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lunedì 13 gennaio 2014

La bolla del credito cinese

Mark Carney, l’apprezzato banchiere centrale canadese da poco arruolato alla guida della Bank of England, qualche settimana ha avvertito tutti in maniera molto diplomatica: «L’ultima crisi finanziaria nelle nazioni avanzate si può considerare finita. Il rischio maggiore ora viene dal settore bancario parallelo nelle grandi nazioni emergenti». Con meno cautela, Carney avrebbe potuto dire che la finanza cinese è maturata così rapidamente da rischiare già di vivere la sua Lehman Brothers, un evento che manderebbe a gambe all’aria la già debole ripresa globale.

Ma per capire come ci si è arrivati conviene fare un passo indietro.
Stampare un mare di denaro e metterlo in circolo, come stanno facendo le grandi banche centrali in questi anni, è relativamente facile. Basta superare le obiezioni politiche e tecniche di chi non è d’accordo. Molto più difficile è mantenere il controllo del mare monetario generato: è complicato, cioè, riuscire a fare in modo che i soldi stampati arrivino lì dove li si voleva mandare. La Banca centrale europea, per esempio, non sta riuscendo a far sì che la sua politica di bassi tassi di interesse si traduca in credito più facile ed economico per le imprese e le famiglie di tutta l’area dell’euro; questo è uno dei grandi crucci — espliciti — di Mario Draghi. La Federal Reserve americana, altro esempio, fatica dannatamente a generare nuova occupazione attraverso i suoi acquisti mensili di bond del Tesoro e titoli immobiliari. La Banca centrale cinese, ultimo e drammatico esempio, sembra avere perso il controllo della situazione: i soldi freschi immessi nel sistema hanno preso strade lontane dagli occhi del controllore e nessuno sa più fermarli.

Fissare regole più severe sul sistema bancario — ad esempio, come sta facendo l’Europa, obbligando le banche ad aumentare le riserve di denaro che devono mettere da parte per fare credito — è uno dei modi per tenere sotto controllo la moneta in circolazione ed evitare che troppi soldi diretti verso un solo settore, magari l’immobiliare o le azioni “tech”, gonfino pericolose bolle. Ma imbrigliare gli istituti di credito non basta, perché, purtroppo per le banche centrali, i soldi sanno sempre trovare le loro scorciatoie.
La scorciatoia più battuta sono le banche ombra: soggetti diversi che praticano la tradizionale attività bancaria —- cioè raccolgono denaro e lo prestano — senza avere la forma giuridica, e quindi i vincoli regolamentari, delle banche. Fanno parte di questo mondo variegato fondi di investimento più o meno speculativi, società finanziarie di vario genere, trust basati in nazioni esotiche e prodotti finanziari complessi.

Questi anni di politiche monetarie generose delle Banche centrali combinate a regole più rigorose per le banche private hanno creato l’habitat ideale per questi soggetti, che possono finanziarsi a basso costo e trovare migliaia di imprese assetate di credito. Nel suo rapporto del 2013 sulle banche ombra, diffuso a novembre, il Financial Stability Board calcola che durante il 2012 il sistema bancario parallelo sia cresciuto di 5mila miliardi di dollari, per arrivare a gestire 71mila miliardi. Vale il 117% del Prodotto interno lordo del pianeta e quasi un quarto del sistema finanziario globale.

La crescita a livello mondiale è stata dell’8%. In Europa molte nazioni hanno però visto un calo dell’attività bancaria ombra (tra queste la Spagna, il Regno Unito, l’Italia e la Francia) mentre in Germania e negli Stati Uniti c’è stato un aumento attorno al 10%. In Cina l’attività creditizia fuori dalle regole bancarie ha segnato uno spaventoso +42%. Fermare le banche ombra è diventata una delle prime urgenze di Pechino.

La Cina ha reagito alla crisi mondiale spingendo sugli investimenti. Ha investito su progetti di infrastrutture: strade, ferrovie, aeroporti, centrali elettriche, intere città. Tutti cantieri che, nel migliore dei casi, daranno un ritorno economico negli anni a venire. Per finanziare questi progetti le banche dello Stato hanno concesso crediti in abbondanza alle imprese e lo stesso hanno fatto i governi locali. Il debito totale, cioè pubblico e privato, tra il 2008 e il 2013 è passato dal 128 al 216% del Pil. Per i soli governi locali dal 2010 allo scorso anno l’aumento del passivo è stato del 67%: da 10.700 a 17.900 miliardi di renminbi (2.150 miliardi di euro).

Circa un anno e mezzo fa la Banca centrale si è accorta che la bolla del credito stava diventando pericolosa, quindi ha iniziato a chiudere i rubinetti. Imprese e governi locali – che sì hanno investito, ma non sanno quando questi investimenti daranno un profitto – non avevano in cassa i soldi per pagare i loro debiti. Così si sono arrangiati rivolgendosi alle banche ombra. Chiedere prestiti per rimborsare prestiti: un metodo da manuale per avviare una crisi finanziaria. Nelle ultime settimane Pechino si è mossa per arginare il guaio. È emerso nei giorni scorsi il documento numero 107 distribuito a dicembre dal Consiglio di Stato ai legislatori e alle autorità di controllo: impone una severissima stretta al credito che arriva da soggetti non bancari.

Con nuove regole la Cina potrà limitare i danni futuri, ma già quest’anno la Repubblica Popolare vedrà le prime conseguenze degli errori del passato. Bloomberg calcola che nel 2014 le aziende cinesi devono rimborsare prestiti alle banche per 2.600 renminbi (oltre 300 miliardi di euro). È il 20% in più rispetto al 2013 e secondo l’agenzia americana nel 2014 c’è un’alta probabilità di vedere le prime grandi insolvenze dei colossi di Pechino. Il governo centrale potrà intervenire sulle sue banche per costringerle a concedere nuovo credito e quindi evitare i default.

Ma dovrà fare qualcosa anche per evitare insolvenze verso il sistema senza regole delle banche ombra, che attende nei prossimi mesi rimborsi di prestiti stimati in altri 10mila miliardi di renminbi (1.200 miliardi di euro). È una cifra di poco inferiore al Pil della Spagna. La Banca centrale cinese potrebbe essere costretta a usare una bella fetta delle sue enormi riserve valutarie (nei forzieri di Pechino ci sono titoli per un valore, in euro, di circa 2.500 miliardi) ma non sono soldi che si possono sbloccare, e sacrificare, facilmente. L’insidia all’orizzonte è abbastanza grande da mandare in crisi anche il gigante asiatico. E con lui – inevitabilmente – il resto del mondo.

giovedì 22 agosto 2013

Il crollo nelle riserve delle banche centrali emergenti

Secondo un'analisi di Morgan Stanley, da maggio le banche centrali dei paesi emergenti hanno perso 81 miliardi di dollari di riserve valutarie per effetto di uscite di capitale o interventi sui mercati valutari. La cifra, che esclude la Cina, è circa il 2% delle riserve di queste banche.
dal Ft

martedì 14 maggio 2013

Le Borse e le Banche centrali

Nel suo anno e mezzo alla guida della Banca centrale euro­pea Mario Draghi ha tagliato quattro volte i tassi (erano all’1,5% quando è entrato in carica e ora sono allo 0,5%), ha prestato mille miliardi alle banche, ha comprato i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà e ha promesso che se sarà necessario tornerà a comprarli, e in quantità illimitata. Ha riempito di soldi l’Europa come nessuno aveva mai fatto prima, ma quel denaro si ferma nei bilanci di banche troppo spaventate per prestarli alle imprese. Al massimo i soldi finiscono in Borsa. «Siete frustrati per la cautela del­le banche?» gli ha chiesto un giornalista americano nella confe­renza stampa del 2 maggio, dopo l’ultimo taglio dei tassi. «Siamo... sì, frustrati, certamente, ha usato la parola giusta – ha risposto il banchiere italiano –. Il fatto è che noi non andiamo in giro a spar­gere soldi con l’elicottero. In Europa bisogna passare dalle ban­che ». Sono trascorsi 44 anni da quando l’economista Milton Fried­man inventò l’esempio dell’elicottero della banca centrale che get­ta banconote dal cielo su un paesino afflitto dalla deflazione, e quell’immagine è ancora straordinariamente efficace. Quando quel cronista lo ha stuzzicato, a Draghi saranno venuti in mente i suoi due principali colleghi, che hanno fatto già decollare i loro e­licotteri spargisoldi: l’americano Ben Bernanke (non a caso 'Heli­copter Ben', per i critici) e il giap­ponese Haruhiko Kuroda.
L’eccezionale politica monetaria e­spansiva della Bce appare poca co­sa davanti a quello che stanno fa­cendo la Federal Reserve e la Ban­ca del Giappone. Dopo avere azze­rato i tassi e immesso nel sistema 2mila miliardi di dollari compran­do bond del Tesoro e titoli legati ai mutui, la Fed lo scorso settembre ha avviato il suo terzo piano di 'quantitative easing': «Comprere­mo titoli legati ai mutui al ritmo di 40 miliardi al mese», aveva an­nunciato Bernanke, salvo poi raddoppiare la spesa (a 85 miliardi) a dicembre. Bernanke continuerà a rovesciare denaro sull’economia americana finché la disoccupazione non sarà scesa abbastanza: quando ha iniziato il tasso dei senza lavoro era all’8,1%, ad aprile la quota di disoccupati era diminuita al 7,5%, l’obiettivo è scendere ver­so il 6%. Nel frattempo sull’altro lato del Pacifico il nuovo governa­tore giapponese Haruhiko Kuroda sta caricando i suoi elicotteri. Il primo ministro Shinzo Abe lo ha chiamato per aiutarlo a risolleva­re – a colpi di spesa pubblica – un’economia depressa da vent’anni e lui ci vuole riuscire con un piano monetario realmente faraonico: in due anni raddoppierà i soldi in circolazione in Giappone. La ba­se monetaria aumenterà di 130mila miliardi di yen (987 miliardi di euro, ai cambi attuali). «Voglio adottare tutte le misure immagina­bili » ha avvertito l’economista giapponese: comprerà senza molti scrupoli titoli di Stato con scadenze quarantennali, ma anche fon­di comuni di investimento al ritmo di 7 miliardi di yen al mese. Il suo obiettivo è riconquistare un’inflazione stabile al 2%, un mirag­gio desiderabile in un Paese in cui i prezzi sono da anni in discesa e il debito è al 230% del Pil. Se poi, come in effetti sta accadendo, Ku­roda ottiene anche una svalutazione dello yen che può dare una ma­no alle esportazioni, tanto meglio. Anche il Regno Unito è pronto a far decollare il suo elicottero. La cloche è affidata al canadese Mark Carney, che dal 1° luglio prenderà il posto dell’attuale governatore Mervyn King. La Banca d’Inghilterra, che ha tassi allo 0,5% da 4 an­ni, ha già adottato misure estremamente aggressive, comprando ti­toli di Stato per 375 miliardi di sterline (443 miliardi di dollari), ma da Carney – che da governatore del Canada ha protetto il Paese dalla crisi – molti si aspettano mosse più ardite.

Se queste strategie funzioneranno gli studenti di economia delle prossime generazioni troveranno nei loro manuali lunghi capitoli sugli anni in cui la crisi fu affogata in un mare di denaro. Se falli­ranno quelle pagine parleranno di come la recessione fu ulterior­mente peggiorata da una bolla inflazionistica gonfiata da Bernanke, Kuroda e colleghi. Perché un’inflazione galoppante è il naturale ef­fetto collaterale di una politica monetaria troppo espansiva.
Per il momento l’inflazione è sotto controllo, la domanda è debo­le e i soldi freschi non hanno dato grandiosi risultati nell’economia reale. Piuttosto si sono viste grandi cose sui mercati finanziari, che stanno facendo il pieno di nuova moneta. La ricerca di alti rendi­menti ha portato le ondate di liquidità sul mercato dei titoli di Sta­to dell’euro, facendo crollare i tassi dei Btp italiani e dei Bonos spa­gnoli. Con tanti soldi in giro le Borse sembrano avere trovato il Pae­se di Bengodi, con gli indici che abbattono i massimi toccati prima della crisi: a marzo nuovo record storico Wall Street, questo mar­tedì record per Francoforte, mercoledì record per la piccola In­stanbul. Fra qualche settimana potrebbero arrivare anche i record di Londra e Zurigo.
Il rischio è che impreviste interruzioni del flusso di nuova liquidità facciano crollare i listini e rimandino alle stelle gli spread .La spe­ranza è che nel giro di qualche mese si parli anche dei 'record' di ripresa delle aziende e dell’occupazione. Il bello della metafora del­l’elicottero è che la pioggia di soldi aiuta la gente del villaggio a sta­re meglio. La banca e la Borsa non sono menzionate. 
da Avvenire