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lunedì 26 agosto 2013

In Borsa tornano le matricole (ma poco in Italia)

Non sarà l’arrivo di Mossi e Ghisolfi a consolare la Borsa di Hong Kong. Certo, la società basata a Tortona ma con stabilimenti in mezzo mondo è uno dei principali produttori mondiali di polietilene per bottiglie di plastica e imballaggi e ha una dimensione significativa: fattura circa 3 miliardi di dollari e dovrebbe essere valutata poco meno di 2 miliardi. Cifre che farebbero entrare da subito l’impresa di Vittorio Ghisolfi e i figli nel Ftse Mib, l’indice che mette assieme le quaranta società più grosse della piccola Borsa Italiana, ma che non spostano gli equilibri alla piazza di Hong Kong – dove il gruppo ha deciso di quotarsi – che vale quasi dieci volte la nostra. No, Hong Kong non può consolarsi con Mossi e Ghisolfi perché il mercato asiatico dal 2008 al 2011 è stato la maggiore piazza al mondo per i debutti di Borsa ma nel 2012 è scivolato al quarto posto e quest’anno difficilmente riuscirà a fare meglio. Soprattutto, la Borsa di Hong Kong rischia anche di perdersi l’esordio più ricco di tutti.
Quello di Alibaba, gigantesca compagnia cinese del commercio elettronico che gestisce più scambi di Amazon ed eBay messe assieme. Jack Ma, suo fondatore e proprietario, è il più corteggiato dalle Borse mondiali. Se per l’onnipresente Twitter, che sta lavorando per quotarsi a Wall Street, si parla di una valutazione di 10 miliardi di dollari, per Alibaba le stime indicano quotazioni da 70 miliardi. A quei livelli se Ma mettesse sul mercato anche solo un terzo delle azioni il suo debutto varrebbe da solo un quarto del mercato mondiale 2013 delle Ipo, cioè dei collocamenti delle società in Borsa. È comprensibile quindi che Hong Kong – dove Ma aveva quotato Alibaba.com, il suo più interessante sito del commercio online, per poi ricomprarsi tutte le azioni nel 2012 – non voglia farsi sfuggire il prezioso cliente. Però il manager, a quanto pare, starebbe pensando di andare a Wall Street, dove avrebbe la possibilità di suddividere le azioni a seconda dei diritti di voto, così da raccogliere capitali senza rinunciare alla sicurezza delcontrollo del suo gruppo.Il collocamento di Alibaba potrebbe ridare a questo 2013 delle Ipo uno splendore perso nell’ultimo biennio. Non è una questione solo tecnica: quando un numero significativo di società decide di quotarsi in Borsa e quindi andare a raccogliere fondi tra nuovi soci per crescere e allargarsi è anche un segnale importante di ottimismo economico. Nel 2007 l’ottimismo c’era ancora e i nuovi collocamenti avevano portato alle Borse 266 miliardi di dollari di nuovo capitale. È stato il massimo di sempre, poi c’è stata la caduta: solo 85 miliardi le Ipo del 2008, 109 miliardi l’anno dopo. L’illusione della fine della crisiaveva riacceso il mercato nel 2010, un anno in cui la raccolta ha raggiunto i 243 miliardi grazie alle enormi Ipo di Agricoltural Bank of China, Icbc e General Motors. Il ritorno al pessimismo ha caratterizzato altri due anni mediocri: nel 2011 e il 2012 il mercato delle Ipo è rimasto sotto i 100 miliardi.
Quest’anno le cose stanno andando un po’ meglio. Nei primi 7 mesi, secondo i calcoli di Thomson Reuters, attraverso 417 debutti di Borsa sono stati raccolti quasi 80 miliardi di dollari, con un aumento del 14% rispetto allo stesso periodo del 2012. Con Hong Kong in difficoltà, Wall Street regna incontrastata come piazza preferita dalle debuttanti. Ha raccolto 27,6 miliardi con 117 Ipo, ma segna un calo del 10% rispetto all’anno scorso. Aumenta invece addirittura del 310% l’incasso di Tokyo, che ha raccolto 7,7 miliardi e ha ospitato la seconda Ipo più grande dell’anno, quella da 4 miliardi di Suntory Beverage. La prima Ipo è stata brasiliana, con la compagnia assicurativa Bb Seguridade che ha raccolto 5,7 miliardi garantendo alla piazza di Sanpaolo il terzo posto mondiale nella classifica delle Ipo. Una classifica in cui Milano resta indietro. Thomson conta tre Ipo a Piazza Affari in questo 2013, per un incasso di 400 milioni di dollari (+73%). L’unico debutto nostrano veramente rilevante è stato quello di Moleskine. L’azienda delle agendine ha raccolto 269 milioni mettendo sul mercato il 50,2% delle azioni il 3 aprile. Sono passati quasi cinque mesi, la Borsa ha guadagnato il 15% ma il titolo Moleskine ha perso altrettanto. Anche 'affari' come questi aiutano a capire perché le imprese di Tortona vanno a quotarsi nell’Estremo Oriente.
da Avvenire

giovedì 9 maggio 2013

Moleskine non sta bene in Borsa

Come azienda, Moleskine va alla grande. Ieri ha presen­tato i conti del primo trime­stre e i risultati sono ottimi: ricavi in aumento del 15,5%, a 16,4 milioni di euro, un margine operativo lordo cresciuto del 9,7%, a 5,7 milioni, un utile netto di 3,2 milioni (+20,5%). Sono poche le aziende italiane che in questo momento possono mo­strare numeri simili. Il modello in­dustriale, evidentemente funzio­na: taccuini e agende con lo storico marchio francese recuperato da a­bili manager italiani vengono pro­dotti in Cina e quindi venduti in tut­to il mondo (il 46% in Europa, il 39% in America, il 15% in Asia) a prezzi da prodotto di alta moda. Quel mar­gine operativo – più di un terzo dei ricavi – è enorme.
Il problema è Moleskine come tito­lo. Il 3 aprile scorso il debutto a Piaz­za Affari di un’azienda così di moda era stato accolto con entusiasmo. Il fondo Syntegra – attraverso la so­cietà lussemburghese Appunti che aveva comprato il 75% dell’azienda nel 2006 per 60 milioni – e un grup­po di manager tramite la fiduciaria Istifid hanno messo sul mercato il 50,17% delle azioni incassando po­co meno di 245 milioni di euro da u­sare per ridurre il debito. L’opera­zione valutava Moleskine circa 20 volte i suoi utili. Una valutazione al­ta. Come le agende, anche le azio­ni erano un po’ care: Moleskine ve­niva trattata come una società di alta moda o un’azienda tecnologica estremamente innovativa.
L’Ipo ha avuto un successo straor­dinario. Ma chi si è precipitato a comprare il titolo (il 90% dell’offer­ta era riservato agli investitori isti­tuzionali, il 10% ai risparmiatori) per ora non può dire di avere fatto un grande affare. Anzi, per un po’ pro­babilmente se l’è vista brutta. Piaz­zate a 2,3 euro il 3 aprile le azioni Moleskine hanno rapidamente ini­ziato a svalutarsi. Dopo due setti­mane valevano 1,8 euro. Un’altra settimana e l’azione era precipitata a 1,6. Meno trenta per cento in tre settimane. Avranno tremato gli an­ziani del New Jersey: il fondo pen­sione statale ha comprato il 2,6% delle azioni Moleskine, una parte degli assegni di questi vecchi ame­ricani dipende dalle sorti di questi modaioli taccuini neri. Per fortuna quell’1,6 euro è rimasto un minimo. L’azione nella seconda metà di a­prile ha iniziato un recupero che l’ha riportata a quota 2 euro (2 euro ton­di, la chiusura di ieri, con un calo dello 0,5%). Meglio di prima, ma dal debutto la Borsa ha bruciato il 12,7% di capitalizzazione del gruppo. I ti­toli pagati 245 milioni di euro oggi valgono 214 milioni. È passato solo un mese, ma le mitiche agendine di Chatwin, Hemingway e Picasso a Piazza Affari non hanno già più il fascino di una volta. 

da Avvenire

giovedì 2 febbraio 2012

I conti di Facebook


Il social network creato da Mark Zuckerberg dalla sua stanza del campus di Harvard nel 2004 e
la cui popolarità è esplosa nel giro di pochi anni ha dichiarato nei documenti preliminari
presentati all'Authority un risultato netto in crescita del 65% a 1 miliardo di dollari nel 2011
su 3,71 miliardi di ricavi.