debito americano: da quando il ministero diffonde le cifre (e sono 36 anni) una fuga dai titoli del Tesoro come quella di giugno non si era mai vista.

A vendere, e questo è ancora più preoccupante per Washington, sono i suoi due maggiori creditori: la Cina, il cui portafoglio di titoli americani si è ridotto da 1.297 a 1.276 miliardi, e il Giappone, che ha tagliato i suoi investimenti a stelle e strisce da 1.103 a 1.083 miliardi. Da soli i due colossi asiatici valgono il 70% delle vendite di titoli del debito pubblico americano. Peggiora ulteriormente lo scenario il fatto che le vendite non siano concentrate solo sui titoli pubblici. Gli investitori internazionali hanno iniziato quella che sembra una fuga da tutti i tipi di titoli statunitensi: le azioni delle imprese (-26,8 miliardi), le loro obbligazioni (-5 miliardi), i titoli delle agenzie governative (-5,2 miliardi).

Non si può dire che questi numeri siano stati una sorpresa per Bernanke. Già sui mercati secondari i titoli del Tesoro avevano scontato subito l’apertura a una possibile riduzione delle politiche ultra-aggressive. Anche a Wall Street le cadute degli indici azionari erano state fragorose. Per fermare l’emorragia (e qualcuno sospetta su pressione governativa), nelle settimane successive il presidente della Fed ha corretto le posizioni della banca centrale, facendo capire che c’è fretta di uscire dal piano di stimolo. I dati di luglio, che saranno diffusi il mese prossimo, mostreranno se il passo indietro avrà riportato gli investitori a puntare sugli Usa. Se i numeri indicassero che la fuga va avanti, per Lawrence Summers e Janet Yellen, i due candidati alla successione di Bernanke alla guida della Fed, si prospetterebbe un debutto da incubo.


da Avvenire

giovedì 18 luglio 2013

Mercedes vietate in Francia

Parigi ha deciso di bloccare l'immatricolazione di Mercedes-Benz Classe A, Classe B e CLA fabbricate dopo il 12 giugno. Accusa la Daimler di utilizzare per costruire le macchine un gas refrigerante bandito dalle norme Ue.

mercoledì 17 luglio 2013

Tutti in affitto dai fondi sovrani

Quando i soldi crescono sugli alberi – o sgorgano dal sottosuolo – ci si può an­che permettere di spenderli mala­mente. Per esempio facendo indigestione di a­zioni delle più grandi banche mondiali pochi mesi prima del crollo di Lehman Brothers. A­dia, il fondo sovrano di Abu Dhabi, aveva pun­tato pesante sulle regine della finanza britan­nica proprio alla vigilia della grande crisi. Co­me risultato, secondo uno studio del Council on Foreign Relations, solo tra il 2007 e il 2008 ci ha perso 183 miliardi di dollari. Il fondo sovrano li­bico Lia, che si era affidato a Goldman Sachs per guadagnare con i derivati di azioni e valute, ha affidato alla leggendaria banca americana 1,2 miliardi. Alla fine dei giochi ha avuto indietro meno di 2 milioni. Qia, Il fondo del Qatar con cui gli sceicchi dell’Emirato si dilettano tra squa­dre di calcio (il Paris Saint Germain) e prestigiose griffe ( Valentino), ha speso un miliardo e mez­zo di sterline per costruire lo Shard, la torre di Renzo Piano che domina Londra. Perfido, il 

Daily Mail
 un mese fa ha scritto che lo spetta­colo dello Shard di notte è una tristezza: i prez­zi sono troppo alti, la torre semivuota e buia è una macchia nera che stona con le luci degli uffici della City. Piano se l’è presa, ha fatto pre­sente che lo Shard deve essere ancora comple­tato e ha promesso che quando sarà pronto – questo ottobre – il suo grattacielo a forma di scheggia si riempirà.

Vedremo. Per gli emiri del Qatar cambia poco: già un anno fa avevano spiegato che gli piace­va l’idea della torre di vetro, il prezzo e il senso economico dell’operazione non avevano im­portanza. Perché i soldi dell’emiro, appunto, e­rompono dal terreno, nella forma del petrolio e del gas che, esportati in tutto il mondo, ali­mentano queste enormi spese.

Secondo i calcoli del Sovereign Wealth Fund In­stitute, l’organizzazione che studia più a fondo questo settore, il patrimonio dei fondi sovrani a giugno ammontava a 5.474 miliardi di dolla­ri. Sono 1.500 miliardi in più rispetto a tre anni fa, è quasi la metà del Pil della zona euro. Que­sta enorme quantità di denaro non viene tutta dalle materie prime: i fondi che vivono di gas e petrolio hanno un patrimonio di circa 3.100 mi­liardi. Quasi tutto il resto appartiene a quei fon­di sovrani che raccolgono i disavanzi commer­ciali dei loro Paesi. Come il Cic, il China Invest­ment Corporation costruito da Pechino quasi 40 anni fa. Con un patrimonio di 482 miliardi di dollari è il secondo fondo sovrano più gran­de del pianeta, dietro quello norvegese (ali­mentato a gas naturale) che ha in gestione 746 miliardi.

Finché il prezzo del petrolio o il commercio in­ternazionale tengono, questi fondi possono continuare a crescere pur chiudendo i conti in rosso. Però per chi li gestisce è sempre più dif­
ficile giustificare le perdite. «I fondi sovrani han­no dovuto affrontare critiche pubbliche nei lo­ro paesi a causa di una serie di perdite sugli in­vestimenti esteri alla vigilia della crisi – ha scrit­to la casa di consulenza inglese TheCityUk in un report diffuso a marzo –. Come risultato le en­tità delle operazioni sono state ridotte negli ul­timi anni». I soldi comunque non mancheran­no. È ancora TheCityUk a scrivere che «i fondi potranno vedere un continuo afflusso di capitali nei prossi­mi anni, con i paesi asiatici, in particolare la Cina, che conti­nueranno a fare scorta di mo­neta estera e con la domanda di materie prime che crescerà grazie alla ripresa dell’econo­mia globale e alla domanda dei mercati emergenti».

La novità è che, scottati dalle troppe batoste subite giocando a conquistare le grandi banche europee e americane (abbia­mo fatto solo qualche esempio, ma potevamo citare tra gli altri i 2 miliardi persi dal coreano Kic con Merrill Lynch, o il caso di Mubadala, sempre di Abu Dhabi, che negli ultimi due an­ni ha fatto svalutazioni di quasi 4,5 miliardi sui suoi titoli finanziari), i fondi si stanno buttan­do sull’immobiliare commerciale. Secondo il Sovereign Investment Lab del centro studi boc­coniano Paolo Baffi, dei 58,4 miliardi di dollari investiti dai fondi sovrani nel 2012 ben 15 mi­liardi (il 26%) erano destinati al 'real estate'. È un aumento del 50% rispetto al 2011. Per la pri­ma volta gli investimenti immobiliari hanno superato quelli finanziari. Ne abbiamo visto un esempio anche in Italia, quan­do a maggio il fondo sovrano del Qatar è entrato, con una quota del 40%, nel progetto immobiliare milanese di Por­ta Nuova. Più in grande, il ci­nese Cic ha comprato i quar­tieri generali di Deutsche Bank a Londra mentre gli arabi del­l’Adia hanno preso il control­lo di quelli di Amundi a Parigi. Come farebbe un piccolo risparmiatore dopo una brutta esperienza di Borsa, i giganteschi fondi degli Stati ora puntano forte sul mattone. Se hanno perso miliardi per diventare soci dei colossi della finanza, ora sperano di guadagna­re affitandogli gli uffici. 

giovedì 11 luglio 2013

I sussidi di disoccupazione negli Stati Uniti

Il sistema di sussidi alla disoccupazione negli Stati Uniti è stato costruito 75 anni fa, durante la grande crisi. La norma, per i singoli Stati, è offrire per 26 settimane un assegno pari in media alla metà del reddito che il disoccupato era abituato a ricevere. In casi di crisi particolarmente gravi lo Stato centrale poteva intervenire a garantire i finanziamenti per qualche settimana aggiuntiva (a volte si è arrivati a 99 settimane di sussidio).
Nove Stati hanno tagliato a 20 le settimane massime di sussidio di disoccupazione, altri 6 Stati hanno ridotto gli assegni o ristretto i criteri per poterli ottenere.
dal Wsj

mercoledì 10 luglio 2013

La Peugeot, quello che la Fiat rischiava di diventare

Sono passati 35 anni da quando la Fiat e la Peugeot si sono alleate nella Sevel per costruire assieme furgoni e furgoncini. Collaborazioni così durature, nell’industria dell’auto, sono rare. Questa joint venture ha funzionato bene perché i due alleati si capiscono e si assomigliano da sempre. I loro soci di riferimento sono ancora i discendenti del fondatore, gli Agnelli e i Peugeot, le loro macchine sono per il pubblico di massa, i loro rapporti con i governi nazionali sono particolarmente forti. Ma le loro storie, in questi ultimi anni, hanno preso direzioni opposte.

La storia di Fiat la conosciamo bene: arrivata a un passo dallo sfascio si è rimessa in marcia costruendo la sua rinascita sugli 1,6 miliardi di euro che le ha dato General Motors per non comprarla, quindi ha puntato forte su modelli 'ricercati' (come la 500) e sull’espansione del mercato brasiliano, infine si è lanciata nella conquista di Chrysler. La storia recente di Psa, cioè del gruppo Peugeot- Citroën , è poco seguita nel nostro Paese. Peccato, perché le vicende della casa francese raccontano quella che sarebbe potuta essere oggi la Fiat se Sergio Marchionne non si fosse buttato nell’avventura americana. Partiamo dalla fine. Psa ha chiuso i primi sei mesi dell’anno con 1,5 milioni di auto vendute, il 9,8% in meno rispetto alla prima metà del 2012. Crollano, naturalmente, le vendite europee. La forte crescita delle immatricolazioni in Cina (+32%) non basta a compensarle. L’Asia però sembra l’unica strada percorribile per i Peugeot. L’amministratore delegato, Philippe Varin, una settimana fa ha inaugurato a Wuhan la terza fabbrica cinese di Psa. Nel 2015, quando sarà in grado di produrre 750mila auto all’anno, sarà lo stabilimento più grande del gruppo. L’apertura dell’impianto cinese stride con le chiusure annunciate in Europa. Chiuderà l’anno prossimo (se non alla fine del 2013) la fabbrica parigina di Aulnay-sous-Bois, che è stata al centro dello scontro con il governo Hollande. I sindacati, a maggioranza, hannodovuto digerire un piano di ristrutturazione delle attività francesi che prevede 11.200 esuberi.
Non avevano molta scelta: con il mercato auto europeo al collasso, Psa, che dipende ancora da vetture di fascia media e bassa, è in crisi nera. Nel 2012 ha bruciato 2,5 miliardi di euro di cassa, per quest’anno prevede di bruciare un altro miliardo e mezzo. Le risorse non sono infinite. È dovuto intervenire il governo francese, che ha concesso garanzie e prestiti per un totale di 7 miliardi di euro. A Bruxelles stanno studiando quegli aiuti, perché potrebbero essere contrari alle regole sulla concorrenza. Nei piani di Varin l’azienda attraverso il radicale taglio dei costi e l’aumento delle vendite in Asia potrebbe chiudere le falle nei suoi conti correnti già l’anno prossimo, per ritrovare l’utile nel 2015. La maggioranza degli analisti è scettica.
Comunque andrà, la famiglia Peugeot, che ha il 25% delle azioni e il 38% dei diritti di voto, sembra destinata, dopo due secoli, a perdere il controllo dell’azienda. Serve un aumento di capitale e a loro mancano i soldi. Il denaro potrebbe arrivare da General Motors. La più grande delle tre sorelle di Detroit, tornata forte dopo il fallimento di quattro anni fa, nel 2012 è entrata in società comprando il 7% per 400 milioni di euro. Sta valutando l’idea di fondere Psa con la sua Opel. A fine giugno l’agenzia Reuters ha rilanciato le voci di imminente scalata. Sono arrivate le dovute smentite, ma gli investitori ci credono così poco che da 10 giorni sono tornati a far scorta delle azioni Psa.
Ecco: la conquista americana, con gli yankee nella parte dei predatori, sarebbe la perfetta chiusura della storia degli opposti destini degli Agnelli e dei Peugeot.

I cinesi che non si integrano

Dai giornali di oggi due bei esempi di come la comunità cinese non sia in grado di integrarsi in Italia.

La dichiarazione su Repubblica di Angelo Ouci, uno dei leader della comunità cinese milanese:
«Il sindaco non è mai venuto a una nostra manifestazione, né organizzato un incontro con la nostra comunità, ha ospitato il Dalai Lama ad Assago, dove di solito facciamo le feste cinesi. Quest’anno siamo stati costretti a spostarci al PalaSesto, essendo che Assago era ormai contaminato».

Sul Sole 24 Ore qualche dettaglio tecnico sulle strategie cinesi per lavorare in pace ignorando ogni legge italiana. 
Fanno "ditte con un solo addetto, che chiudono al secondo anno di attività. Per prassi, i controlli fiscali scattano non prima di 20 mesi: i cinesi lo hanno capito e alla scadenza del biennio cancellano la vecchia ditta e ne aprono un'altra". "L'ultima novità? La notte dopo il sequestro dei macchinari, i cinesi violano i sigilli, caricano le macchine su un Tir e le rivendono ai loro amici".
Non solo. "In pochi sanno che non esiste un patto di estradizione tra Italia e Repubblica Popolare". Aldo Milone, assessore a Prato, ha consegnato all'Agenzia delle Entrate 357 dossier qualificati, "cioè già setacciati dalla polizia municipale, di cittadini cinesi che evadono sistematicamente tasse comunali, regionali e nazionali. Importo complessivo stimato per difetto: oltre un miliardo l'anno".

martedì 9 luglio 2013

Il problema di Fiat: quanto costerà sfilarsi?

Secondo Riccardo Ruggeri la questione di Fiat non è tanto il costo del lavoro, quanto la necessità di procedere a tagli strutturali nelle sue fabbriche europee.

Il costo del lavoro operaio (diretti, indiretti, manutentori, ecc.) in Fiat rappresenta il 7 per cento del costo. L’intero processo di fabbrica, dalla lastro-ferratura al montaggio finale, per una Panda vale 11 ore, assumiamo un costo/operaio di 22 euro/ora, totale 242 euro/auto. In Polonia costerebbe 88 euro (8 euro/ora), in Germania 330 (30 euro/ora). Come si vede, il costo del lavoro è poco significativo. Costruire 200.000 Panda in Italia, di puro costo-lavoro, spendi 48 milioni di euro, in Polonia 18 (in crescita), la differenza di 30 milioni è irrilevante, trascurando gli altri ben noti fattori, qualità percepita compresa. [...] Ora sono di nuovo tutti lì a sfruculiare su argomenti irrilevanti o a interpretare sentenze, solo nello specifico, di scarsa rilevanza. In realtà il problema Fiat-Italia noi investitori l’abbiamo chiaro da tempo: “Fiat Auto ha stabilimenti e personale in esubero in termini strutturali, quanto costerà sfilarsi?”.

Saccomanni chiama i banchieri per fare ripartire i prestiti

Scrive Fubini che Fabrizio Saccomanni martedì prossimo incontrerà a Roma i banchieri italiani per elaborare un sistema di rilancio dei prestiti per le imprese.

Il ministro dell'Economia e del Tesoro Fabrizio Saccomanni spedirà domani gli inviti per un vertice ristretto previsto il 16 luglio a Roma, parteciperanno una trentina di personaggi chiave del sistema finanziario italiano. Obiettivo: superare il crollo dei prestiti alle aziende, allargando il numero dei soggetti che possono elargire credito oltre alle banche. Si pensa ai fondi pensione, assicurazioni e Fondazioni bancarie.

venerdì 5 luglio 2013

Le ragioni della fine del capitalismo di relazione

Secondo Luigi Zingales "le ragioni [della fine del capitalismo di relazione in Italia] sono molte, ma forse la più importante è la storica decisione del tribunale di Parma sull'acquisizione da parte di Parmalat del Lactalis American Group (LAG). Se confermato in appello, questo provvedimento rivoluziona la corporate governance in Italia, uccidendo alla radice il capitalismo di relazione. Il motivo del contendere è una delle tante operazioni con parti correlate che caratterizza il nostro sistema: l'acquisizione da parte di Parmalat di una società (LAG) posseduta dalla controllante (Lactalis)".

martedì 2 luglio 2013

L'utile del Fatto Quotidiano

Nel 2011 il Fatto aveva chiuso i conti con un utile di 4,5 milioni. Nel 2012 l'utile è stato di 753mila euro. Più o meno è un -85%. L'editrice Chiarelettere nel 2012 è riuscita a fare utili solo incassando il dividendo del giornale. La casa editrice è controllata al 49% dal gruppo Mauri Spagnol, al 30% dall'editore Lorenzo Fazio, al 15% da Roberto Vitale.

I tagli alla spesa pubblica possibili, secondo Paolo De Ioanna

Per tagliare si può partire così: "Innanzitutto i sussidi statali alle imprese, identificati da Francesco Giavazzi l’anno scorso e che ammontano a circa 10 miliardi l’anno. Poi ci sono le agevolazioni fiscali già censite con il governo Berlusconi da Vieri Ceriani: 160 miliardi nel complesso, di cui almeno 70 giudicati “intoccabili” (quelle per i lavoratori dipendenti, pensionati e i familiari a carico). “Aggiungo che ogni anno, nelle bollette elettriche, sono contenuti 12 miliardi di sussidi per il fotovoltaico. Da tutto questo già qui si potrebbero recuperare 500-600 milioni in sei mesi e poi un miliardo in ragione d’anno. Certo non sono ancora i 20 miliardi che ci servirebbero”.
(Paolo De Ioanna è stato capo di gabinetto al Tesoro con Ciampi e poi con Padoa Schioppa, ha scritto A nostre spese. Crescere di più tagliando meglio).

lunedì 1 luglio 2013

La relazione tra Samsung e Apple


Ricordarsi, quando si parla della battaglia dei brevetti tra Apple e Samsung, che l'azienda americana compra da quella sudcoreana diversi componenti, compresi chip e display. Secondo le stime di Mark Newman, analista a Sanford Bernstein, nel 2012 Apple ha comprato componentistica Samsung per 10 miliardi di dollari (5 miilardi per i processori). Apple si è accordata per comprare in futuro i chip di Tsmc. Non si sa quando saranno pronti.

La disperazione del governo che non sa tagliare

"Il governo si sta muovendo con un approccio che dimostra disperazione per reperire qualche soldo «dal fondo del barile» invece che proporre alla Ue e agli italiani un piano pluriennale di politica fiscale che permetta di ridurre tasse e spese".

Ecco un buon modo di dire, in breve, quello che sta succedendo. Lo ha scritto Alesina sul Corriere di ieri.

giovedì 13 giugno 2013

I marchi che valgono

Su Italia Oggi di oggi la classifica dei marchi italiani della grande distribuzione in base all'indice "Meaningful brand" di Havas.

Secondo Pimco il mondo rischia un'altra recessione

L'Europa non può andare avanti ancora a lungo «cavandosela alla bell’e meglio» tra un’economia che non cresce e un’unione monetaria perennemente traballante. Secondo Pimco – colossale fondo di investimento che gestisce più di 2mila miliardi di dollari – nel giro di 3-5 anni il Vecchio Continente arriverà a un bivio. Da un lato ci sarà la strada buona dell’Europa più unita: quindi integrazione fiscale, unione bancaria, riforme per aumentare la flessibilità e più legittimazione democratica per Bruxelles. Dall’altro lato ci sarà la strada cattiva, con l’insolvenza di una grande economia (Spagna o Italia) e la sua uscita dall’unione monetaria. Mentre procede verso quel bivio, l’Europa rischia di ritrovarsi «zombificata»: non cresce, chi presta soldi agli Stati e alle banche rischia di essere chiamato a gestirne il salvataggio (come è successo in Grecia e a Cipro), la Bce prende tempo e le riforme necessarie a rilanciare l’economia creano scontento sociale, alimentando i partiti euroscettici.
Certo, lo scenario disegnato da Pimco nel suo "Secular Outlook" è discutibile, però il fondo ha costruito la sua visione per i prossimi 3-5 anni mettendo assieme le analisi dei suoi migliori manager e contributi autorevoli come quelli dell’ex presidente della Banca Mondiale Robert Zoellick o di Elena Salgado, ministro delle Finanze spagnolo tra il 2009 e il 2011. Ed è in base a queste previsioni che il fondo sta facendo le scelte di investimento a lungo termine sui soldi che gestisce. Trattandosi di una cifra superiore al Pil italiano, difficilmente ci si può accontentarsi di analisi superficiali.
L’idea di base è che fino al 2006 il mondo avesse trovato uno «squilibrio stabile» con una crescita gonfiata in maniera artificiale. Lo squilibrio si è risolto con la crisi, che ha creato un nuovo equilibrio al ribasso, con il ridimensionamento delle grandi economie e la crescita di nuove potenze. Oggi quell’equilibrio è altamente instabile ed entro il 2018 si risolverà. Forse con un ritorno a una potente crescita mondiale o forse con una nuova recessione. Per Pimco al 60% sarà recessione.
L’Europa, secondo lo studio presentato a Milano dal manager Saumil Parikh, non sarà l’unica ad andare verso un bivio. Lo stesso capiterà al Giappone: da un lato se la politica fiscale e monetaria ultra-aggressiva che sta sperimentando il nuovo premier Shinzo Abe funzionerà Tokyo nel giro di qualche anno tornerà a una crescita equilibrata; dall’altro se l’esperimento nipponico fallirà (e Pimco tende a pensare che andrà così) il Giappone non riuscirà a ritrovare la crescita e a causa del fiume di denaro riversato nel sistema sarà meno competitivo di adesso. Più tranquillo lo scenario per Stati Uniti e Cina. I primi dovrebbero raggiungere una «velocità di crociera» del 2%, ma devono riuscire a passare da una crescita assistita dalla spesa pubblica a una crescita autonoma. A Pechino l’espansione del Pil rallenterà al 6-7,5%. La Cina dovrà riuscire a passare da un modello di crescita export-dipendente a uno basato sui consumi interni. «È la grande sfida dei prossimi 18 mesi» avverte Pimco. L’alternativa è l’esplosione della bolla del credito cinese. Naturalmente è pericolosissima.

mercoledì 12 giugno 2013

Le riserve di shale gas

L'Eia ha aggiornato la sua stima sulla riserve globali di shale gas. Calcola che ci siano 7,3 migliaia di miliardi di metri cubi di gas. Gli Stati Uniti, che più stanno sfruttando questa risorsa, ne hanno meno di Cina, Argentina e Algeria. La Polonia, che avrebbe le maggiori riserve europee, non è tra i primi dieci.


venerdì 7 giugno 2013

La sigaretta elettronica della Camel

Scrive il Financial Times che Reynolds, il gruppo che controlla tra gli altri i marchi Camel e Pall Mall, sta per lanciare la sua prima sigaretta elettronica. Altria, che controlla Marlboro, lancerà la sua entro fine anno. Goldman Sachs calcola che quest'anno il mercato delle sigarette elettroniche varrà 300 milioni di dollari. Alcuni analisti prevedono che raggiunga il miliardo nel giro di un paio d'anni.

venerdì 17 maggio 2013

Se anche giovani cinesi hanno problemi a trovare lavoro

Anche in Cina i giovani iniziano ad avere problemi a trovare lavoro. Secondo il ministro dell'istruzione cinese quest'anno avranno la laurea 7 milioni di studenti, 190mila in più rispetto al 2011. I media cinesi scrivono che per loro questo può essere il "più duro" degli ultimi anni per i neolaureati. Alla fine di aprile solo 3 neolaureati su 10 aveva trovato lavoro a Shanghai, il 10% in meno rispetto all'anno scorso.
dal Ft

giovedì 16 maggio 2013

Facebook può finire in crisi

Gli investitori temono che Facebook interessi sempre meno alle giovani generazioni, interessate piuttosto a reti alternative come Twitter, WhatsApp, Tumblr, Line, Viber, Snapchat. "Una delle più frequenti conversazioni che ho con i miei investitori è quella sul disinteresse delle giovani generazioni per Facebook" dice Mark Mahaney, analisti di Rbc. Comunque oggi ogni giorno 665 milioni di persone usano Facebook.
dal Ft

martedì 14 maggio 2013

Le Borse e le Banche centrali

Nel suo anno e mezzo alla guida della Banca centrale euro­pea Mario Draghi ha tagliato quattro volte i tassi (erano all’1,5% quando è entrato in carica e ora sono allo 0,5%), ha prestato mille miliardi alle banche, ha comprato i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà e ha promesso che se sarà necessario tornerà a comprarli, e in quantità illimitata. Ha riempito di soldi l’Europa come nessuno aveva mai fatto prima, ma quel denaro si ferma nei bilanci di banche troppo spaventate per prestarli alle imprese. Al massimo i soldi finiscono in Borsa. «Siete frustrati per la cautela del­le banche?» gli ha chiesto un giornalista americano nella confe­renza stampa del 2 maggio, dopo l’ultimo taglio dei tassi. «Siamo... sì, frustrati, certamente, ha usato la parola giusta – ha risposto il banchiere italiano –. Il fatto è che noi non andiamo in giro a spar­gere soldi con l’elicottero. In Europa bisogna passare dalle ban­che ». Sono trascorsi 44 anni da quando l’economista Milton Fried­man inventò l’esempio dell’elicottero della banca centrale che get­ta banconote dal cielo su un paesino afflitto dalla deflazione, e quell’immagine è ancora straordinariamente efficace. Quando quel cronista lo ha stuzzicato, a Draghi saranno venuti in mente i suoi due principali colleghi, che hanno fatto già decollare i loro e­licotteri spargisoldi: l’americano Ben Bernanke (non a caso 'Heli­copter Ben', per i critici) e il giap­ponese Haruhiko Kuroda.
L’eccezionale politica monetaria e­spansiva della Bce appare poca co­sa davanti a quello che stanno fa­cendo la Federal Reserve e la Ban­ca del Giappone. Dopo avere azze­rato i tassi e immesso nel sistema 2mila miliardi di dollari compran­do bond del Tesoro e titoli legati ai mutui, la Fed lo scorso settembre ha avviato il suo terzo piano di 'quantitative easing': «Comprere­mo titoli legati ai mutui al ritmo di 40 miliardi al mese», aveva an­nunciato Bernanke, salvo poi raddoppiare la spesa (a 85 miliardi) a dicembre. Bernanke continuerà a rovesciare denaro sull’economia americana finché la disoccupazione non sarà scesa abbastanza: quando ha iniziato il tasso dei senza lavoro era all’8,1%, ad aprile la quota di disoccupati era diminuita al 7,5%, l’obiettivo è scendere ver­so il 6%. Nel frattempo sull’altro lato del Pacifico il nuovo governa­tore giapponese Haruhiko Kuroda sta caricando i suoi elicotteri. Il primo ministro Shinzo Abe lo ha chiamato per aiutarlo a risolleva­re – a colpi di spesa pubblica – un’economia depressa da vent’anni e lui ci vuole riuscire con un piano monetario realmente faraonico: in due anni raddoppierà i soldi in circolazione in Giappone. La ba­se monetaria aumenterà di 130mila miliardi di yen (987 miliardi di euro, ai cambi attuali). «Voglio adottare tutte le misure immagina­bili » ha avvertito l’economista giapponese: comprerà senza molti scrupoli titoli di Stato con scadenze quarantennali, ma anche fon­di comuni di investimento al ritmo di 7 miliardi di yen al mese. Il suo obiettivo è riconquistare un’inflazione stabile al 2%, un mirag­gio desiderabile in un Paese in cui i prezzi sono da anni in discesa e il debito è al 230% del Pil. Se poi, come in effetti sta accadendo, Ku­roda ottiene anche una svalutazione dello yen che può dare una ma­no alle esportazioni, tanto meglio. Anche il Regno Unito è pronto a far decollare il suo elicottero. La cloche è affidata al canadese Mark Carney, che dal 1° luglio prenderà il posto dell’attuale governatore Mervyn King. La Banca d’Inghilterra, che ha tassi allo 0,5% da 4 an­ni, ha già adottato misure estremamente aggressive, comprando ti­toli di Stato per 375 miliardi di sterline (443 miliardi di dollari), ma da Carney – che da governatore del Canada ha protetto il Paese dalla crisi – molti si aspettano mosse più ardite.

Se queste strategie funzioneranno gli studenti di economia delle prossime generazioni troveranno nei loro manuali lunghi capitoli sugli anni in cui la crisi fu affogata in un mare di denaro. Se falli­ranno quelle pagine parleranno di come la recessione fu ulterior­mente peggiorata da una bolla inflazionistica gonfiata da Bernanke, Kuroda e colleghi. Perché un’inflazione galoppante è il naturale ef­fetto collaterale di una politica monetaria troppo espansiva.
Per il momento l’inflazione è sotto controllo, la domanda è debo­le e i soldi freschi non hanno dato grandiosi risultati nell’economia reale. Piuttosto si sono viste grandi cose sui mercati finanziari, che stanno facendo il pieno di nuova moneta. La ricerca di alti rendi­menti ha portato le ondate di liquidità sul mercato dei titoli di Sta­to dell’euro, facendo crollare i tassi dei Btp italiani e dei Bonos spa­gnoli. Con tanti soldi in giro le Borse sembrano avere trovato il Pae­se di Bengodi, con gli indici che abbattono i massimi toccati prima della crisi: a marzo nuovo record storico Wall Street, questo mar­tedì record per Francoforte, mercoledì record per la piccola In­stanbul. Fra qualche settimana potrebbero arrivare anche i record di Londra e Zurigo.
Il rischio è che impreviste interruzioni del flusso di nuova liquidità facciano crollare i listini e rimandino alle stelle gli spread .La spe­ranza è che nel giro di qualche mese si parli anche dei 'record' di ripresa delle aziende e dell’occupazione. Il bello della metafora del­l’elicottero è che la pioggia di soldi aiuta la gente del villaggio a sta­re meglio. La banca e la Borsa non sono menzionate. 
da Avvenire

giovedì 9 maggio 2013

Moleskine non sta bene in Borsa

Come azienda, Moleskine va alla grande. Ieri ha presen­tato i conti del primo trime­stre e i risultati sono ottimi: ricavi in aumento del 15,5%, a 16,4 milioni di euro, un margine operativo lordo cresciuto del 9,7%, a 5,7 milioni, un utile netto di 3,2 milioni (+20,5%). Sono poche le aziende italiane che in questo momento possono mo­strare numeri simili. Il modello in­dustriale, evidentemente funzio­na: taccuini e agende con lo storico marchio francese recuperato da a­bili manager italiani vengono pro­dotti in Cina e quindi venduti in tut­to il mondo (il 46% in Europa, il 39% in America, il 15% in Asia) a prezzi da prodotto di alta moda. Quel mar­gine operativo – più di un terzo dei ricavi – è enorme.
Il problema è Moleskine come tito­lo. Il 3 aprile scorso il debutto a Piaz­za Affari di un’azienda così di moda era stato accolto con entusiasmo. Il fondo Syntegra – attraverso la so­cietà lussemburghese Appunti che aveva comprato il 75% dell’azienda nel 2006 per 60 milioni – e un grup­po di manager tramite la fiduciaria Istifid hanno messo sul mercato il 50,17% delle azioni incassando po­co meno di 245 milioni di euro da u­sare per ridurre il debito. L’opera­zione valutava Moleskine circa 20 volte i suoi utili. Una valutazione al­ta. Come le agende, anche le azio­ni erano un po’ care: Moleskine ve­niva trattata come una società di alta moda o un’azienda tecnologica estremamente innovativa.
L’Ipo ha avuto un successo straor­dinario. Ma chi si è precipitato a comprare il titolo (il 90% dell’offer­ta era riservato agli investitori isti­tuzionali, il 10% ai risparmiatori) per ora non può dire di avere fatto un grande affare. Anzi, per un po’ pro­babilmente se l’è vista brutta. Piaz­zate a 2,3 euro il 3 aprile le azioni Moleskine hanno rapidamente ini­ziato a svalutarsi. Dopo due setti­mane valevano 1,8 euro. Un’altra settimana e l’azione era precipitata a 1,6. Meno trenta per cento in tre settimane. Avranno tremato gli an­ziani del New Jersey: il fondo pen­sione statale ha comprato il 2,6% delle azioni Moleskine, una parte degli assegni di questi vecchi ame­ricani dipende dalle sorti di questi modaioli taccuini neri. Per fortuna quell’1,6 euro è rimasto un minimo. L’azione nella seconda metà di a­prile ha iniziato un recupero che l’ha riportata a quota 2 euro (2 euro ton­di, la chiusura di ieri, con un calo dello 0,5%). Meglio di prima, ma dal debutto la Borsa ha bruciato il 12,7% di capitalizzazione del gruppo. I ti­toli pagati 245 milioni di euro oggi valgono 214 milioni. È passato solo un mese, ma le mitiche agendine di Chatwin, Hemingway e Picasso a Piazza Affari non hanno già più il fascino di una volta. 

da Avvenire

mercoledì 8 maggio 2013

Il biotech italiano ha bisogno di aiuto

Lo Stato deve 4 miliardi di euro alle imprese farmaceutiche, ma nemmeno il decreto sul pagamento dei debiti della Pubblica ammi­nistrazione farà arrivare quei soldi alle aziende. «Colpa di alcuni tecnicismi» spiega Massimo Scac­cabarozzi, presidente di Farmindustria. La legge prevede come unico strumento per il pagamento dei debiti sanitari che la Regione faccia un’antici­pazione di cassa con oneri a proprio carico: ma l’ente locale non ha nessun obbligo di ricorrere a questa soluzione, quindi sta a lei decidere se pro­cedere o meno con i pagamenti. Farmindustria a­veva sperato che il testo contenesse quantomeno una possibilità di compensare debiti e crediti (per le aziende farmaceutiche, infatti, è normale ogni anno rimborsare in anticipo alle Pubbliche amministrazioni par­te delle cifre da incassare) ma nel decreto non c’è niente del gene­re. Mentre resta in piedi fino a fi­ne anno il blocco delle azioni e­secutive contro gli enti del siste­ma sanitario nazionale introdot­to dal decreto Balduzzi: in so­stanza la legge impedisce alle a­ziende farmaceutiche di muoversi con gli avvoca­ti perché lo Stato paghi quanto dovuto.
Scaccabarozzi solleva il problema del pagamento dei crediti delle aziende farmaceutiche durante la presentazione dei risultati dello studio realizzato dal colosso della consulenza Ernst & Young sullo stato di salute delle biotecnologie in Italia. Non è un caso: il decreto sui debiti della Pubblica ammi­nistrazione è stato un’esemplare dimostrazione di quanto poco l’Italia si preoccupi di creare un am­biente positivo per aiutare le imprese che investo­no. Una trascuratezza confermata in pieno dall’in­dagine.
In 12 anni le imprese italiane che fanno ricerca e svi­luppo in biotecnologie sono quasi triplicate: oggi sono 407 (erano 412 l’anno scorso) e di queste 256 sono 'pure biotech', cioè si occupano esclusiva­mente di biotecnologie. In Europa solo Regno U­nito e Germania hanno più aziende biotecnologi­che di noi. Questo è un settore preziosissimo per il sistema industriale nazionale, perché i risultati del­le sue ricerche si applicano a campi molto diversi: soprattutto la farmaceutica, ma anche l’alimenta­re, l’informatica, l’ambiente, la chimica, l’agricol­tura. Sono aziende che investono tanto (la quota di spese per la ricerca e lo sviluppo è stati pari al 26% dei ricavi nel 2010) e che pur essendo mediamen­te di piccola dimensione si sono organizzate in 'Cluster territoriali' per essere in grado di trasferi­re con efficacia sul mercato i risultati del loro lavo­ro. E soprattutto sono aziende in forte crescita: i da­ti del 2011, gli ultimi disponibili, indicano ricavi in aumento del 6,3% (a 7,1 miliardi di euro). L’aumento del fatturato delle aziende 'pure biotech' è anche più forte (+11%, a 1,4 miliardi). L’occupazione tie­ne: i dipendenti sono rimasti stabili (6.739 gli ad­detti in ricerca e sviluppo nel 2011, con un calo del­lo0,1%). «Eppure andiamo avanti con il freno a mano tira­to » si arrabbia Alessandro Sido­li, presidente dell’associazione di settore Assobiotec, che fa l’e­lenco delle misure a favore del­le ricerca varate altrove: in mez­za Europa hanno detassato gli u­tili che derivano dalla cessione di proprietà intellettuale, in tut­to il mondo (o quasi) è previsto del credito di imposta per l’atti­vità di ricerca e sviluppo, in molti Paesi ci sono a­gevolazioni per i fondi di venture capital che inve­stono su imprese ad alta innovazione. In Italia non c’è niente di tutto questo e anche le leggi che po­trebbero aiutare non funzionano: il Decreto cre­scita 2.0 varato dal passato governo esclude le start­up farmaceutiche, perché hanno tempi troppo lun­ghi (servono tra i 10 e i 12 anni per sviluppare un nuovo prodotto) rispetto a quelle tecnologiche. «Co­sì rischiamo il naufragio» avverte Sidoli, segnalan­do che la quota di aziende biotecnologiche che han­no una disponibilità di cassa inferiore ai sei mesi è raddoppiata dal 22% del 2010 al 45% del 2012.
Molte di queste aziende aspettano dall’Italia il pa­gamento di finanziamenti per la ricerca nazionali ed europei maturati e non ancora erogati. Questi non sono crediti commerciali, quindi sono esclusi dal Decreto sui debiti dello Stato. Ma vanno paga­ti con urgenza, avverte Assobiotec, se vogliamo e­vitare di uccidere aziende che altrimenti godreb­bero di ottima salute.

da Avvenire

venerdì 3 maggio 2013

La Grecia privatizza la lotteria

La Grecia ha completato la prima grande privatizzazione: il fondo Emma Delta, controllato dal finanziere ceco Jiri Smeich, dal businessman greco George Melissanidis e dal fondo russo Ict Group comprerà il 33% di Opap, la società pubblica di scommesse, pagando 652 milioni di euro (più 60 milioni per il dividendo 2012). Nonostante la crisi Opap nel 2012 ha fatto 4 miliardi di ricavi e 505 milioni di euro di utili. La redditività è enorme. L'azienda ha il monopolio sulle scommesse sportive fino al 2020 e sulle lotterie fino al 2030.
dal Sole

martedì 23 aprile 2013

Volkswagen ruba il manager americano di Maserati


Il nuovo piano europeo di Marchionne punta a espandere la presenza delle auto del gruppo Fiat nella fascia medio-alta del mercato. In questo senso il marchio Maserati ha un ruolo strategico. Il pubblico per queste auto sta in Europa, in Asia, in Nordamerica. E tanto per iniziare la Volkswagen ha fregato a Maserati il suo manager per gli Stati Uniti.

(ANSA) - ROMA, 22 APR - Mark McNabb, che nei giorni scorsi aveva lasciato la Maserati dove ricopriva il ruolo di CEO per le attività in Nordamerica, è il nuovo chief operating officer di Volkswagen of America. McNabb sarà operativo - si legge in una nota dell'azienda nella sua nuova posizione - dal prossimo primo maggio e risponderà al CEO di Volkswagen of America, Jonathan Browning, per sovraintendere alle vendite del marchio negli Stati Uniti ed all'ambizioso progmma di crescita in quel mercato. McNabb, che prima della Maserati ha lavorato in Cadillac e in GM (partecipando anche alla ricerca degli acquirenti per Saab e Hummer), in Nissan ed Infiniti e in Mercedes, ha 51 anni di cui 25 passati nell'industria automobilistica. Volkswagen of America distribuisce negli Usa, attraverso una rete di 610 dealer indipendenti i modelli Beetle, Beetle Convertible, Eos, Golf, Golf R, GTI, Jetta, Jetta SportWagen, Passat, CC, Tiguan, Touareg e Routan, molti dei quali costruiti nello stabilimento di Chattanooga, nel Tennessee. (ANSA)

sabato 20 aprile 2013

Il sostegno pubblico alla casa negli Stati Uniti e in Inghilterra

Negli Stati Uniti 9 mutui su 10 sono sussidiati da qualche forma di supporto statale: possono essere le agenzie Freddie Mac e Fannie Mae il dipartimento degli Affari dei Veterani, le banche federali per la casa. Senza il loro intervento, calcola Moody's, i prezzi delle case americane sarebbero più bassi del 25%.
Nel Regno Unito un mutuo su tre è gestito da due banche controllate dallo stato Lloyds e Rbs. Il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, sta preparando un sistema di agenzie pubbliche a supporto dei mutui simile a quello americano. Gli effetti sono molto negativi. Spiega Ed Stansfield, economista di Capital Economics, che c'è ancora troppa sproporzione tra i prezzi delle case e i redditi della popolazione. L'intervento pubblico sta aiutando chi già aveva una casa prima della crisi e danneggia chi non l'aveva.
dal Ft.



venerdì 19 aprile 2013

Shale gas da non esportare

Gli Stati Uniti hanno concesso soltanto una licenza per esportare gas naturale liquefatto in nazioni che non hanno un accordo di libero scambio con gli Usa. Ma altre 16 richieste sono depositate al Dipartimento dell'energia. Le aziende americane, che grazie allo shale gas pagano il gas 4 dollari a metro cubo contro i 12-13 euro dell'Europa, hanno chiesto al governo di non favorire le esportazioni: il prezzo del gas, spiegano, rappresenta un forte vantaggio competitivo senza il quale sono a rischio 100 miliardi di dollari di investimenti.
Ft

mercoledì 17 aprile 2013

L'oro di Cipro

Il punto 29 del piano di salvataggio di Cipro prevede la vendita delle riserve d'oro del paese per incassare 400 milioni di euro. Secondo i numeri del Fondo monetario internazionale Cipro ha 13,9 tonnellate d'oro. Con un euro dollaro a 1,3 e l'oro a 1.375 dollari una tonnellata d'oro vale circa 32 milioni di euro. L'intera riserva aurea di Cipro quindi oggi vale 445 milioni. Se la quotazione del'oro, in euro, scendesse di un altro 10%, però, anche vendendo tutto il suo oro Cipro non potrebbe rispettare i requisiti imposti dall'Europa.
da Zerohedge


martedì 16 aprile 2013

La produttività in Italia

Grafico da un'analisi diffusa oggi di Credit Suisse: il Pil per ore di lavoro dell'Italia è il penultimo tra quelli delle economie avanzate. Peggio di noi solo il Giappone, che sta disperatamente cercando di rilanciarsi, e la Grecia, che è fallita.








Le perdite delle navi del petrolio

L'associazione degli armatori di tanker di petrolio calcola che il settore ha perso 26 miliardi di dollari dal 2009 al 2012. Le tariffe sono scese fin sotto i costi operativi: il prezzo di un giorno di trasporto sulla rotta Medioriente-Giappone è di 7.085 dollari (aveva toccato massimi sopra i 300 mila dollari nel 2007) mentre il costo per l'armatore è tra i 10 e i 12 mila dollari.
dal Wsj

lunedì 15 aprile 2013

Alla Germania mancano lavoratori

Ursula von der Leyen, ministro del Lavoro tedesco, spiega che in Germania c'è il problema del calo della forza lavoro: "La popolazione in età lavorativa della Germania sta calando. Se guardi ai prossimi 15 anni, se non cambiamo il nostro modo di lavorare - e questa è la soluzione - avremo 6 milioni di potenziali lavoratori in meno nel mercato del lavoro, una cifra che vale più o meno la popolazione della Baviera".
dal Ft

I paradisi fiscali in Europa

Negli anni in cui l’economia euro­pea cresceva, nessuno a Bruxelles si era messo a fare lo schizzinoso con gli Stati dell’Unione Europea che aiu­tavano i cittadini degli altri a non pagare le tasse. Avere dei paradisi fiscali all’interno dell’Ue è stata considerata, per anni, una cosa normale. Era normale nel 2005 sce­gliere Jean-Claude Juncker come primo presidente permanente dell’Eurogruppo – il coordinamento dei ministri delle Finan­ze dell’area euro – e confermarlo per ben tre volte. In questo modo per 8 anni una delle più importanti istituzioni della mo­neta unica è stata guidata dallo storico pri­mo ministro del Lussemburgo, che è il più visibile paradiso fiscale dell’Ue. Il Lussem­burgo vive di finanza e garantisce un tota­le segreto bancario a chi apre un conto in uno dei suoi spor­telli. Questa preziosa riserva­tezza ha consentito alle ban­che del Granducato di accu­mulare depositi da tutto il mondo per un totale che vale circa 23 volte il suo Pil. Ma la pacchia è finita. Qualche gior­no fa il governo lussemburghese ha dovu­to cedere alle pressioni europee: dal 2015 rinuncerà al segreto bancario. Probabil­mente l’Europa lo costringerà ad abban­donare anche la sua altra cattiva abitudi­ne: quella di applicare un bassissimo livel­lo di tassazione sugli incassi finanziari, co­sì da spingere tante multinazionali a basa­re nel Granducato le loro holding per poi trasferire lì – sotto forma di dividendi o in­teressi – gli incassi raccolti nel resto d’Eu­ropa e nasconderli così al fisco.
Anche nella esemplare Austria c’è un rigo­roso segreto bancario. Maria Fekter, mini­stro delle Finanze austriaco, ricorderà que­sto suo pessimo fine settimana a Dublino, con i colleghi di tutt’Europa che insisteva­no per spingerla ad arrendersi come ha fat­to il Lussemburgo. Per ora ha resistito, an­che se ha finito per difendersi in maniera bambinesca: «Perché – ha attaccato venerdì – il G20 non fa niente per chiudere le la­vanderie di denaro nelle isole Cayman o nelle isole Vergini...o in Delaware?». Fekter poteva trovare argomentazioni migliori. Magari fare presente che il successore di Juncker alla guida dell’Eurogruppo è il rap­presentante di un altro autorevolissimo pa­radiso fiscale europeo. Jeroen Dijsselbloem è infatti il ministro delle Finanze dei Paesi Bassi, nazione che si permette di dare le­zioni alle economie in difficoltà pur sa­pendo di danneggiarle direttamente attra­verso un sistema di tassazione minima sul­le royalties e di trattati bilaterali con isolet­te esotiche che aiuta tante multinazionali a spedire in Olanda i loro incassi europei e quindi mandare il tutto alle Cayman pa­gando sull’intera cifra una tassazione ridi­cola. In questi viaggi di denaro dai Paesi Bassi ai Caraibi si passa spesso per un al­tro paradiso fiscale europeo, l’Irlanda, che non tassa i guadagni ottenuti all’estero da un’impresa nazionale.Davanti a furbizie così palesi da parte dei suoi membri storici, l’Unione Europea non si è potuta per­mettere di fare nulla per evi­tare che al suo interno na­scessero altri paradisi fiscali. Come Cipro, che non preve­deva tasse su dividendi, inte­ressi e vendite di azioni e ga­rantiva massima riservatezza su chi portava denaro dall’estero. Sembra­va un altro 'paradiso' mediterraneo, ora è un inferno: il piano di salvataggio europeo ha imposto all’isola tasse sui depositi ban­cari che possono arrivare quasi al 40%, chi aveva fatto la pensata di portare i suoi sol­di a Cipro è servito. Altri, invece, sono av­vertiti: la punizione inflitta ai ciprioti do­vrebbe servire da lezione anche a lettoni e maltesi, che con decisi tagli alle tasse sui profitti finanziari sembrano ambire a di­ventare i nuovi paradisi fiscali dell’Unione. In realtà, se il piano europeo avrà succes­so, di paradisi fiscali all’interno dell’Ue nel giro di qualche anno non ne sarà rimasto nessuno. Resteranno paradisi europei fuo­ri dall’Ue: la potente Svizzera, Andorra, il Principato di Monaco le Isole britanniche e il Liechtenstein. Ma sono realtà che si pos­sono stroncare con un po’ di volontà poli­tica. All’Italia sono bastati lo scudo fiscale e l’inserimento nella lista nera del Tesoro per lasciare senza i fondi dei nostri 'fur­betti' la Repubblica di San Marino.
da Avvenire

venerdì 5 aprile 2013

La ripresa (ad ostacoli) degli affitti

Siamo nella primavera del 2006, quasi nessuno sa cosa siano i mutui subprime e la recessione globale non è uno sce­nario immaginabile. Il più lungo boom immobiliare della storia d’I­talia sta raggiungendo il suo api­ce. «L’87,1% degli italiani vive in u­na casa di proprietà» annuncia il Censis. È un record storico e sem­bra una notizia bellissima per una popolazione abituata a considera­re l’affitto un insensato spreco di denaro.
Non c’era ancora una Imu così pe­sante, allora, e le quotazioni degli immobili sembravano destinate a crescere a tempo indeterminato. Quasi nessuno faceva notare che nelle economie europee che fun­zionano meglio della nostra – ad esempio in Germania, Francia, Re­gno Unito o Paesi Bassi – la quota dei proprietari di casa non supera il 70%.
Sette anni dopo la casa di proprietà è ancora tra le massime aspirazio­ni degli italiani ma qualcosa è cam­biato. Intanto, calcola l’Istat, la quota di proprietari è scesa all’81%. Poi comprare casa è di­ventato difficilissimo, perché i prezzi sono cresciuti a dismisura e le banche non fanno credito. Il mercato si è bloccato e come ri­sultato sempre più famiglie sono costrette a scegliere, a malincuo­re, l’affitto. Ma nello stesso tempo tante famiglie sono indaffarate a cercare in tutta fretta qualche in­quilino affidabile.
«L’offerta di affitti sta crescendo tanto. Era già elevata negli anni del boom immobiliare, perché tanti compravano casa per metterla a reddito, ma negli ultimi mesi per effetti della crisi e dell’Imu il nu­mero di case in cerca di inquilini è aumentato moltissimo» spiega Fa­biana Megliola, responsabile del­l’ufficio studi di Tecnocasa. «Sul la­to della domanda, nella maggioranza dei casi – continua - si va in affitto perché non si riesce a com­prare, ma cresce la quota di chi sceglie la locazione per mantenersi flessibile a livello professionale». Nel frattempo sta cambiando il comportamento di in­quilini e proprietari: «I pro­prietari stanno limando i canoni, per andare incontro alla calo del­la capacità di spesa e non ritrovar­si con la casa sfitta. Mentre gli in­quilini si fanno più selettivi: con tanta offerta possono scegliere tra diverse alternative e quindi non si accontentano più così facilmen­te ». Sono tendenze visibili anche nel­l’ultima analisi condotta da Nomi­sma assieme a Solo Affitti, società leader nel settore delle locazioni. I canoni, secondo l’indagine, nel 2012 si sono ridotti in media tra il 5 e il 6%. «La domanda è forte – conferma Silvia Spronelli, presi­dente di Solo Affitti – ma le nor­mative non aiutano. Chi sta in af­fitto in una prima casa dovrebbe avere agevolazioni fiscali come chi compra con il mutuo. Mentre ai proprietari servono maggiori ga­ranzie per tutelarsi dagli inquilini morosi». Anche le semplificazioni introdotte di recente, come la ce­dolare secca, non hanno funzio­nato: l’imposta unica del 20% sul redditto da affitto lo scorso anno ha dato un gettito di 875 milioni invece dei 3,5 miliardi previsti. Se­condo le stime della Cgia di Mestre almeno un milione di abitazioni in Italia sono affittate in nero.Così se il mercato delle compra­vendite è bloccato per la crisi, quel­lo degli affitti è frenato dalla buro­crazia. Putroppo non è un freno so­lo per il settore immobiliare: «Il tas­so naturale di disoccupazione di­pende dalla facilità con cui le per­sone possono spostarsi, di impre­sa e di luogo di residenza, per tro­vare un lavoro» spiegava un grup­po di economisti coordinati da In­nocenzo Cipolletta in uno studio di qualche tempo fa sull’immobi­liare italiano. Può darsi che l’Italia della casa di proprietà fra qualche anno scoprirà che la ripresa eco­nomica, ogni tanto, è in affitto.

da Avvenire di oggi

martedì 2 aprile 2013

Le condizioni del salvataggio di Cipro, spiegate

L'Europa presterà al governo cipriota 10 miliardi di euro da restituire in 22 anni a un tasso del 2,5%.
La Laiki Bank viene incorporata nella Bank of Cyprus, dove nei conti correnti la cifra che eccede i 100 mila euro sarà così gestita: il 37,5% dei depositi sarà convertito in azioni della banca, un altro 22,5% sarà trattenuto come cuscinetto e potrebbe essere parzialmente o totalmente convertito in azioni se fosse necessario. Ai correntisti resta il controllo sul restante 40% (ma per ora possono gestire solo il 10% di quel denaro).