Trilione si trasferisce al nuovo indirizzo trilione.wordpress.com
Cerca nel blog
lunedì 3 febbraio 2014
lunedì 13 gennaio 2014
La bolla del credito cinese
Mark Carney, l’apprezzato banchiere centrale canadese da poco arruolato alla guida della Bank of England, qualche settimana ha avvertito tutti in maniera molto diplomatica: «L’ultima crisi finanziaria nelle nazioni avanzate si può considerare finita. Il rischio maggiore ora viene dal settore bancario parallelo nelle grandi nazioni emergenti». Con meno cautela, Carney avrebbe potuto dire che la finanza cinese è maturata così rapidamente da rischiare già di vivere la sua Lehman Brothers, un evento che manderebbe a gambe all’aria la già debole ripresa globale.
Ma per capire come ci si è arrivati conviene fare un passo indietro.
Stampare un mare di denaro e metterlo in circolo, come stanno facendo le grandi banche centrali in questi anni, è relativamente facile. Basta superare le obiezioni politiche e tecniche di chi non è d’accordo. Molto più difficile è mantenere il controllo del mare monetario generato: è complicato, cioè, riuscire a fare in modo che i soldi stampati arrivino lì dove li si voleva mandare. La Banca centrale europea, per esempio, non sta riuscendo a far sì che la sua politica di bassi tassi di interesse si traduca in credito più facile ed economico per le imprese e le famiglie di tutta l’area dell’euro; questo è uno dei grandi crucci — espliciti — di Mario Draghi. La Federal Reserve americana, altro esempio, fatica dannatamente a generare nuova occupazione attraverso i suoi acquisti mensili di bond del Tesoro e titoli immobiliari. La Banca centrale cinese, ultimo e drammatico esempio, sembra avere perso il controllo della situazione: i soldi freschi immessi nel sistema hanno preso strade lontane dagli occhi del controllore e nessuno sa più fermarli.
Fissare regole più severe sul sistema bancario — ad esempio, come sta facendo l’Europa, obbligando le banche ad aumentare le riserve di denaro che devono mettere da parte per fare credito — è uno dei modi per tenere sotto controllo la moneta in circolazione ed evitare che troppi soldi diretti verso un solo settore, magari l’immobiliare o le azioni “tech”, gonfino pericolose bolle. Ma imbrigliare gli istituti di credito non basta, perché, purtroppo per le banche centrali, i soldi sanno sempre trovare le loro scorciatoie.
La scorciatoia più battuta sono le banche ombra: soggetti diversi che praticano la tradizionale attività bancaria —- cioè raccolgono denaro e lo prestano — senza avere la forma giuridica, e quindi i vincoli regolamentari, delle banche. Fanno parte di questo mondo variegato fondi di investimento più o meno speculativi, società finanziarie di vario genere, trust basati in nazioni esotiche e prodotti finanziari complessi.
Questi anni di politiche monetarie generose delle Banche centrali combinate a regole più rigorose per le banche private hanno creato l’habitat ideale per questi soggetti, che possono finanziarsi a basso costo e trovare migliaia di imprese assetate di credito. Nel suo rapporto del 2013 sulle banche ombra, diffuso a novembre, il Financial Stability Board calcola che durante il 2012 il sistema bancario parallelo sia cresciuto di 5mila miliardi di dollari, per arrivare a gestire 71mila miliardi. Vale il 117% del Prodotto interno lordo del pianeta e quasi un quarto del sistema finanziario globale.
La crescita a livello mondiale è stata dell’8%. In Europa molte nazioni hanno però visto un calo dell’attività bancaria ombra (tra queste la Spagna, il Regno Unito, l’Italia e la Francia) mentre in Germania e negli Stati Uniti c’è stato un aumento attorno al 10%. In Cina l’attività creditizia fuori dalle regole bancarie ha segnato uno spaventoso +42%. Fermare le banche ombra è diventata una delle prime urgenze di Pechino.
La Cina ha reagito alla crisi mondiale spingendo sugli investimenti. Ha investito su progetti di infrastrutture: strade, ferrovie, aeroporti, centrali elettriche, intere città. Tutti cantieri che, nel migliore dei casi, daranno un ritorno economico negli anni a venire. Per finanziare questi progetti le banche dello Stato hanno concesso crediti in abbondanza alle imprese e lo stesso hanno fatto i governi locali. Il debito totale, cioè pubblico e privato, tra il 2008 e il 2013 è passato dal 128 al 216% del Pil. Per i soli governi locali dal 2010 allo scorso anno l’aumento del passivo è stato del 67%: da 10.700 a 17.900 miliardi di renminbi (2.150 miliardi di euro).
Circa un anno e mezzo fa la Banca centrale si è accorta che la bolla del credito stava diventando pericolosa, quindi ha iniziato a chiudere i rubinetti. Imprese e governi locali – che sì hanno investito, ma non sanno quando questi investimenti daranno un profitto – non avevano in cassa i soldi per pagare i loro debiti. Così si sono arrangiati rivolgendosi alle banche ombra. Chiedere prestiti per rimborsare prestiti: un metodo da manuale per avviare una crisi finanziaria. Nelle ultime settimane Pechino si è mossa per arginare il guaio. È emerso nei giorni scorsi il documento numero 107 distribuito a dicembre dal Consiglio di Stato ai legislatori e alle autorità di controllo: impone una severissima stretta al credito che arriva da soggetti non bancari.
Con nuove regole la Cina potrà limitare i danni futuri, ma già quest’anno la Repubblica Popolare vedrà le prime conseguenze degli errori del passato. Bloomberg calcola che nel 2014 le aziende cinesi devono rimborsare prestiti alle banche per 2.600 renminbi (oltre 300 miliardi di euro). È il 20% in più rispetto al 2013 e secondo l’agenzia americana nel 2014 c’è un’alta probabilità di vedere le prime grandi insolvenze dei colossi di Pechino. Il governo centrale potrà intervenire sulle sue banche per costringerle a concedere nuovo credito e quindi evitare i default.
Ma dovrà fare qualcosa anche per evitare insolvenze verso il sistema senza regole delle banche ombra, che attende nei prossimi mesi rimborsi di prestiti stimati in altri 10mila miliardi di renminbi (1.200 miliardi di euro). È una cifra di poco inferiore al Pil della Spagna. La Banca centrale cinese potrebbe essere costretta a usare una bella fetta delle sue enormi riserve valutarie (nei forzieri di Pechino ci sono titoli per un valore, in euro, di circa 2.500 miliardi) ma non sono soldi che si possono sbloccare, e sacrificare, facilmente. L’insidia all’orizzonte è abbastanza grande da mandare in crisi anche il gigante asiatico. E con lui – inevitabilmente – il resto del mondo.
da Avvenire
giovedì 2 gennaio 2014
La chiusura del contratto di AgustaWestland in India
AgustaWestland ha definitivamente perso la commessa per dodici elicotteri AW101 da vendere al governo indiano. Il ministero della Difesa di Nuova Delhi ha annunciato ieri che il contratto firmato nel 2010 con la società italo-britannica controllata da Finmeccanica è «terminato con effetto immediato» sulla base della violazione del patto di integrità.La decisione non è stata una sorpresa: il contratto degli elicotteri usati per portare in sicurezza alte cariche dello Stato era in bilico da febbraio, 'congelato' dopo che la polizia italiana aveva arrestato con l’accusa di corruzione internazionale Giuseppe Orsi, ex amministratore di AgustaWestland poi diventato presidente e Ad di Finmeccanica, e Bruno Spagnolini, Ad della compagnia aeronautica. Secondo l’accusa, AgustaWestland si è aggiudicata quella commessa da 560 milioni di euro pagando tangenti per 51 milioni. Il processo si sta svolgendo con rito immediato al tribunale di Busto Arsizio e coinvolge, oltre a Orsi e Spagnolini, diversi intermediari che avrebbero gestito l’operazione: l’italoamericano Guido Ralph Haschke, lo svizzero Carlo Gerosa, il francese Christian Michel. Le indagini proseguono anche in India, dove sotto accusa c’è l’ex capo dell’aviazione militare Shashindra Pal Tagy e altre quattordici persone, tra funzionari militari e governativi, che avrebbero incassato le mazzette.
Scegliendo di terminare l’accordo invece di cancellarlo, il governo di Nuova Delhi limita le conseguenze della sua decisione. Terrà i tre elicotteri già consegnati e chiederà indietro una parte dei pagamenti già effettuati, che valgono circa il 45% del valore del contratto.Per la società italo-americana le novità non sono però tutte negative. AgustaWestland aveva chiesto ripetutamente alle autorità indiane di potere ricorrere a un arbitrato per trattare una soluzione consensuale della vicenda. Il governo di New Delhi ha rifiutato e anche ieri ha confermato di ritenere che le violazioni dei patti di integrità non possano essere discusse attraverso un arbitrato. Tuttavia, dato che la società di Finmeccanica ha insistito e a novembre è arrivata a nominare come suo arbitro Bellur N. Srikrishna, ex giudice della Corte Suprema ed ex presidente dell’Alta Corte del Kerala, l’esecutivo indiano ha provveduto a nominare come suo arbitro B. P. Jeevan Reddy, anch’egli ex giudice della Corte Suprema. La nomina non è una vera e propria accettazione dell’arbitrato, ma è un passo avanti. Secondo le regole indiane le due parti per proseguire adesso dovrebbero nominare assieme un terzo arbitro neutrale.
da Avvenire
Scegliendo di terminare l’accordo invece di cancellarlo, il governo di Nuova Delhi limita le conseguenze della sua decisione. Terrà i tre elicotteri già consegnati e chiederà indietro una parte dei pagamenti già effettuati, che valgono circa il 45% del valore del contratto.Per la società italo-americana le novità non sono però tutte negative. AgustaWestland aveva chiesto ripetutamente alle autorità indiane di potere ricorrere a un arbitrato per trattare una soluzione consensuale della vicenda. Il governo di New Delhi ha rifiutato e anche ieri ha confermato di ritenere che le violazioni dei patti di integrità non possano essere discusse attraverso un arbitrato. Tuttavia, dato che la società di Finmeccanica ha insistito e a novembre è arrivata a nominare come suo arbitro Bellur N. Srikrishna, ex giudice della Corte Suprema ed ex presidente dell’Alta Corte del Kerala, l’esecutivo indiano ha provveduto a nominare come suo arbitro B. P. Jeevan Reddy, anch’egli ex giudice della Corte Suprema. La nomina non è una vera e propria accettazione dell’arbitrato, ma è un passo avanti. Secondo le regole indiane le due parti per proseguire adesso dovrebbero nominare assieme un terzo arbitro neutrale.
da Avvenire
Etichette:
AgustaWestland,
Finmeccanica,
Giuseppe Orsi,
India
Pagare solo 1,75 miliardi per comprarsi la Chrysler
Riuscire a farsi dare un miliardo e mezzo di dollari dagli americani della General Motors per non comprare la Fiat – era l’ormai lontano 2005 – è stato il primo degli incredibili risultati di Sergio Marchionne al Lingotto. Conquistare il 100% della Chrysler pagandola in gran parte con i suoi stessi soldi però sembra un affare anche migliore. Negli Stati Uniti questo manager italiano emigrato in Canada a quattordici anni sa strappare contratti davvero stupefacenti.
Quello annunciato ieri dà diritto alla Fiat di salire dal 58,5 al 100% della Chrysler comprando la quota del 41,5% in mano al Veba, il fondo sanitario del sindacato United Auto Workers (Uaw). L’accordo prevede che al sindacato vadano 3,65 miliardi di dollari. Di questi solo 1,75 saranno sborsati direttamente dalla Fiat. Gli altri 1,9 li metterà Chrysler, che li distribuirà come dividendo straordinario ai suoi soci (cioè la società italiana e il fondo sanitario del sindacato). Il Veba si terrà la sua parte, circa 780 milioni, e in più avrà tutta la parte della Fiat, cioè altri 1,12 miliardi. Il fondo sindacale otterrà poi altri 700 milioni di dollari, in quattro rate da saldare in quattro anni, come "contributo" da parte di Chrysler «a integrazione del vigente contratto collettivo» dell’azienda.
L’intesa chiude una trattativa che negli ultimi mesi sembrava a un passo dal fallimento. Fiat e il sindacato erano andati davanti alla corte del Dalaware perché non erano d’accordo su come fissare il prezzo delle azioni di Chrysler che gli italiani avevano diritto di comprare in base agli accordi del 2009. Il Veba aveva già consegnato alla Sec i primi documenti necessari ad avviare le procedure per quotare a Wall Street quel 25% di Chrysler svincolato dagli accordi con la Fiat. Un modo per mettere sotto pressione Marchionne, spingendolo ad adeguare la sua offerta alle richieste del fondo. La distanza era enorme: secondo le indiscrezioni il sindacato chiedeva 4,3 miliardi, l’azienda ne offriva poco più di 2. A chi gli aveva detto che il Uaw contava di incassare tutti i 5 miliardi di dollari fissati come soglia massima dagli accordi iniziali, Marchionne aveva risposto che «allora dovrebbero comprarsi un biglietto della lotteria».
Hanno incassato poco meno senza svenare il Lingotto. Ieri Marchionne ha definito l’intesa, che sarà finalizzata il 20 gennaio, un momento che «finirà nei libri di storia» della Fiat e della Chrysler, diventate assieme «un costruttore di auto globale». John Elkann, presidente della Fiat, è naturalmente entusiasta: «Aspetto questo giorno sin dal primo momento, sin da quando nel 2009 siamo stati scelti per contribuire alla ricostruzione di Chrysler».
Il progetto di integrazione tra Detroit e Torino è stato il centro dell’attività dei manager della Fiat negli ultimi quattro anni. Con un mercato dell’auto italiano ed europeo ridotto ai minimi termini, le vendite della casa americana sono state indispensabili per dare una prospettiva all’azienda degli Agnelli. Senza gli utili arrivati dall’altra sponda dell’oceano Atlantico, oggi la Fiat rischierebbe di essere un altro costruttore automobili europeo soffocato dalla crisi, come la disastrata Peugeot-Citroën che sta chiedendo aiuto ai cinesi. Invece il Lingotto inaugura il 2014 trasformandosi realmente un colosso italo-americano. Quanto sarà "italiano" e quanto "americano" lo si scoprirà nei prossimi mesi. Ma si sa che a Marchionne le cose migliori sono sempre riuscite nei dintorni di Detroit.
da Avvenire
Quello annunciato ieri dà diritto alla Fiat di salire dal 58,5 al 100% della Chrysler comprando la quota del 41,5% in mano al Veba, il fondo sanitario del sindacato United Auto Workers (Uaw). L’accordo prevede che al sindacato vadano 3,65 miliardi di dollari. Di questi solo 1,75 saranno sborsati direttamente dalla Fiat. Gli altri 1,9 li metterà Chrysler, che li distribuirà come dividendo straordinario ai suoi soci (cioè la società italiana e il fondo sanitario del sindacato). Il Veba si terrà la sua parte, circa 780 milioni, e in più avrà tutta la parte della Fiat, cioè altri 1,12 miliardi. Il fondo sindacale otterrà poi altri 700 milioni di dollari, in quattro rate da saldare in quattro anni, come "contributo" da parte di Chrysler «a integrazione del vigente contratto collettivo» dell’azienda.
L’intesa chiude una trattativa che negli ultimi mesi sembrava a un passo dal fallimento. Fiat e il sindacato erano andati davanti alla corte del Dalaware perché non erano d’accordo su come fissare il prezzo delle azioni di Chrysler che gli italiani avevano diritto di comprare in base agli accordi del 2009. Il Veba aveva già consegnato alla Sec i primi documenti necessari ad avviare le procedure per quotare a Wall Street quel 25% di Chrysler svincolato dagli accordi con la Fiat. Un modo per mettere sotto pressione Marchionne, spingendolo ad adeguare la sua offerta alle richieste del fondo. La distanza era enorme: secondo le indiscrezioni il sindacato chiedeva 4,3 miliardi, l’azienda ne offriva poco più di 2. A chi gli aveva detto che il Uaw contava di incassare tutti i 5 miliardi di dollari fissati come soglia massima dagli accordi iniziali, Marchionne aveva risposto che «allora dovrebbero comprarsi un biglietto della lotteria».
Hanno incassato poco meno senza svenare il Lingotto. Ieri Marchionne ha definito l’intesa, che sarà finalizzata il 20 gennaio, un momento che «finirà nei libri di storia» della Fiat e della Chrysler, diventate assieme «un costruttore di auto globale». John Elkann, presidente della Fiat, è naturalmente entusiasta: «Aspetto questo giorno sin dal primo momento, sin da quando nel 2009 siamo stati scelti per contribuire alla ricostruzione di Chrysler».
Il progetto di integrazione tra Detroit e Torino è stato il centro dell’attività dei manager della Fiat negli ultimi quattro anni. Con un mercato dell’auto italiano ed europeo ridotto ai minimi termini, le vendite della casa americana sono state indispensabili per dare una prospettiva all’azienda degli Agnelli. Senza gli utili arrivati dall’altra sponda dell’oceano Atlantico, oggi la Fiat rischierebbe di essere un altro costruttore automobili europeo soffocato dalla crisi, come la disastrata Peugeot-Citroën che sta chiedendo aiuto ai cinesi. Invece il Lingotto inaugura il 2014 trasformandosi realmente un colosso italo-americano. Quanto sarà "italiano" e quanto "americano" lo si scoprirà nei prossimi mesi. Ma si sa che a Marchionne le cose migliori sono sempre riuscite nei dintorni di Detroit.
da Avvenire
venerdì 20 dicembre 2013
Gli anni di Bernanke alla Federal Reserve
Il vecchio Richard Shelby, storico senatore dell’Alabama, glielo aveva detto. Lo aveva avvertito precisamente il 15 novembre 2005, quando Ben Shalom Bernanke si era presentato in Senato per ottenere la conferma della nomina alla guida della Federal Reserve avuta qualche mese prima dal presidente George W. Bush. «Spero che non debba avere a che fare con una crisi da gestire, ma so che le capiterà» aveva detto Shelby introducendo una domanda sulle capacità della Fed di reagire a una crisi. Bernanke aveva risposto di avere fiducia negli strumenti a disposizione della Banca centrale americana. «E farò sicuramente del mio meglio – aveva promesso – per essere preparato a qualsiasi cosa possa incontrare lungo la mia strada. Ma credo che siano stati fatti progressi nel rafforzare il sistema per resistere meglio davanti agli choc».
O Shelby è un gran menagramo o un vero indovino, perché la crisi che aveva pronosticato è arrivata ed è stata gigantesca. Bernanke si era detto pronto a tutto ed è stato servito. Questo geniale ebreo americano della Georgia, nipote di un immigrato polacco e figlio di un farmacista e di una maestra, si è trovato a dovere gestire: il collasso del sistema finanziario americano e forse mondiale, una clamorosa caduta del Pil degli Stati Uniti, l’incapacità di rialzarsi dell’economia globale. È entrato in carica nel febbraio del 2006 e un anno dopo sono arrivati i primi scricchiolii dai mutui subprime.Nell’estate del 2008 la crisi dell’immobiliare americano era già enorme. Il 15 settembre falliva Lehman Brothers e la finanza mondiale finiva nel panico. Bernanke spiegherà che la Fed sarebbe anche intervenuta, ma il Tesoro non poteva salvare Lehman con soldi pubblici e il Congresso si sarebbe probabilmente opposto. Insomma, se lasciare fallire Lehman Brothers è stata una colpa – e questo è tutt’altro che scontato – comunque è una colpa che Bernanke condivide con molti altri.
Più 'sua' è la responsabilità – e anche su questa solo la storia dirà se ha fatto bene o male – di avere tentato di spingere la ripresa guidando la Fed con un’audacia mai vista. Bernanke non si è limitato ad azzerare il costo del denaro (ha ereditato tassi al 4,5% ha provato a portarli sopra il 5% ma ha finito per ridurli bruscamente fino all’attuale 0-0,25%, fissato a fine 2008) ma ha anche usato i soldi potenzialmente illimitati della Fed per gonfiare il Pil degli Stati Uniti. Nel novembre del 2008 la Banca centrale ha avviato il primo quantitative easing ,un piano per rendere ancora più abbondante la disponibilità di denaro non solo usando i tassi ma anche la creazione di moneta. La Fed ha iniziato a comprare miliardi e miliardi di titoli legati ai mutui e obbligazioni del Tesoro. Si è fermata dopo un anno e mezzo di tempo e 1.300 miliardi di spesa, quando sembrava che la ripresa fosse abbastanza forte da resistere senza aiuti. Ma non era vero, e Bernanke – nel frattempo confermato da Barack Obama – è stata costretto a riprendere lo shopping dopo pochi mesi. Il secondo piano diquantitative easing è durato altri sei mesi ed è costato altri 600 miliardi alla Federal Reserve. Anche questa operazione non è stata sufficiente. Nel settembre del 2012 Bernanke ha annunciato che la Fed si sarebbe messa a comprare ogni mese titoli legati ai mutui per 40 miliardi di dollari e a dicembre ha alzato il tiro fino a 85 miliardi. Gli acquisti, ha spiegato la Fed, sarebbero andati avanti finché la ripresa non fosse stata solida. E per ripresa solida, ha chiarito Bernanke, si intende con una disoccupazione al 6,5%. Il tasso oggi è al 7% e il bilancio della Fed in sette anni è cresciuto da 800 miliardi a 4mila miliardi di dollari. Sugli effetti positivi o meno del quantitative easing è aperto il dibattito tra i massimi economisti del mondo. Quelli sondati dal Wall Street Journal si sono divisi equamente tra sostenitori e critici. Dai giornalisti Bernanke sarà ricordato anche come il governatore che ha 'inventato' la conferenza stampa per annunciare le decisioni della Fed. Quella dell’aprile del 2011 è stata la prima nel secolo di storia della banca centrale americana. Quella di ieri è stata l’ultima con Bernanke come protagonista. Se al debutto era stato avarissimo di notizie, all’addio ha regalato ai cronisti l’inizio del tapering. Quasi una galanteria, per evitare che toccasse a Janet Yellen, che da gennaio lo sostituirà alla guida della Fed, l’onere di dare la prima – indispensabile – frenata.
da Avvenire
martedì 17 dicembre 2013
Le tasse scontate per la rivalutazione della Banca d'Italia
Il controverso decreto legge che riforma la Banca d’Italia, in discussione in questi giorni al Senato, non precisa quante tasse dovranno pagare i soci della nostra Banca centrale sui profitti che otterranno. Non è una variabile da poco. La riforma rivaluta le quote della Banca d’Italia di 50mila volte, portandone il valore complessivo da 156mila a 7,5 miliardi di euro. In questo modo il decreto genera dal nulla un profitto enorme per quelle banche private che hanno ereditato dal loro passato di istituti di credito statali il possesso del 95% delle quote della Banca centrale, e che adesso possono venderle o tenerle per migliorare i loro bilanci. L’assenza di chiarezza sulla tassazione di questa generosa rivalutazione era stata segnalata anche come un problema nell’audizione in Senato di Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, e Giovanni Sabatini, presidente dell’Associazione bancaria.
Il governo ha provveduto intervenendo sulla legge di Stabilità. Un emendamento introdotto dall’esecutivo al comma 91 della finanziaria stabilisce che su quei 7,5 miliardi di rivalutazione i soci della Banca d’Italia pagheranno un’aliquota del 12%, sostitutiva dell’Ires, dell’Irap e di eventuali altre addizionali. Il versamento sarà in tre rate, senza interessi, di cui la prima nella prossima primavera.
È un trattamento molto favorevole per le banche che hanno quote nella Banca centrale (a partire da Intesa Sanpaolo, UniCredit e Generali, che assieme controllano il 71%). Se su quei 7,5 miliardi di profitti avessero dovuto pagarci l’Ires, l’imposta sui redditi delle imprese, l’aliquota sarebbe stata più che doppia (al 27,5%) in condizioni normali e addirittura tripla l’anno prossimo, considerato che per il 2014 l’Ires su banche e assicurazioni subirà un’addizionale di altri 8,5 punti percentuali. Per l’Erario si parlerebbe di un incasso di oltre due miliardi e mezzo di euro.
Invece, se l’emendamento passerà, lo Stato dovrà accontentarsi di incassare 900 milioni di euro. Poco, considerato che fino ai giorni scorsi si parlava di un gettito superiore al miliardo da ottenere attraverso un’imposta compresa tra il 16 e il 20%. Nel primo caso il gettito sarebbe stato di 1,2 miliardi, nel secondo di 1,5 miliardi. Di questi tempi 600 milioni di euro in più da ottenere su questo mezzo regalo alle banche sarebbero potuti essere molto utili per le casse pubbliche.
Un altro aiuto alle banche arriverà dal possibile ritiro dell’emendamento sulla Tobin Tax. La modifica correggerebbe la tassa sulle transazioni finanziarie, che ha dato risultati molto al di sotto delle aspettative, abbassando l’aliquota (dallo 0,1 allo 0,01%) ma applicando l’imposta a tutte le transazioni finanziarie, escluse quelle sui titoli di Stato. Il testo ha trovato un appoggio trasversale: tutti i capigruppo della Commissione Bilancio della Camera la hanno sostenuta. Ma il governo è contrario e il viceministro dell’Economia, Stefano Fassina, ha chiesto di ritirarla: «L’obiettivo è condiviso, ma la portata dell’operazione è molto rilevante, non è un caso se nessuno Stato nazionale ha fatto questa operazione prima di noi». I sostenitori dell’emendamento, a partire da Luigi Bobba, del Pd, primo firmatario del testo, potrebbero accettare il ritiro a condizione che a gennaio il governo riapra, in Italia e in Europa, il dibattito sulla tassa anti-speculazione.
Il governo ha provveduto intervenendo sulla legge di Stabilità. Un emendamento introdotto dall’esecutivo al comma 91 della finanziaria stabilisce che su quei 7,5 miliardi di rivalutazione i soci della Banca d’Italia pagheranno un’aliquota del 12%, sostitutiva dell’Ires, dell’Irap e di eventuali altre addizionali. Il versamento sarà in tre rate, senza interessi, di cui la prima nella prossima primavera.
È un trattamento molto favorevole per le banche che hanno quote nella Banca centrale (a partire da Intesa Sanpaolo, UniCredit e Generali, che assieme controllano il 71%). Se su quei 7,5 miliardi di profitti avessero dovuto pagarci l’Ires, l’imposta sui redditi delle imprese, l’aliquota sarebbe stata più che doppia (al 27,5%) in condizioni normali e addirittura tripla l’anno prossimo, considerato che per il 2014 l’Ires su banche e assicurazioni subirà un’addizionale di altri 8,5 punti percentuali. Per l’Erario si parlerebbe di un incasso di oltre due miliardi e mezzo di euro.
Invece, se l’emendamento passerà, lo Stato dovrà accontentarsi di incassare 900 milioni di euro. Poco, considerato che fino ai giorni scorsi si parlava di un gettito superiore al miliardo da ottenere attraverso un’imposta compresa tra il 16 e il 20%. Nel primo caso il gettito sarebbe stato di 1,2 miliardi, nel secondo di 1,5 miliardi. Di questi tempi 600 milioni di euro in più da ottenere su questo mezzo regalo alle banche sarebbero potuti essere molto utili per le casse pubbliche.
Un altro aiuto alle banche arriverà dal possibile ritiro dell’emendamento sulla Tobin Tax. La modifica correggerebbe la tassa sulle transazioni finanziarie, che ha dato risultati molto al di sotto delle aspettative, abbassando l’aliquota (dallo 0,1 allo 0,01%) ma applicando l’imposta a tutte le transazioni finanziarie, escluse quelle sui titoli di Stato. Il testo ha trovato un appoggio trasversale: tutti i capigruppo della Commissione Bilancio della Camera la hanno sostenuta. Ma il governo è contrario e il viceministro dell’Economia, Stefano Fassina, ha chiesto di ritirarla: «L’obiettivo è condiviso, ma la portata dell’operazione è molto rilevante, non è un caso se nessuno Stato nazionale ha fatto questa operazione prima di noi». I sostenitori dell’emendamento, a partire da Luigi Bobba, del Pd, primo firmatario del testo, potrebbero accettare il ritiro a condizione che a gennaio il governo riapra, in Italia e in Europa, il dibattito sulla tassa anti-speculazione.
da Avvenire
Etichette:
Abi,
Banca d'Italia,
Bankitalia,
Giovanni Sabatini,
Ignazio Visco,
riforma,
riforma Bankitalia,
riforma della Banca d'Italia,
tassazione,
tobin tax
giovedì 12 dicembre 2013
La riforma della Banca d'Italia. Perché no
La riforma della Banca d’Italia non è uno di quegli argomenti di cui si chiacchiera nei bar. Se proprio devono parlare di politica, gli italiani discutono piuttosto dell’Imu e dei suoi sostituti dai nomi esotici. Ma in questi giorni l’abolizione della tassa sulla casa (almeno nella sua vecchia forma) e la trasformazione della nostra Banca centrale in una public companycondividono lo stesso destino, perché il governo a fine novembre li ha inseriti nel medesimo decreto legge, il numero 133. Un testo che adesso è in discussione in Senato e che, se approvato in via definitiva dal Parlamento, può rendere il nostro Paese un caso unico al mondo: in nessun’altra nazione investitori privati stranieri possono avere una quota di maggioranza della Banca centrale.
Sono pochissime le Banche centrali non interamente di proprietà dello Stato. Soltanto la Federal Reserve americana, istituita un secolo fa, si serve di "banche centrali federate" il cui capitale è sottoscritto da privati. Ma questi privati sono le stesse banche (tutte, senza eccezioni), obbligate a partecipare al capitale se vogliono esercitare il mestiere di istituto di credito. E comunque le banche americane non sono vigilate dalla Fed, ma dal governo, e sono soci simbolici: le azioni non sono trasferibili e somigliano a una sorta di lasciapassare. Invece la Banca d’Italia è scivolata in mani private durante gli anni Novanta, quando le banche statali che ne controllavano il capitale sono state privatizzate.
Così oggi banche e società di assicurazioni italiane controllano il 94,3% delle quote di Bankitalia, gli enti pubblici Inps e Inail hanno il restante 5,7%. Gli azionisti privati della Banca d’Italia naturalmente non possono intervenire in nessun modo sull’attività istituzionale e le scelte di politica monetaria. Ma c’è un motivo se in quasi tutto il mondo la Banca centrale è gestita dallo Stato. Stampando denaro dal nulla in regime di monopolio e impiegandolo in titoli e prestiti alle banche in cambio di un interesse – l’attività di "signoraggio" – ogni istituto centrale incamera degli utili. Per esempio la nostra Banca centrale nel 2012 ha fatto utili per 2,5 miliardi. Soldi che per statuto vengono in parte messi "a riserva", in parte distribuiti allo Stato e in (piccola) parte divisi tra i soci.
Non c’è motivo per cui dei privati debbano guadagnare da un’attività di totale monopolio concesso per legge dallo Stato. Infatti il Parlamento aveva deciso, nel 2005, che i titoli della Banca centrale sarebbero dovuti tornare sotto il controllo pubblico. Soltanto che lo stesso Parlamento non ha mai approvato il regolamento per l’attuazione di questa legge e quindi il ritorno allo Stato della Banca d’Italia non è mai avvenuto.
Sono pochissime le Banche centrali non interamente di proprietà dello Stato. Soltanto la Federal Reserve americana, istituita un secolo fa, si serve di "banche centrali federate" il cui capitale è sottoscritto da privati. Ma questi privati sono le stesse banche (tutte, senza eccezioni), obbligate a partecipare al capitale se vogliono esercitare il mestiere di istituto di credito. E comunque le banche americane non sono vigilate dalla Fed, ma dal governo, e sono soci simbolici: le azioni non sono trasferibili e somigliano a una sorta di lasciapassare. Invece la Banca d’Italia è scivolata in mani private durante gli anni Novanta, quando le banche statali che ne controllavano il capitale sono state privatizzate.
Così oggi banche e società di assicurazioni italiane controllano il 94,3% delle quote di Bankitalia, gli enti pubblici Inps e Inail hanno il restante 5,7%. Gli azionisti privati della Banca d’Italia naturalmente non possono intervenire in nessun modo sull’attività istituzionale e le scelte di politica monetaria. Ma c’è un motivo se in quasi tutto il mondo la Banca centrale è gestita dallo Stato. Stampando denaro dal nulla in regime di monopolio e impiegandolo in titoli e prestiti alle banche in cambio di un interesse – l’attività di "signoraggio" – ogni istituto centrale incamera degli utili. Per esempio la nostra Banca centrale nel 2012 ha fatto utili per 2,5 miliardi. Soldi che per statuto vengono in parte messi "a riserva", in parte distribuiti allo Stato e in (piccola) parte divisi tra i soci.
Non c’è motivo per cui dei privati debbano guadagnare da un’attività di totale monopolio concesso per legge dallo Stato. Infatti il Parlamento aveva deciso, nel 2005, che i titoli della Banca centrale sarebbero dovuti tornare sotto il controllo pubblico. Soltanto che lo stesso Parlamento non ha mai approvato il regolamento per l’attuazione di questa legge e quindi il ritorno allo Stato della Banca d’Italia non è mai avvenuto.
La riforma decisa dal governo il 27 novembre abolisce la legge del 2005 e trasforma la Banca d’Italia in una società a proprietà diffusa (una public company, appunto) in cui nessuno può avere una quota superiore al 5%. Attualmente sono tre le banche che superano quella soglia: Intesa Sanpaolo, UniCredit e Generali, che assieme posseggono il 71% del capitale. Quindi dovrebbero cedere complessivamente il 56%.
Il decreto stabilisce che gli azionisti possono essere banche, fondazioni bancarie, società di assicurazioni, enti di previdenza e fondi pensione. Le norme europee non ammettono in generale discriminazioni all’interno dell’Unione, quindi il governo ha pensato bene di stabilire che questi soci possono venire da qualunque dei ventotto Paesi della Ue. Se gli acquirenti delle quote da cedere fossero nuovi soci stranieri, allora ci ritroveremmo con una Banca d’Italia non più italiana.
Così ad esempio – come ha notato Massimo Mucchetti, l’ex vicedirettore del "Corriere della Sera" eletto senatore con il Pd – può succedere che «all’assemblea annuale di Via Nazionale il delegato di una banca cipriota quotista, magari legato ai servizi segreti russi, possa venire a concionare». Con questo decreto il governo dà un aiuto alle banche azioniste e fa incassare qualcosa all’Erario. La legge aggiorna il valore del capitale della Banca d’Italia, che era rimasto alle lire del 1936 (300 milioni, cioè circa 156mila euro) e lo porta a 7,5 miliardi.
Una manna per le banche azioniste: la loro partecipazione nella Banca centrale si rivaluta di quasi 50mila volte. Il decreto del governo corteggia le banche stabilendo che se rivaluteranno nei loro bilanci le quote della Banca d’Italia che detengono allora avranno conti migliori da presentare aglistress test a cui la Banca centrale europea le sottoporrà il prossimo anno. Un abbellimento che però deve ancora essere approvato dalla Bce. Il governo, invece, tasserà queste rivalutazioni per incassare circa un miliardo (soldi che potrà usare per fare quadrare il bilancio pubblico del prossimo anno).
Tutti contenti, dunque? Non proprio, e difatti la riforma sta incontrando più di un ostacolo in Parlamento e anche a Francoforte, dove la Bce non ha potuto ancora dare il suo parere sulla nuova legge a causa – pare – delle forti perplessità della "solita" Bundesbank: i tedeschi considerano questa rivalutazione delle quote un ingiusto regalo alle banche italiane e sospettano che si tratti di una manipolazione vietata dai principi contabili internazionali con i quali i bilanci debbono essere redatti. Può darsi che abbiano ragione.
«Con la Banca centrale europea stiamo facendo una figura molto meschina» ammette Fulvio Coltorti, economista e direttore emerito dell’area studi di Mediobanca. Assieme ad Alberto Quadrio Curzio, Coltorti ha proposto, già dallo scorso aprile, una soluzione che permetterebbe di fare della Banca d’Italia una leva per la crescita dell’economia nazionale. Il piano, battezzato "Bankoro", dal punto di vista tecnico è abbastanza complesso. Semplifichiamo. I due economisti propongono che il Tesoro costituisca la Bankoro Spa, una società della Banca d’Italia che compri l’oro custodito da via Nazionale, 79 milioni di once che ai prezzi attuali valgono circa 72 miliardi di euro.
Attraverso questa vendita la Banca d’Italia avrebbe un profitto su cui dovrebbe pagare circa 20 miliardi di tasse. Il Tesoro incasserebbe quei soldi e li userebbe per liquidare gli attuali soci non pubblici della Banca d’Italia, diventandone socio per oltre il 90%. I soldi incassati dalle banche private in questa operazione sarebbero utili "realizzati", e quindi validi a tutti gli effetti per aumentare il loro patrimonio, che reggerebbe meglio gli stress test della Bce senza rischiare accuse di manipolazioni. Data la loro origine, tuttavia, questi utili sarebbero vincolati in un fondo che lo Stato non tasserebbe per un certo numero di anni, a patto che impieghi le sue risorse per finanziare gli investimenti di aziende particolarmente dinamiche, capaci quindi di "spingere" la ripresa della nostra economia.
«La nostra proposta – spiega Coltorti – parte dall’idea che l’oro della Banca d’Italia appartiene agli italiani. Rivalutarlo può servire a creare un fondo per finanziare la crescita di un Paese in forte depressione economica». L’economista è andato a vedere quanto altre Banche centrali europee hanno versato ai loro Stati negli ultimi quattordici anni, cioè da quando esiste l’euro, sotto forma di tasse e utili: 26 miliardi la Banque de France, 55 miliardi la Bundesbank, 4,6 miliardi la Banca d’Italia.
Questo non tanto perché i profitti della Banca d’Italia siano stati distribuiti tra i suoi azionisti (le banche hanno avuto 709 milioni in 14 anni) ma soprattutto perché la nostra Banca centrale mette molti dei suoi utili "a riserva", e così ha accumulato un tesoretto enorme, che oggi contiene, oltre all’oro, più di 38 miliardi di euro in titoli di Stato, azioni, quote di fondi. La soluzione "Bankoro" sarebbe un modo perché quei soldi vadano a spingere una ripresa che non c’è e che i più ottimisti prevedono comunque debolissima.
La riforma in discussione in Parlamento – elaborata da un ministro, Fabrizio Saccomanni, che viene proprio dalla Banca d’Italia – va in una direzione molto diversa. Coltorti critica anche gli aspetti tecnici. Non solo l’idea della public company in cui possono entrare degli stranieri. Ma anche la perizia appare «non proprio condotta a regola d’arte»: è firmata da tre periti scelti dalla stessa Banca centrale – l’ex presidente della Corte costituzionale Franco Gallo, l’ex vicepresidente della Bce ed ex primo ministro greco Lucas Papademos e il rettore della Bocconi, Andrea Sironi – e il governo ha poi scelto di adottare il valore massimo della loro stima (che suggeriva una forchetta da 5 a 7,5 miliardi).
L’economista una sua spiegazione su queste scelte se l’è data: «Così stando le cose, la Banca d’Italia dimostra di volersi smarcare dal controllo pubblico facendo mancare al sistema il suo aiuto nella fase peggiore della crisi. Ma i profitti di una Banca centrale nascono sulle spalle dello Stato e ad esso devono tornare. Altrimenti finiscono ad alimentare una corporazione che punta solo a garantirsi la sopravvivenza in mezzo a famiglie e imprese sempre più impoverite. Diciamo sempre che vogliamo abbatterle, le corporazioni, e invece...».
L’economista una sua spiegazione su queste scelte se l’è data: «Così stando le cose, la Banca d’Italia dimostra di volersi smarcare dal controllo pubblico facendo mancare al sistema il suo aiuto nella fase peggiore della crisi. Ma i profitti di una Banca centrale nascono sulle spalle dello Stato e ad esso devono tornare. Altrimenti finiscono ad alimentare una corporazione che punta solo a garantirsi la sopravvivenza in mezzo a famiglie e imprese sempre più impoverite. Diciamo sempre che vogliamo abbatterle, le corporazioni, e invece...».
da Avvenire
mercoledì 11 dicembre 2013
Draghi e Visco rassicuranno Weidmann
In questi anni abbiamo visto le Banche centrali prendere decisioni che sarebbero state impensabili fino a poco tempo fa: hanno azzerato i tassi, allargato spaventosamente i loro bilanci, prestato enormi quantità di denaro alle banche, comprato miliardi di titoli, e non solo titoli di Stato. Sarà ora di fare ordine e chiarire che gli obiettivi, se non il mandato, delle Banche centrali sono cambiati?
Secondo Mario Draghi e Ignazio Visco no, non ce n’è bisogno. L’ex governatore della Banca d’Italia passato alla guida della Banca centrale europea e il suo successore a Palazzo Koch ne hanno parlato a un convegno romano in memoria di Curzio Giannini, economista e grande studioso delle Banche centrali scomparso dieci anni fa. Il tema, per Draghi, era evidentemente insidiosissimo: la Bundesbank, già insofferente per le politiche monetarie aggressive sperimentate a Francoforte, non aspetta altro che nuove occasioni per andare all’attacco. Ma Draghi non ha dato spunti perché il governatore tedesco Jens Weidmann potesse allarmarsi. È partito da una delle idee di Giannini, quella per cui le Banche centrali e il denaro si basano sulla «fiducia», per chiarire che perché i cittadini possano fidarsi, e quindi accettare le scelte di un ente sovranazionale come la Bce, questa non può fare scelte che vanno oltre il suo mandato, che consiste nel mantenere la stabilità dei prezzi. «La fiducia è intimamente collegata con l’agire all’interno del proprio mandato. La Bce sta operando e deve operare solo all’interno del suo mandato» ha assicurato Draghi. Poi, a braccio, ha ricordato che la 'sua' Banca centrale «è potente, è indipendente ma non è eletta» quindi deve rispettare il compito avuto dai legislatori. Il mandato, però, può includere anche misure ardite come il piano salva- Stati Omt o il prestito salva-banche Ltro, che sono «la ricerca della stabilità dei prezzi con tutti i mezzi che la situazione richiede».
Visco, come era prevedibile, non la vede diversamente. «Non c’è bisogno di trasformare la stabilità finanziaria in un obiettivo delle politiche monetarie» ha detto il governatore della Banca d’Italia, «fare della stabilità finanziaria un obiettivo esplicito e supplementare della politica monetaria può creare confusione sulle responsabilità e creare il rischio di conflitti».
Visco, come era prevedibile, non la vede diversamente.
da Avvenire
martedì 26 novembre 2013
La ripresa? Occhio allo shopping di Natale
Attenti agli acquisti, da qui a Natale. Sarà lo shopping delle prossime settimane a dirci se l’economia italiana l’anno prossimo migliorerà in maniera significativa. Parola di Mario Deaglio, uno dei più autorevoli economisti italiani: «Se le cose funzionano dovremo avere un miglioramento lieve già nei consumi natalizi». L’indicazione del professore piemontese (un’indicazione, non una previsione, dato che «nell’economia attuale fare previsioni è molto più difficile rispetto a vent’anni fa») può essere presa come la massima sintesi del più complesso ragionamento contenuto nel Diciottesimo rapporto sull’economia globale e l’Italia, frutto della collaborazione tra il Centro di ricerca Luigi Einaudi e Ubi Banca.
Contano gli acquisti di Natale perché al centro della crisi italiana c’è la paura di spendere. «Le famiglie sono ancora solide dal punto di vista finanziario, ma hanno paura del futuro – spiega Deaglio –. Quindi contraggono i consumi e piuttosto comprano Btp». Ecco che allora «superare la paura di compiere acquisti necessari e già rinviati» è un passaggio fondamentale per fare ripartire la nostra economia, e quindi «è comprensibile che si ragioni sui 200 euro in più o in meno...». L’acquisto non più rimandato può essere il fattore capace di fare girare verso l’alto la curva della crescita italiana. L’alternativa e un lieve recupero e un’immediata stabilizzazione su bassi livelli. Secondo l’analisi del Centro Einaudi, per dare più forza a questa risalita debole attesa per il primo trimestre dell’anno prossimo occorrono poi altri due passaggi: il primo è ricominciare a ragionare per settori, nel senso di decidere su quali punti di forza puntare per i prossimi anni; il secondo è recuperare i soldi pubblici sprecati e usarli per «iniziative produttive». Basterà? No, se l’Europa non ci aiuta e non facciamo le riforme: «All’Eurogruppo a Spagna e Francia hanno avuto più tempo per aggiustare i conti, noi no. Se la Germania su questo fosse più leggera avremmo quei 4-5 miliardi in più che ci aiuterebbero a spingere la ripresa. Se però poi non facciamo le riforme possiamo avere comunque una ripresa, ma una ripresa breve: andiamo a sbattere subito contro un tetto molto basso e dopo 6-8 mesi ci troveremo di nuovo nelle difficoltà di prima, ma senza nessuno disposto a farci credito»
Bisogna proteggere i fili d’erba della ripresa dalla gelata (e infatti Fili d’erba, fili di ripresa è il titolo dello studio del Centro Einaudi). Vale per l’Italia ma anche per gli altri. A partire dalla Francia, dove, secondo Deaglio, «hanno perso il controllo dell’economia ». Non c’è area del mondo che oggi sia al riparo dal rischio di una crisi economia: non gli Stati Uniti, dove lo Stato e i cittadini sono sempre più indebitati (il tasso di insolvenza sui prestiti per l’università, nota l’economista, è allo spaventoso livello del 30%); non la Cina, dove si va verso una società «moderatamente prospera», ma non ricca; non il Giappone, che sta sperimentando politiche monetarie 'kamikaze' per combattere un declino ormai ventennale. La vecchia Europa non sta certo meglio, tra nazioni che cercano di proteggere il loro cortile con misure protezionistiche e movimenti di protesta sociale che combattono la stessa idea di Unione Europea. In questo momento, conclude Deaglio, molto dipende da quello che si deciderà a Berlino: «Sono passati due mesi dalle elezioni e ancora i tedeschi prendono tempo sul nuovo governo. Tengono tutto in sospeso. È pericoloso: se la Germania sbaglia l’Europa è veramente a rischio».
da Avvenire
Contano gli acquisti di Natale perché al centro della crisi italiana c’è la paura di spendere. «Le famiglie sono ancora solide dal punto di vista finanziario, ma hanno paura del futuro – spiega Deaglio –. Quindi contraggono i consumi e piuttosto comprano Btp». Ecco che allora «superare la paura di compiere acquisti necessari e già rinviati» è un passaggio fondamentale per fare ripartire la nostra economia, e quindi «è comprensibile che si ragioni sui 200 euro in più o in meno...». L’acquisto non più rimandato può essere il fattore capace di fare girare verso l’alto la curva della crescita italiana. L’alternativa e un lieve recupero e un’immediata stabilizzazione su bassi livelli. Secondo l’analisi del Centro Einaudi, per dare più forza a questa risalita debole attesa per il primo trimestre dell’anno prossimo occorrono poi altri due passaggi: il primo è ricominciare a ragionare per settori, nel senso di decidere su quali punti di forza puntare per i prossimi anni; il secondo è recuperare i soldi pubblici sprecati e usarli per «iniziative produttive». Basterà? No, se l’Europa non ci aiuta e non facciamo le riforme: «All’Eurogruppo a Spagna e Francia hanno avuto più tempo per aggiustare i conti, noi no. Se la Germania su questo fosse più leggera avremmo quei 4-5 miliardi in più che ci aiuterebbero a spingere la ripresa. Se però poi non facciamo le riforme possiamo avere comunque una ripresa, ma una ripresa breve: andiamo a sbattere subito contro un tetto molto basso e dopo 6-8 mesi ci troveremo di nuovo nelle difficoltà di prima, ma senza nessuno disposto a farci credito»
Bisogna proteggere i fili d’erba della ripresa dalla gelata (e infatti Fili d’erba, fili di ripresa è il titolo dello studio del Centro Einaudi). Vale per l’Italia ma anche per gli altri. A partire dalla Francia, dove, secondo Deaglio, «hanno perso il controllo dell’economia ». Non c’è area del mondo che oggi sia al riparo dal rischio di una crisi economia: non gli Stati Uniti, dove lo Stato e i cittadini sono sempre più indebitati (il tasso di insolvenza sui prestiti per l’università, nota l’economista, è allo spaventoso livello del 30%); non la Cina, dove si va verso una società «moderatamente prospera», ma non ricca; non il Giappone, che sta sperimentando politiche monetarie 'kamikaze' per combattere un declino ormai ventennale. La vecchia Europa non sta certo meglio, tra nazioni che cercano di proteggere il loro cortile con misure protezionistiche e movimenti di protesta sociale che combattono la stessa idea di Unione Europea. In questo momento, conclude Deaglio, molto dipende da quello che si deciderà a Berlino: «Sono passati due mesi dalle elezioni e ancora i tedeschi prendono tempo sul nuovo governo. Tengono tutto in sospeso. È pericoloso: se la Germania sbaglia l’Europa è veramente a rischio».
da Avvenire
giovedì 21 novembre 2013
La Fed che accelera. La Bce che frena
La Federal Reserve continua a spostare in avanti il momento in cui smetterà di spingere l’acceleratore. Martedì sera, alla cena annuale del club americano degli economisti, il presidente Ben Bernanke ha ripercorso le motivazioni dietro le scelte fatte nei suoi otto anni alla guida della Banca centrale. Ha spiegato che la forward guidance, cioè la scelta di dare ai mercati indicazioni a lungo termine sulle strategie della Fed, rappresenta un grande passo avanti verso una politica monetaria più trasparente. Poi ha difeso il quantitative easing : il massiccio acquisto di titoli pubblici e legati ai mutui – ha detto Bernanke – sta servendo a tenere bassi i tassi di breve periodo. Quindi il capo della Fed ha fatto capire che questa strategia andrà avanti ancora a lungo: ci vorrà infatti «un po’ di tempo» prima che la politica monetaria americana torni «alla normalità».
Per Bernanke è stato uno degli ultimi discorsi da banchiere centrale. Oggi la Commissione bancaria del Senato americano confermerà la nomina di Janet Yellen a prendere la guida della Fed dal 1 ° febbraio, uno dei passaggi finali per la conferma definitiva. Con il cambio di presidenza la Fed potrebbe diventare ancora più aggressiva. Rispondendo alle domande di un senatore, Yellen ha sottolineato un concetto che Bernanke ha già ripetuto un paio di volte negli ultimi mesi: le soglie non sono meccanismi automatici. Significa che se la Banca centrale ha detto che i tassi resteranno azzerati almeno finché la disoccupazione non tornerà sotto il 6,5%, non è però detto che al raggiungimento di quell’obiettivo il costo del denaro tornerà a salire. E lo stesso vale per il quarto piano di quantitive easing: non ci sono automatismi che costringeranno al Fed a ridurre gli acquisti di titoli, che da gennaio proseguono al ritmo di 85 miliardi di dollari al mese (anche se alla riunione di ottobre i consiglieri della Fed sono tornati a parlare della possibilità di tagliare lo shopping nei prossimi mesi).
Sono pessime notizie per i rigoristi della Banca centrale europea. Più le altre grandi banche centrali sperimentano politiche ultra-aggressive più sale la pressione perché la Bce faccia altrettanto. Martedì è stata l’Ocse a dare un consiglio, non richiesto, a Mario Draghi: «La Bce deve stare molto attenta – ha scritto l’organizzazione nel suo rapporto sull’economia mondiale – ed essere preparata a usare misure anche non convenzionali per eliminare che i rischi di deflazione diventino permanenti». Simili richiami non lasciano freddi i responsabili della politica monetaria europea. La settimana scorsa Peter Praet, capo economista della Bce, ha spiegato che se Francoforte vedesse a rischio la sua missione «prenderemo tutte le misure che riterremo di dover prendere per svolgere il nostro mandato ». Mentre martedì il portoghese Vitòr Constâncio ha chiarito che quella del quantitative easingeuropeo è «un’opzione, niente di più». Ma è stata una di quelle mezze smentite che si trasformano in conferme. Tanto che Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e leader dei custodi del rigore tedesco all’interno del consiglio della Bce, si è fatto intervistare dallo Zeit per spiegare che l'attuale politica monetaria espansiva è «giustificata» da una prospettiva di inflazione molto bassa e che ora non è il momento di parlare di nuove mosse: «Il consiglio ha appena deciso di tagliare i tassi, dunque non mi sembra sensato mandare immediatamente il messaggio che è pronto a farlo di nuovo».
Eppure già ieri qualcuno da Francoforte ha fatto arrivare all’agenzia Bloomberg una nuova indiscrezione: la Bce starebbe valutando di portare il tasso sui depositi bancari in negativo, allo -0,1%. Sarebbe un altro passo avanti verso una Bce più all’americana.
da Avvenire
Per Bernanke è stato uno degli ultimi discorsi da banchiere centrale. Oggi la Commissione bancaria del Senato americano confermerà la nomina di Janet Yellen a prendere la guida della Fed dal 1 ° febbraio, uno dei passaggi finali per la conferma definitiva. Con il cambio di presidenza la Fed potrebbe diventare ancora più aggressiva. Rispondendo alle domande di un senatore, Yellen ha sottolineato un concetto che Bernanke ha già ripetuto un paio di volte negli ultimi mesi: le soglie non sono meccanismi automatici. Significa che se la Banca centrale ha detto che i tassi resteranno azzerati almeno finché la disoccupazione non tornerà sotto il 6,5%, non è però detto che al raggiungimento di quell’obiettivo il costo del denaro tornerà a salire. E lo stesso vale per il quarto piano di quantitive easing: non ci sono automatismi che costringeranno al Fed a ridurre gli acquisti di titoli, che da gennaio proseguono al ritmo di 85 miliardi di dollari al mese (anche se alla riunione di ottobre i consiglieri della Fed sono tornati a parlare della possibilità di tagliare lo shopping nei prossimi mesi).
Sono pessime notizie per i rigoristi della Banca centrale europea. Più le altre grandi banche centrali sperimentano politiche ultra-aggressive più sale la pressione perché la Bce faccia altrettanto. Martedì è stata l’Ocse a dare un consiglio, non richiesto, a Mario Draghi: «La Bce deve stare molto attenta – ha scritto l’organizzazione nel suo rapporto sull’economia mondiale – ed essere preparata a usare misure anche non convenzionali per eliminare che i rischi di deflazione diventino permanenti». Simili richiami non lasciano freddi i responsabili della politica monetaria europea. La settimana scorsa Peter Praet, capo economista della Bce, ha spiegato che se Francoforte vedesse a rischio la sua missione «prenderemo tutte le misure che riterremo di dover prendere per svolgere il nostro mandato ». Mentre martedì il portoghese Vitòr Constâncio ha chiarito che quella del quantitative easingeuropeo è «un’opzione, niente di più». Ma è stata una di quelle mezze smentite che si trasformano in conferme. Tanto che Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e leader dei custodi del rigore tedesco all’interno del consiglio della Bce, si è fatto intervistare dallo Zeit per spiegare che l'attuale politica monetaria espansiva è «giustificata» da una prospettiva di inflazione molto bassa e che ora non è il momento di parlare di nuove mosse: «Il consiglio ha appena deciso di tagliare i tassi, dunque non mi sembra sensato mandare immediatamente il messaggio che è pronto a farlo di nuovo».
Eppure già ieri qualcuno da Francoforte ha fatto arrivare all’agenzia Bloomberg una nuova indiscrezione: la Bce starebbe valutando di portare il tasso sui depositi bancari in negativo, allo -0,1%. Sarebbe un altro passo avanti verso una Bce più all’americana.
da Avvenire
martedì 19 novembre 2013
Il trio dell'agenda digitale
Dieci anni fa, quando l’Eurostat ha iniziato a raccogliere le statistiche sulla diffusione delle connessioni veloci a Internet, in Europa c’erano un paio di nazioni straordinariamente avanti, una manciata di Paesi innovativi e una larga maggioranza di Stati dove la banda larga non c’era proprio. L’Italia faceva parte dell’ultimo gruppo.
Abbiamo almeno provato a recuperare, all’inizio: nel 2005 la percentuale di famiglie italiane raggiunte da collegamenti veloci era salita al 13%, una quota che ci assegnava il diciottesimo posto in un’Europa dove la banda larga raggiungeva il 23% dei cittadini. Non sarà stato un grande risultato, ma è il migliore che siamo stati capaci di raggiungere. Negli anni successivi ci siamo lasciati sorpassare quasi da tutti e siamo scivolati alle ultimissime posizioni. Gli ultimi dati, quelli del 2012, dicono che con una percentuale di famiglie a banda larga salita al 55% siamo ancora lontani dalla media europea (è al 72%) e siamo più "moderni" solo di Bulgaria, Grecia e Romania. La tecnologia, però, non ci aspetta. Perché in questo decennio si è anche sviluppata la banda ultralarga, con connessioni che vanno almeno a 30 Megabit al secondo, quando non a 100. È in questa tecnologia che l’Italia dà il peggio di sé: la rete superveloce raggiunge il 14% delle nostra famiglie, la media europea è del 53,8%. Siamo ultimissimi in classifica, a 7 punti percentuali di distanza dalla Grecia, penultima, e a 10 dalla Francia, che chiude il terzetto degli "arretrati". In Irlanda, quart’ultima, le famiglie con la banda ultralarga sono il 42,1%.
Ecco perché il lavoro accettato da Francesco Caio, l’ex manager di Omnitel che il governo a giugno ha designato nuovo responsabile dell’Agenda Digitale per l’Italia, è un mestieraccio. Siamo terribilmente indietro e abbiamo pochi soldi da investire per recuperare. Nel testo della legge di Stabilità, per intenderci, continuano ad apparire e scomparire i soldi per completare la diffusione della banda larga nel centro nord. E sono 20 milioni, appena più di niente. Per fortuna che l’Europa ci dovrebbe dare una mano. L’Italia riceverà circa 35 miliardi di euro di fondi strutturali da Bruxelles tra il 2014 e il 2020. Il premier Enrico Letta, alla fine del vertice europeo di fine ottobre che era proprio dedicato all’Agenda Digitale, ha promesso che il 10% di quei fondi sarà investito nello sviluppo della banda larga.
Ieri il presidente del Consiglio, partecipando a una conferenza sull’Italia organizzata a Roma dal Financial Times, ha dato un’accelerata. Ha nominato due esperti internazionali per aiutare Caio ad analizzare lo stato della nostra rete e definire quali investimenti bisognerà fare «perché l’Italia possa essere competitiva». Con l’aiuto dei due esperti – Gerard Pogorel dell’Università ParisTech e Scott Marcus, ex advisor della Federal Communication Commission americana – Caio entro la fine dell’anno consegnerà al governo un rapporto con i risultati dell’indagine. La parte più interessante sarà il conto finale. I tre fisseranno gli investimenti «che qualunque proprietario della rete dovrà raggiungere». Telecom Italia, attuale proprietaria della rete, e Telefonica, suo grande azionista ispanico, sono avvertite.
da Avvenire di oggi
Abbiamo almeno provato a recuperare, all’inizio: nel 2005 la percentuale di famiglie italiane raggiunte da collegamenti veloci era salita al 13%, una quota che ci assegnava il diciottesimo posto in un’Europa dove la banda larga raggiungeva il 23% dei cittadini. Non sarà stato un grande risultato, ma è il migliore che siamo stati capaci di raggiungere. Negli anni successivi ci siamo lasciati sorpassare quasi da tutti e siamo scivolati alle ultimissime posizioni. Gli ultimi dati, quelli del 2012, dicono che con una percentuale di famiglie a banda larga salita al 55% siamo ancora lontani dalla media europea (è al 72%) e siamo più "moderni" solo di Bulgaria, Grecia e Romania. La tecnologia, però, non ci aspetta. Perché in questo decennio si è anche sviluppata la banda ultralarga, con connessioni che vanno almeno a 30 Megabit al secondo, quando non a 100. È in questa tecnologia che l’Italia dà il peggio di sé: la rete superveloce raggiunge il 14% delle nostra famiglie, la media europea è del 53,8%. Siamo ultimissimi in classifica, a 7 punti percentuali di distanza dalla Grecia, penultima, e a 10 dalla Francia, che chiude il terzetto degli "arretrati". In Irlanda, quart’ultima, le famiglie con la banda ultralarga sono il 42,1%.
Ecco perché il lavoro accettato da Francesco Caio, l’ex manager di Omnitel che il governo a giugno ha designato nuovo responsabile dell’Agenda Digitale per l’Italia, è un mestieraccio. Siamo terribilmente indietro e abbiamo pochi soldi da investire per recuperare. Nel testo della legge di Stabilità, per intenderci, continuano ad apparire e scomparire i soldi per completare la diffusione della banda larga nel centro nord. E sono 20 milioni, appena più di niente. Per fortuna che l’Europa ci dovrebbe dare una mano. L’Italia riceverà circa 35 miliardi di euro di fondi strutturali da Bruxelles tra il 2014 e il 2020. Il premier Enrico Letta, alla fine del vertice europeo di fine ottobre che era proprio dedicato all’Agenda Digitale, ha promesso che il 10% di quei fondi sarà investito nello sviluppo della banda larga.
Ieri il presidente del Consiglio, partecipando a una conferenza sull’Italia organizzata a Roma dal Financial Times, ha dato un’accelerata. Ha nominato due esperti internazionali per aiutare Caio ad analizzare lo stato della nostra rete e definire quali investimenti bisognerà fare «perché l’Italia possa essere competitiva». Con l’aiuto dei due esperti – Gerard Pogorel dell’Università ParisTech e Scott Marcus, ex advisor della Federal Communication Commission americana – Caio entro la fine dell’anno consegnerà al governo un rapporto con i risultati dell’indagine. La parte più interessante sarà il conto finale. I tre fisseranno gli investimenti «che qualunque proprietario della rete dovrà raggiungere». Telecom Italia, attuale proprietaria della rete, e Telefonica, suo grande azionista ispanico, sono avvertite.
da Avvenire di oggi
giovedì 31 ottobre 2013
I tassi bassi e le bolle immobiliari
A Londra il prezzo medio delle case in vendita è salito del 10% solo a settembre. La crescita – registrata da Rightmove, primo portale immobiliare inglese – è davvero incredibile: a questi ritmi le quotazioni immobiliari della City raddoppierebbero entro la prossima estate. Ma anche se si guarda il dato del trimestre, meno volatile, si ottiene un dato fenomenale: +5,6%. E non parliamo di proprietari avidi che hanno fissato prezzi stellari facendo fuggire gli acquirenti. Tutt’altro: a Londra le case vanno via con il pane.
Spiega Miles Shipside, direttore del portale: «Alcuni agenti riferiscono che c’è una febbre da acquisto in certe zone del centro di Londra, con una disponibilità di case da comprare così scarsa che spesso loro rimangono senza niente da vendere». Londra non è l’Italia, dove l’immobiliare è in pessima forma, ma non è nemmeno il Regno Unito. Nel senso che fuori dalla capitale l’aumento dei prezzi richiesti c’è ma è un più tranquillo +3,8% (in un anno, non in un mese). In alcune regioni come il Galles o West Midlands le quotazioni sono addirittura in calo, e questo nonostante il governo, attraverso il programma “Help to Buy”, aiuti i cittadini a comprare casa.
C’è un motivo. Non sono solo gli inglesi a fare shopping del mattone londinese, ma soprattutto gli oligarchi russi, gli emiri arabi e gli imprenditori cinesi. Tutti in cerca dell’appartamento di lusso tra Chelsea e Notting Hill anche come bene rifugio davanti a un futuro incerto in cui una delle poche certezze è che la City rimarrà la capitale della finanza europea. In questo la bolla immobiliare londinese non è troppo diversa da quella che si sta gonfiando altrove. Per esempio a Shanghai, dove i prezzi delle case nuove – ha scritto Bloomberg – sono saliti del 12% solo in una settimana.
È chiaro che se non vivessimo negli anni dei soldi facili (per chi può averli), cioè quelli in cui le Banche centrali di Stati Uniti, Europa e Giappone tengono i tassi a zero e riversano ogni mese miliardi sul sistema finanziario, mancherebbero i denari che possono spingere la pazza corsa delle quotazioni. Ed è altrettanto chiaro che, in assenza di altra aria finanziaria capace di gonfiare l’immobiliare, queste bolle rischiano di interrompere bruscamente il loro allargamento. Possono anche scoppiare. Sicuramente l’inizio delle “exit strategy” con cui le banche centrali riporteranno la loro politica monetaria a una situazione più normale metterà alla prova molti mercati immobiliari.
Rischia anche la Germania. «I bassi tassi di interesse stanno alimentando la domanda per la proprietà immobiliare» ha scritto la Bundesbank la settimana scorsa. La Banca centrale tedesca è preoccupata perché «i prezzi delle case nelle città tedesche sono saliti così fortemente dal 2010 che una possibile sopravvalutazione non può essere esclusa». Secondo i calcoli dell’istituto centrale nelle città della Germania i prezzi delle case sono superiori del 10% rispetto ai valori che sarebbero giustificati da fattori demografici ed economici.
Nei grandi centri come Berlino, Amburgo o Monaco 'l’esagerazione” delle quotazioni raggiunge il 20%. Pesa anche in questo caso l’investimento che arriva dall’estero, ma è forte soprattutto la componente locale: i tedeschi, tradizionalmente legati all’affitto, da quando i tassi sono azzerati si trovano molti più soldi a disposizione di prima e quindi li investono anche nel mattone.
La formazione di bolle è una delle possibili controindicazioni delle politiche monetarie espansive e non può stupire che sia proprio la Bundesbank a lanciare l’allarme: se c’è una Banca centrale che non si trova a suo agio con le politiche più ardite della Bce di Mario Draghi è sicuramente la vecchia Buba. È un’altra rogna per il banchiere romano.
Le bolle si formano dove l’economia si riprende: infatti mentre il mattone inglese e tedesco si sta rivalutando spaventosamente, quello spagnolo resta in agonia (i prezzi medi sono sotto del 40% rispetto al 2007) e quello italiano è al quarto anno di stallo (il prezzo medio è sceso del 5,9% nel secondo trimestre, terzo peggior risultato nella zona euro). La Bce — che dovrebbe nello stesso tempo favorire con politiche espansive la ripresa della “periferia” d’Europa e proteggere con politiche restrittive la Germania dalla frenesia immobiliare — non può permettersi ancora tanti anni di Unione monetaria a due velocità.
Etichette:
Bce,
berlino,
Bolla Immobiliare,
Fed,
Germania,
londra,
regno unito
mercoledì 30 ottobre 2013
Huawei, le reti cinesi più usate e temute
Davvero anche Pechino può ascoltare le nostre telefonate? Giuliano Tavaroli – ex brigadiere, poi responsabile della sicurezza di Pirelli e quindi di Telecom Italia, grande protagonista dello scandalo del 'dossieraggio' illegale risolto, nel suo caso, con un patteggiamento a 4 anni e mezzo di reclusione – la settimana scorsa lo ha detto esplicitamente in un’intervista al Mattino : «Nessuno ricorda che Telecom acquistava e acquista apparecchiature di rete dalla cinese Huawei, un po’ come mettersi il nemico in casa. Che ci spia da tempo».
Era inevitabile. Emerso lo scandalo della Nsa americana si è aperta la grande caccia mondiale alla spia, e Huawei non poteva sperare di restarne fuori. Se c’è un’azienda sospetta è questo colosso basato a Shenzen, una società da 140mila dipendenti e 27 miliardi di euro di fatturato che quest’anno è diventata il primo gruppo mondiale nelle componenti delle reti di telecomunicazione nonché il terzo maggior produttore di telefonini al mondo. Un anno fa a Washington l’Intelligence Committee della Camera ha dichiarato che le cinesi Huawei e Zte sono una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, quindi ha chiesto di escluderle da ogni collaborazione con il governo e ha sconsigliato alle aziende di fare affari con loro. Sempre per motivi di sicurezza, pochi mesi prima era stata l’Australia a tenere fuori i cinesi dalla gara per la rete a banda larga, e il nuovo governo australiano ha già fatto sapere che confermerà quella decisione. Nel 2010 era stata l’India a scegliere di evitare l’acquisto di apparecchiature dai cinesi, citando sempre motivi di sicurezza. Anche nelle Nazioni con cui ha un rapporto privilegiato, questo colosso è guardato con qualche timore: la sede centrale di Huawei solo qualche giorno fa è stata visitata da George Osbone, il cancelliere dello Scacchiere, e dal 2011 il responsabile per la sicurezza del gruppo è John Suffolk, ex capo dell’ufficio informatico del governo inglese; eppure a luglio l’esecutivo di Cameron ha detto chiaramente che i controlli sul ruolo di Huawei nelle telecomunicazioni in Gran Bretagna sono stati «non sufficientemente robusti».
A inizio settembre Enrico Letta ha ricevuto Sun Yafang, la presidente di Huawei. Dopo l’Inghilterra, l’Italia è il secondo mercato europeo per questa azienda, che qui collabora con tutti i grandi operatori telefonici, ha 700 dipendenti e investirà un miliardo di dollari in cinque anni. I rapporti tra Roma e Shenzen sono «ottimi», assicura Roberto Loiola, l’italiano responsabile di Huawei per tutta l’Europa occidentale. Se le accuse di Tavaroli «non meritano nemmeno un commento, perché la sicurezza è una questione seria», quelle degli Stati Uniti e di altri Paesi secondo Loiola si spiegano con «motivi politici ». E il rapporto con Telecom? «Lavoriamo con Telecom come con altri 500 operatori di telecomunicazioni in tutto il mondo. I problemi di sicurezza delle reti non possono essere visti in un contesto solo nazionale, va analizzata tutta la catena: ci sono i dispositivi, come i telefoni, la rete di accesso, quella di trasporto... è molto complesso. Poi c’è un altro aspetto: temono il fatto che siamo cinesi, ma i nostri componenti sono realizzati in tutto il mondo. Abbiamo calcolato che ci sono meno componenti cinesi nei nostri telefoni che nell’iPhone». Certo, se il fondatore e grande capo di Huawei, Ren Zhengfei, non avesse iniziato la sua carriera lavorando come ingegnere per l’Esercito Popolare di Liberazione forse l’azienda sarebbe guardata con più tranquillità in giro per il mondo. Anche l’assetto di controllo della società è un po’ misterioso. Cathy Meng, figlia di Ren, ha spiegato che suo padre controlla l’1,4% delle azioni, il resto è diviso tra le migliaia di dipendenti. Loiola conferma che è così. In rete però gli appassionati di storie di spionaggio cercano da mesi di recuperare la copia di Cajing Magazine del settembre del 2012: conteneva un’analisi precisa sulla struttura di controllo di Huawei ma ufficiali del governo cinese l’hanno ritirata dalle edicole poche ore dopo la pubblicazione. C’è poi il caso di Shane Todd, a cui il Financial Times ha dedicato un’inchiesta lo scorso febbraio: Todd era un giovane ingegnere americano, lavorava a Singapore su un progetto tra il centro di ricerca governativo Ime e Huawei. Doveva sviluppare un amplificatore basato sul nitrito di gallio, un semiconduttore capace di resistere a temperature estreme usato nell’illuminazione, nelle stazioni telefoniche ma anche in apparecchiature militari, ad esempio come disturbatore di segnali radar. Todd è stato trovato impiccato nel bagno di casa sua una settimana prima del suo rientro negli Stati Uniti. La famiglia del ragazzo sospetta dall’inizio che l’ingegnere sia stato ucciso per evitare che raccontasse alle autorità degli Stati Uniti i dettagli di quel progetto. La corte di Singapore ha chiuso il caso definendolo un suicidio e l’ambasciata americana ha accettato questa conclusione.La sfida globale a colpi di cavi, intercettazioni e modelli di telefonini evidentemente sta dando molto da lavorare ai diplomatici.
da Avvenire
Era inevitabile. Emerso lo scandalo della Nsa americana si è aperta la grande caccia mondiale alla spia, e Huawei non poteva sperare di restarne fuori. Se c’è un’azienda sospetta è questo colosso basato a Shenzen, una società da 140mila dipendenti e 27 miliardi di euro di fatturato che quest’anno è diventata il primo gruppo mondiale nelle componenti delle reti di telecomunicazione nonché il terzo maggior produttore di telefonini al mondo. Un anno fa a Washington l’Intelligence Committee della Camera ha dichiarato che le cinesi Huawei e Zte sono una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, quindi ha chiesto di escluderle da ogni collaborazione con il governo e ha sconsigliato alle aziende di fare affari con loro. Sempre per motivi di sicurezza, pochi mesi prima era stata l’Australia a tenere fuori i cinesi dalla gara per la rete a banda larga, e il nuovo governo australiano ha già fatto sapere che confermerà quella decisione. Nel 2010 era stata l’India a scegliere di evitare l’acquisto di apparecchiature dai cinesi, citando sempre motivi di sicurezza. Anche nelle Nazioni con cui ha un rapporto privilegiato, questo colosso è guardato con qualche timore: la sede centrale di Huawei solo qualche giorno fa è stata visitata da George Osbone, il cancelliere dello Scacchiere, e dal 2011 il responsabile per la sicurezza del gruppo è John Suffolk, ex capo dell’ufficio informatico del governo inglese; eppure a luglio l’esecutivo di Cameron ha detto chiaramente che i controlli sul ruolo di Huawei nelle telecomunicazioni in Gran Bretagna sono stati «non sufficientemente robusti».
A inizio settembre Enrico Letta ha ricevuto Sun Yafang, la presidente di Huawei. Dopo l’Inghilterra, l’Italia è il secondo mercato europeo per questa azienda, che qui collabora con tutti i grandi operatori telefonici, ha 700 dipendenti e investirà un miliardo di dollari in cinque anni. I rapporti tra Roma e Shenzen sono «ottimi», assicura Roberto Loiola, l’italiano responsabile di Huawei per tutta l’Europa occidentale. Se le accuse di Tavaroli «non meritano nemmeno un commento, perché la sicurezza è una questione seria», quelle degli Stati Uniti e di altri Paesi secondo Loiola si spiegano con «motivi politici ». E il rapporto con Telecom? «Lavoriamo con Telecom come con altri 500 operatori di telecomunicazioni in tutto il mondo. I problemi di sicurezza delle reti non possono essere visti in un contesto solo nazionale, va analizzata tutta la catena: ci sono i dispositivi, come i telefoni, la rete di accesso, quella di trasporto... è molto complesso. Poi c’è un altro aspetto: temono il fatto che siamo cinesi, ma i nostri componenti sono realizzati in tutto il mondo. Abbiamo calcolato che ci sono meno componenti cinesi nei nostri telefoni che nell’iPhone». Certo, se il fondatore e grande capo di Huawei, Ren Zhengfei, non avesse iniziato la sua carriera lavorando come ingegnere per l’Esercito Popolare di Liberazione forse l’azienda sarebbe guardata con più tranquillità in giro per il mondo. Anche l’assetto di controllo della società è un po’ misterioso. Cathy Meng, figlia di Ren, ha spiegato che suo padre controlla l’1,4% delle azioni, il resto è diviso tra le migliaia di dipendenti. Loiola conferma che è così. In rete però gli appassionati di storie di spionaggio cercano da mesi di recuperare la copia di Cajing Magazine del settembre del 2012: conteneva un’analisi precisa sulla struttura di controllo di Huawei ma ufficiali del governo cinese l’hanno ritirata dalle edicole poche ore dopo la pubblicazione. C’è poi il caso di Shane Todd, a cui il Financial Times ha dedicato un’inchiesta lo scorso febbraio: Todd era un giovane ingegnere americano, lavorava a Singapore su un progetto tra il centro di ricerca governativo Ime e Huawei. Doveva sviluppare un amplificatore basato sul nitrito di gallio, un semiconduttore capace di resistere a temperature estreme usato nell’illuminazione, nelle stazioni telefoniche ma anche in apparecchiature militari, ad esempio come disturbatore di segnali radar. Todd è stato trovato impiccato nel bagno di casa sua una settimana prima del suo rientro negli Stati Uniti. La famiglia del ragazzo sospetta dall’inizio che l’ingegnere sia stato ucciso per evitare che raccontasse alle autorità degli Stati Uniti i dettagli di quel progetto. La corte di Singapore ha chiuso il caso definendolo un suicidio e l’ambasciata americana ha accettato questa conclusione.La sfida globale a colpi di cavi, intercettazioni e modelli di telefonini evidentemente sta dando molto da lavorare ai diplomatici.
da Avvenire
martedì 22 ottobre 2013
Lo shale gas passa da Londra per conquistare l'Europa
Lo avevano detto che lo shale gas avrebbe cambiato il mondo. Due notizie delle ultime settimane: secondo le rilevazioni di Pira, società americana di consulenza nel campo dell’energia, grazie al gas non convenzionale gli Stati Uniti quest’anno supereranno l’Arabia Saudita per diventare il primo produttore di idrocarburi del pianeta; il cartello dell’Opec – che associa i grandi esportatori di petrolio – ha annunciato che l’anno prossima la Cina potrebbe scavalcare gli Stati Uniti e diventare il primo importare di greggio al mondo. Sono i primi sorpassi storici dell’era dello scisto: lo sviluppo della tecnologia che permette di estrarre il gas e il petrolio intrappolati in rocce di argilla oltre i tre chilometri di profondità ha permesso agli Stati Uniti di emanciparsi gradualmente dalla dipendenza energetica dall’estero, tanto che i produttori di petrolio sono stati costretti a rivolgersi a clienti nuovi. L’evoluzione dello scenario mondiale dell’energia ha evidenti risvolti geopolitici (si potrà più parlare delle guerre americane per il petrolio quando gli Usa non avranno più bisogno di comprare greggio dall’estero? Ed è una prospettiva tranquillizzante quella di un rapporto sempre più forte tra Cina e Iran?) ma anche immediate conseguenze pratiche. Con l’energia che in America costa un terzo rispetto all’Europa ci sono «le aziende petrolchimiche produttrici di piastrelle che ora trasferiscono gli impianti nel Texas» ha avvertito qualche giorno fa Paolo Scaroni, con un chiaro riferimento al recente passaggio del controllo di Marazzi, colosso emiliano delle piastrelle, al fondo texano Mohawk per 1,5 miliardi di dollari. Da mesi l’amministratore delegato dell’Eni sta facendo pressione perché anche l’Europa dia il via libera alle esplorazioni del gas di scisto. È ovvio che per Eni si tratterebbe di un’occasione in più per fare utili, ma è altrettanto evidente – e il caso Marazzi è lì a dimostrarlo – che si tratta soprattutto di una questione di competitività.
L’attività di lobbying di Scaroni e delle multinazionali del petrolio fino ad oggi non ha ottenuto risultati positivi.«Credo che in Europa continentale oggi sia difficile anche solo cercare lo shale gas. In futuro credo sarà più facile perché diventerà una necessità» ha ammesso ieri il manager dell’Eni parlando a Londra a un convegno sul gas non convenzionale. L’anno scorso il Parlamento europeo ha approvato due mozioni in cui chiede regole più stringenti sullo shale gas. Lo stesso Parlamento il 9 di ottobre di quest’anno ha votato una modifica alla direttiva sull’impatto ambientale per estendere l’obbligo di valutare le conseguenze sul territorio anche agli idrocarburi non convenzionali. Il fracking,la tecnica per spaccare gli scisti di argilla e liberare il gas dal sottosuolo, è sicuramente un processo invasivo e non è ancora chiaro se i liquidi pompati in questo processo possano inquinare le falde acquifere. Ma intanto la linea dura sta facendo infuriare quei Paesi dell’Est che, almeno secondo i primi studi, potrebbero avere enormi giacimenti di shale gas. Su tutti la Polonia, che già sta dando lezioni di crescita ai compagni dell’Ue, non è disposta a lasciarsi ostacolare da Bruxelles. Oltre all’opposizione dei legislatori il nuovo gas che sta facendo la fortuna del Nuovo Mondo nel Vecchio Continente incontra spesso l’aperta contestazione della popolazione. Le proteste degli abitanti della piccola e povera Pungesti, villaggio rumeno da 3mila anime, la settimana scorsa hanno costretto alla ritirata la Chevron. I contadini di Pungesti, ha scritto il quotidiano România Libera «non vogliono la prosperità degli americani, perché vivono di agricoltura e le loro acque sarebbero avvelenate».
Ecco che allora lo shale gas sta cercando di aprirsi una via di ingresso in Europa passando dal Regno Unito, sempre capace di restare con un piede nell’Ue e l’altro quasi in America. «Non possiamo perdere l’occasione del fracking » ha scritto ad agosto il premier David Cameron alla popolazione, invitando gli inglesi a non abbandonare la tradizione che vede i britannici all’avanguardia tecnologica nell’energia. Scaroni e gli altri manager dell’oro nero ci contano: «Credo che la Gran Bretagna, che il paese più pragmatico d’Europa, possa mostrare la strada agli altri Paesi europei nello sfruttamento dello shale gas – ha detto ieri l’Ad dell’Eni – . Questa è la mia speranza».
da Avvenire
L’attività di lobbying di Scaroni e delle multinazionali del petrolio fino ad oggi non ha ottenuto risultati positivi.«Credo che in Europa continentale oggi sia difficile anche solo cercare lo shale gas. In futuro credo sarà più facile perché diventerà una necessità» ha ammesso ieri il manager dell’Eni parlando a Londra a un convegno sul gas non convenzionale. L’anno scorso il Parlamento europeo ha approvato due mozioni in cui chiede regole più stringenti sullo shale gas. Lo stesso Parlamento il 9 di ottobre di quest’anno ha votato una modifica alla direttiva sull’impatto ambientale per estendere l’obbligo di valutare le conseguenze sul territorio anche agli idrocarburi non convenzionali. Il fracking,la tecnica per spaccare gli scisti di argilla e liberare il gas dal sottosuolo, è sicuramente un processo invasivo e non è ancora chiaro se i liquidi pompati in questo processo possano inquinare le falde acquifere. Ma intanto la linea dura sta facendo infuriare quei Paesi dell’Est che, almeno secondo i primi studi, potrebbero avere enormi giacimenti di shale gas. Su tutti la Polonia, che già sta dando lezioni di crescita ai compagni dell’Ue, non è disposta a lasciarsi ostacolare da Bruxelles. Oltre all’opposizione dei legislatori il nuovo gas che sta facendo la fortuna del Nuovo Mondo nel Vecchio Continente incontra spesso l’aperta contestazione della popolazione. Le proteste degli abitanti della piccola e povera Pungesti, villaggio rumeno da 3mila anime, la settimana scorsa hanno costretto alla ritirata la Chevron. I contadini di Pungesti, ha scritto il quotidiano România Libera «non vogliono la prosperità degli americani, perché vivono di agricoltura e le loro acque sarebbero avvelenate».
Ecco che allora lo shale gas sta cercando di aprirsi una via di ingresso in Europa passando dal Regno Unito, sempre capace di restare con un piede nell’Ue e l’altro quasi in America. «Non possiamo perdere l’occasione del fracking » ha scritto ad agosto il premier David Cameron alla popolazione, invitando gli inglesi a non abbandonare la tradizione che vede i britannici all’avanguardia tecnologica nell’energia. Scaroni e gli altri manager dell’oro nero ci contano: «Credo che la Gran Bretagna, che il paese più pragmatico d’Europa, possa mostrare la strada agli altri Paesi europei nello sfruttamento dello shale gas – ha detto ieri l’Ad dell’Eni – . Questa è la mia speranza».
da Avvenire
mercoledì 16 ottobre 2013
Banche centrali in un vicolo cieco
Ben Bernanke e Mario Draghi hanno già avuto occasione di ammetterlo: con le strategie monetarie aggressive di questi anni – acquisti di titoli di Stato e non, tassi azzerati, soldi quasi in regalo alle banche – la Federal Reserve e la Banca centrale europea si sono incamminate lungo sentieri inesplorati. Quello che i due banchieri centrali più potenti del mondo non hanno confessato è che non sanno più come tornare indietro.
Quando ha fatto capire che la Fed stava per tagliare la terza fase del suo quantitative easing , e quindi avrebbe ridotto gli 85 miliardi di dollari che da gennaio ogni mese riversa sui mercati, Bernanke ha spaventato gli investitori ed è stato costretto a tornare sui suoi passi prima che i tassi dei titoli del Tesoro andassero fuori controllo. Potrebbe tornare sui suoi passi anche la Bce, che tra dicembre 2011 e febbraio 2012 ha prestato alle banche mille miliardi di euro a un tasso minimo per evitare che il sistema andasse al collasso. La scadenza finale del rimborso si avvicina (il prestito era triennale) ma si è già capito che molte banche non potranno permettersi di sdebitarsi e quindi la Bce sta pensando di aiutarle con un altro prestito. Non è diversa la situazione delle Banche centrali di Giappone e Regno Unito, tanto ardite nelle loro strategie monetarie quanto incerte sui percorsi per ritirarle.
«Una Banca centrale può essere il salvatore del sistema, ma se poi il sistema non si muove, allora il salvatore diventa il peccatore» ha ammesso Lorenzo Bini Smaghi parlando ieri a un convegno milanese in cui il Centro Paolo Baffi della Bocconi ha messo assieme economisti ed ex alti dirigenti delle grandi Banche centrali. «Banchieri centrali: salvatori o peccatori?» ha chiesto l’istituto di ricerca. Bini Smaghi, che fino al dicembre del 2011 era nel direttivo della Bce, ha risposto che per una Banca centrale è molto facile fare il salvatore della situazione («basta comprare quello che i mercati vogliono vendere »), ma a quel punto si sta solo prendendo tempo: se i 'salvati' (cioè banche e governi) non usano la tregua monetaria per tagliare i debiti e fare le riforme allora il salvataggio diventa un danno. È quello che sta avvenendo in Europa. «Ma credo che quando verrà il momento di usare l’Omt – dice Bini Smaghi citando il programma di acquisto di bond con cui Draghi ha calmato drasticamente le paure dei mercati dall’estate del 2012 in poi – allora sarà chiaro che la Bce può aiutare, ma solo se i governi rispettano le sue condizioni». È il punto in cui il 'peccatore' torna ad essere un 'salvatore', ma stavolta molto severo. Questo ruolo toccherà anche a Janet Yellen, l’economista che dal prossimo gennaio prenderà il posto di Bernanke alla guida della Fed e dovrà gestire il ritiro delle misure ultra-espansive varate in questi anni dalla Banca centrale. Al convegno milanese l’americano Kevin Warsh – che nel 2006 stupì il mondo entrando nel board della Fed senza avere nemmeno 36 anni (ne è uscito nel 2011) – ha lavorato anni con Yellen e assicura che è un’economista «straordinariamente preparata ». Ma avverte: «È incredibilmente focalizzata su modelli economici molto recenti che però quest’anno si sono dimostrati deludenti nel prevedere la ripresa americana. Se non funzionassero nemmeno l’anno prossimo, la Fed sarebbe costretta a cambiare strategia ».
Quando ha fatto capire che la Fed stava per tagliare la terza fase del suo quantitative easing , e quindi avrebbe ridotto gli 85 miliardi di dollari che da gennaio ogni mese riversa sui mercati, Bernanke ha spaventato gli investitori ed è stato costretto a tornare sui suoi passi prima che i tassi dei titoli del Tesoro andassero fuori controllo. Potrebbe tornare sui suoi passi anche la Bce, che tra dicembre 2011 e febbraio 2012 ha prestato alle banche mille miliardi di euro a un tasso minimo per evitare che il sistema andasse al collasso. La scadenza finale del rimborso si avvicina (il prestito era triennale) ma si è già capito che molte banche non potranno permettersi di sdebitarsi e quindi la Bce sta pensando di aiutarle con un altro prestito. Non è diversa la situazione delle Banche centrali di Giappone e Regno Unito, tanto ardite nelle loro strategie monetarie quanto incerte sui percorsi per ritirarle.
«Una Banca centrale può essere il salvatore del sistema, ma se poi il sistema non si muove, allora il salvatore diventa il peccatore» ha ammesso Lorenzo Bini Smaghi parlando ieri a un convegno milanese in cui il Centro Paolo Baffi della Bocconi ha messo assieme economisti ed ex alti dirigenti delle grandi Banche centrali. «Banchieri centrali: salvatori o peccatori?» ha chiesto l’istituto di ricerca. Bini Smaghi, che fino al dicembre del 2011 era nel direttivo della Bce, ha risposto che per una Banca centrale è molto facile fare il salvatore della situazione («basta comprare quello che i mercati vogliono vendere »), ma a quel punto si sta solo prendendo tempo: se i 'salvati' (cioè banche e governi) non usano la tregua monetaria per tagliare i debiti e fare le riforme allora il salvataggio diventa un danno. È quello che sta avvenendo in Europa. «Ma credo che quando verrà il momento di usare l’Omt – dice Bini Smaghi citando il programma di acquisto di bond con cui Draghi ha calmato drasticamente le paure dei mercati dall’estate del 2012 in poi – allora sarà chiaro che la Bce può aiutare, ma solo se i governi rispettano le sue condizioni». È il punto in cui il 'peccatore' torna ad essere un 'salvatore', ma stavolta molto severo. Questo ruolo toccherà anche a Janet Yellen, l’economista che dal prossimo gennaio prenderà il posto di Bernanke alla guida della Fed e dovrà gestire il ritiro delle misure ultra-espansive varate in questi anni dalla Banca centrale. Al convegno milanese l’americano Kevin Warsh – che nel 2006 stupì il mondo entrando nel board della Fed senza avere nemmeno 36 anni (ne è uscito nel 2011) – ha lavorato anni con Yellen e assicura che è un’economista «straordinariamente preparata ». Ma avverte: «È incredibilmente focalizzata su modelli economici molto recenti che però quest’anno si sono dimostrati deludenti nel prevedere la ripresa americana. Se non funzionassero nemmeno l’anno prossimo, la Fed sarebbe costretta a cambiare strategia ».
da Avvenire di oggi
giovedì 29 agosto 2013
Il processo alla grande crisi
«C’ è un sacco di gente che sente di avere subìto un torto da Jp Morgan ma non può permettersi di prendersela con un’enorme banca. Non dovrebbe essere così». Ha ragione Leonard Blavatnik, uno che martedì ha ottenuto dal giudice di farsi risarcire 50 milioni di euro dalla banca d’affari americana. Blavatnik è uno dalle spalle abbastanza larghe per prendersela con chi vuole. Ucraino emigrato negli Stati Uniti da ragazzo per studiare prima alla Columbia e poi a Harvard, ha fatto fortuna azzeccando un investimento giusto dopo l’altro e oggi, a 56 anni, ha un conto da 16 miliardi di dollari che ne fa il 44esimo uomo più ricco del mondo. Ha fatto causa a Jp Morgan perché nel 2006 un suo fondo aveva affidato alla banca 1 miliardo di dollari da investire con una strategia “conservativa” e invece i trader hanno puntato forte sui titoli basati sui “subprime”. In due anni gli hanno bruciato 100 milioni. Il miliardario Blavatnik sarà parzialmente rimborsato e sugli ingannati incapaci di difendersi ha ragione davvero; ma se tutte le vittime finanziarie delle scorrettezze che negli anni prima della crisi le banche d’affari americane avevano organizzato per mangiarsi i soldi dei clienti potessero permettersi di chiedere il conto, a Wall Street resterebbe una manciata di superstiti.
Non sarà questa distruzione per via giudiziaria che alcuni si augurano, ma 'il processo alla grande crisi' in America è iniziato e sta più che innervosendo qualche banchiere. Ancora Jp Morgan, la più grande ma anche la più tormentata delle banche d’affari americane. Il giorno dopo la vittoria di Balvatnik è emerso che la Fhfa, l’agenzia che regola il mercato del credito immobiliare Usa, ha chiesto alla banca 6 miliardi di dollari come risarcimento per i titoli basati sui mutui 'subprime' che Jp Morgan ha venduto alle agenzie Fannie Mae e Freddie Mac, poi salvate dallo Stato con un intervento da 42 miliardi. È la richiesta di rimborso più grossa fatta a una banca d’affari per quanto fatto negli anni della crisi. Delle altre 17 banche messe sotto accusa dalla Fhfa tre hanno già accettato di pagare. La svizzera Ubs, l’unica che ha comunicato l’importo della 'sanzione' ha chiuso la vicenda con 885 milioni. Se il parametro sarà lo stesso difficilmente Jp Morgan se la caverà con meno di 5 miliardi.
Vedremo. Nel frattempo un altro processo alla grande crisi si è appena chiuso con un successo dell’accusa. Il 1° agosto la giuria di Manhattan ha giudicato colpevole di 6 dei 7 reati contestati Fabrice Tourre, ex trader di Goldman Sachs. Il caso è esemplare: Tourre per Goldman aveva lavorato alla costruzione di Abacus, un derivato imbottito di altri derivati basati sui mutui che erano stati scelti dal John Paulson. La banca nel 2007 aveva venduto il prodotto ai clienti omettendo un dettaglio non indifferente: Paulson aveva scelto i titoli perché voleva scommetergli contro con il suo 'hedge fund'. Una tipica trovata pre-Lehmann. Lo spericolato finanziere ci ha fatto 1 miliardo di dollari, i clienti della banca hanno perso almeno altrettanto. Lo sconosciuto trentaquatrenne Tourre, in questa storia, ha pagato per tutti. Però via via che le intricate vicende degli anni che hanno portato al crollo mondiale del 2008 si dipanano con l’aiuto dei magistrati americani, anche ai sopravvissuti della crisi viene chiesto conto delle loro scelte. In tribunale, come testimone, potrebbe finirci Ben Bernanke. Maurice 'Hank' Greenberg, ottantottenne fondatore ed ex proprietario del colosso assicurativo Aig, pretende che il capo della Federal Reserve spieghi davanti ai giudici perché nel 2008 decise di salvare Aig togliendone il controllo ai suoi azionisti. Secondo il vecchio Greenberg il banchiere centrale in realtà ha voluto salvare Goldman Sachs, che con il fallimento di Aig avrebbe perso almeno 20 miliardi di dollari. Il giudice ha convocato Bernanke come testimone, ma il governo americano sta facendo di tutto per evitare al governatore uscente questo passaggio in tribunale. Una scelta che certamente non aiuterà a tranquillizzare chi sospetta che in questo grande processo alla crisi Washington abbia ancora qualcosa da nascondere.
da Avvenire
Non sarà questa distruzione per via giudiziaria che alcuni si augurano, ma 'il processo alla grande crisi' in America è iniziato e sta più che innervosendo qualche banchiere. Ancora Jp Morgan, la più grande ma anche la più tormentata delle banche d’affari americane. Il giorno dopo la vittoria di Balvatnik è emerso che la Fhfa, l’agenzia che regola il mercato del credito immobiliare Usa, ha chiesto alla banca 6 miliardi di dollari come risarcimento per i titoli basati sui mutui 'subprime' che Jp Morgan ha venduto alle agenzie Fannie Mae e Freddie Mac, poi salvate dallo Stato con un intervento da 42 miliardi. È la richiesta di rimborso più grossa fatta a una banca d’affari per quanto fatto negli anni della crisi. Delle altre 17 banche messe sotto accusa dalla Fhfa tre hanno già accettato di pagare. La svizzera Ubs, l’unica che ha comunicato l’importo della 'sanzione' ha chiuso la vicenda con 885 milioni. Se il parametro sarà lo stesso difficilmente Jp Morgan se la caverà con meno di 5 miliardi.
Vedremo. Nel frattempo un altro processo alla grande crisi si è appena chiuso con un successo dell’accusa. Il 1° agosto la giuria di Manhattan ha giudicato colpevole di 6 dei 7 reati contestati Fabrice Tourre, ex trader di Goldman Sachs. Il caso è esemplare: Tourre per Goldman aveva lavorato alla costruzione di Abacus, un derivato imbottito di altri derivati basati sui mutui che erano stati scelti dal John Paulson. La banca nel 2007 aveva venduto il prodotto ai clienti omettendo un dettaglio non indifferente: Paulson aveva scelto i titoli perché voleva scommetergli contro con il suo 'hedge fund'. Una tipica trovata pre-Lehmann. Lo spericolato finanziere ci ha fatto 1 miliardo di dollari, i clienti della banca hanno perso almeno altrettanto. Lo sconosciuto trentaquatrenne Tourre, in questa storia, ha pagato per tutti. Però via via che le intricate vicende degli anni che hanno portato al crollo mondiale del 2008 si dipanano con l’aiuto dei magistrati americani, anche ai sopravvissuti della crisi viene chiesto conto delle loro scelte. In tribunale, come testimone, potrebbe finirci Ben Bernanke. Maurice 'Hank' Greenberg, ottantottenne fondatore ed ex proprietario del colosso assicurativo Aig, pretende che il capo della Federal Reserve spieghi davanti ai giudici perché nel 2008 decise di salvare Aig togliendone il controllo ai suoi azionisti. Secondo il vecchio Greenberg il banchiere centrale in realtà ha voluto salvare Goldman Sachs, che con il fallimento di Aig avrebbe perso almeno 20 miliardi di dollari. Il giudice ha convocato Bernanke come testimone, ma il governo americano sta facendo di tutto per evitare al governatore uscente questo passaggio in tribunale. Una scelta che certamente non aiuterà a tranquillizzare chi sospetta che in questo grande processo alla crisi Washington abbia ancora qualcosa da nascondere.
da Avvenire
Etichette:
Aig,
Crisi,
Goldman Sachs,
JPMorgan,
processo alla crisi
lunedì 26 agosto 2013
In Borsa tornano le matricole (ma poco in Italia)
Non sarà l’arrivo di Mossi e Ghisolfi a consolare la Borsa di Hong Kong. Certo, la società basata a Tortona ma con stabilimenti in mezzo mondo è uno dei principali produttori mondiali di polietilene per bottiglie di plastica e imballaggi e ha una dimensione significativa: fattura circa 3 miliardi di dollari e dovrebbe essere valutata poco meno di 2 miliardi. Cifre che farebbero entrare da subito l’impresa di Vittorio Ghisolfi e i figli nel Ftse Mib, l’indice che mette assieme le quaranta società più grosse della piccola Borsa Italiana, ma che non spostano gli equilibri alla piazza di Hong Kong – dove il gruppo ha deciso di quotarsi – che vale quasi dieci volte la nostra. No, Hong Kong non può consolarsi con Mossi e Ghisolfi perché il mercato asiatico dal 2008 al 2011 è stato la maggiore piazza al mondo per i debutti di Borsa ma nel 2012 è scivolato al quarto posto e quest’anno difficilmente riuscirà a fare meglio. Soprattutto, la Borsa di Hong Kong rischia anche di perdersi l’esordio più ricco di tutti.
Quello di Alibaba, gigantesca compagnia cinese del commercio elettronico che gestisce più scambi di Amazon ed eBay messe assieme. Jack Ma, suo fondatore e proprietario, è il più corteggiato dalle Borse mondiali. Se per l’onnipresente Twitter, che sta lavorando per quotarsi a Wall Street, si parla di una valutazione di 10 miliardi di dollari, per Alibaba le stime indicano quotazioni da 70 miliardi. A quei livelli se Ma mettesse sul mercato anche solo un terzo delle azioni il suo debutto varrebbe da solo un quarto del mercato mondiale 2013 delle Ipo, cioè dei collocamenti delle società in Borsa. È comprensibile quindi che Hong Kong – dove Ma aveva quotato Alibaba.com, il suo più interessante sito del commercio online, per poi ricomprarsi tutte le azioni nel 2012 – non voglia farsi sfuggire il prezioso cliente. Però il manager, a quanto pare, starebbe pensando di andare a Wall Street, dove avrebbe la possibilità di suddividere le azioni a seconda dei diritti di voto, così da raccogliere capitali senza rinunciare alla sicurezza delcontrollo del suo gruppo.Il collocamento di Alibaba potrebbe ridare a questo 2013 delle Ipo uno splendore perso nell’ultimo biennio. Non è una questione solo tecnica: quando un numero significativo di società decide di quotarsi in Borsa e quindi andare a raccogliere fondi tra nuovi soci per crescere e allargarsi è anche un segnale importante di ottimismo economico. Nel 2007 l’ottimismo c’era ancora e i nuovi collocamenti avevano portato alle Borse 266 miliardi di dollari di nuovo capitale. È stato il massimo di sempre, poi c’è stata la caduta: solo 85 miliardi le Ipo del 2008, 109 miliardi l’anno dopo. L’illusione della fine della crisiaveva riacceso il mercato nel 2010, un anno in cui la raccolta ha raggiunto i 243 miliardi grazie alle enormi Ipo di Agricoltural Bank of China, Icbc e General Motors. Il ritorno al pessimismo ha caratterizzato altri due anni mediocri: nel 2011 e il 2012 il mercato delle Ipo è rimasto sotto i 100 miliardi.
Quest’anno le cose stanno andando un po’ meglio. Nei primi 7 mesi, secondo i calcoli di Thomson Reuters, attraverso 417 debutti di Borsa sono stati raccolti quasi 80 miliardi di dollari, con un aumento del 14% rispetto allo stesso periodo del 2012. Con Hong Kong in difficoltà, Wall Street regna incontrastata come piazza preferita dalle debuttanti. Ha raccolto 27,6 miliardi con 117 Ipo, ma segna un calo del 10% rispetto all’anno scorso. Aumenta invece addirittura del 310% l’incasso di Tokyo, che ha raccolto 7,7 miliardi e ha ospitato la seconda Ipo più grande dell’anno, quella da 4 miliardi di Suntory Beverage. La prima Ipo è stata brasiliana, con la compagnia assicurativa Bb Seguridade che ha raccolto 5,7 miliardi garantendo alla piazza di Sanpaolo il terzo posto mondiale nella classifica delle Ipo. Una classifica in cui Milano resta indietro. Thomson conta tre Ipo a Piazza Affari in questo 2013, per un incasso di 400 milioni di dollari (+73%). L’unico debutto nostrano veramente rilevante è stato quello di Moleskine. L’azienda delle agendine ha raccolto 269 milioni mettendo sul mercato il 50,2% delle azioni il 3 aprile. Sono passati quasi cinque mesi, la Borsa ha guadagnato il 15% ma il titolo Moleskine ha perso altrettanto. Anche 'affari' come questi aiutano a capire perché le imprese di Tortona vanno a quotarsi nell’Estremo Oriente.
da Avvenire
Etichette:
Alibaba,
HOng Kong,
Ipo,
Mossi e Ghisolfi
giovedì 22 agosto 2013
Il crollo nelle riserve delle banche centrali emergenti
Secondo un'analisi di Morgan Stanley, da maggio le banche centrali dei paesi emergenti hanno perso 81 miliardi di dollari di riserve valutarie per effetto di uscite di capitale o interventi sui mercati valutari. La cifra, che esclude la Cina, è circa il 2% delle riserve di queste banche.
dal Ft
L'incertezza della Fed sull'uscita dal quantitative easing
Ci fosse Esther L. George, alla guida della Federal Reserve, la Banca centrale americana avrebbe probabilmente già smesso di pompare ogni mese 85 miliardi nel sistema finanziario statunitense. Invece alla guida della Fed, almeno fino a gennaio, c’è Ben Bernanke e George, che è la presidente della Federal Reserve di Kansas City, deve accontentarsi di partecipare alle riunioni del comitato direttivo della Banca centrale. Ma lì il 31 luglio questo banchiere del Midwest si è fatta sentire: il suo è stato l’unico voto contrario al comunicato finale con cui Bernanke non diceva con chiarezza quando la Fed avrebbe ridotto o meno il suo flusso di acquisti.
La pubblicazione dei verbali dell’ultima riunione del Federal Open Market Committee non ha aiutato gli investitori a capire meglio quali sono le intenzioni della Banca centrale. Nel testo si ripete che i membri del direttivo sono divisi. Alcuni si aspettano che la crescita economica americana accelererà, altri sono più cauti, i primi sottolineano anche che la disoccupazione sta scendendo rapidamente, i secondi notano che comunque il mercato del lavoro è debole. Gli "ottimisti" ritengono sia già arrivato il momento di smetterla di pompare tanto denaro nel sistema, i 'pessimisti' (che per ora stanno vincendo) chiedono maggiore cautela. Le divisioni, comunque, sono forti. Solo la George è arrivata a votare contro, ma un numero significativo di altri banchieri centrali crede, come lei, che sia arrivato il momento di iniziare a ridurre il flusso di acquisti, che a gennaio è stato allargato da 40 a 85 miliardi di dollari al mese. Sono di più gli altri, però, quelli che «hanno sottolineato l’importanza di essere pazienti». L’unica certezza, almeno ufficiale, è che entro la metà del 2014 l’intera terza fase del 'quantitative easing' dovrà concludersi con l’eliminazione di tutti gli 85 miliardi di spesa mensile. È sulla base di questo scenario che i grandi fondi in queste ultime settimane si stanno riorganizzando: ritirano i soldi investiti nei mercati più rischiosi (ma anche più redditizi) e li spostano verso investimenti più tranquilli. La rupia indiana è scesa a un nuovo minimo storico mentre continuano a precipitare anche le valute di Thailandia, Indonesia, Brasile e Turchia. Ed è figlio dell’incertezza il nervosismo che stiamo vedendo sulle Borse. Ieri, per la terza giornata consecutiva, i mercati europei hanno chiuso in calo, anche se sono stati evitati gli scivoloni pesanti di lunedì e martedì (Milano ha fatto -0,7%). Continua anche la risalita del tasso dei Btp decennali, che sul mercato secondario è salito di 6 centesimi, al 4,37% portandosi a 250 punti di distanza dai Bund tedeschi. Wall Street, come sempre unica grande Borsa aperta quando la Fed ha diffuso il comunicato (alle 20 italiane) era già in ribasso e ha accelerato la discesa (ma sotto l’1%). Gli analisti dicono di aspettarsi a questo punto una piccola riduzione del 'quantitative easing' nella riunione della Fed di metà settembre.
da Avvenire
La pubblicazione dei verbali dell’ultima riunione del Federal Open Market Committee non ha aiutato gli investitori a capire meglio quali sono le intenzioni della Banca centrale. Nel testo si ripete che i membri del direttivo sono divisi. Alcuni si aspettano che la crescita economica americana accelererà, altri sono più cauti, i primi sottolineano anche che la disoccupazione sta scendendo rapidamente, i secondi notano che comunque il mercato del lavoro è debole. Gli "ottimisti" ritengono sia già arrivato il momento di smetterla di pompare tanto denaro nel sistema, i 'pessimisti' (che per ora stanno vincendo) chiedono maggiore cautela. Le divisioni, comunque, sono forti. Solo la George è arrivata a votare contro, ma un numero significativo di altri banchieri centrali crede, come lei, che sia arrivato il momento di iniziare a ridurre il flusso di acquisti, che a gennaio è stato allargato da 40 a 85 miliardi di dollari al mese. Sono di più gli altri, però, quelli che «hanno sottolineato l’importanza di essere pazienti». L’unica certezza, almeno ufficiale, è che entro la metà del 2014 l’intera terza fase del 'quantitative easing' dovrà concludersi con l’eliminazione di tutti gli 85 miliardi di spesa mensile. È sulla base di questo scenario che i grandi fondi in queste ultime settimane si stanno riorganizzando: ritirano i soldi investiti nei mercati più rischiosi (ma anche più redditizi) e li spostano verso investimenti più tranquilli. La rupia indiana è scesa a un nuovo minimo storico mentre continuano a precipitare anche le valute di Thailandia, Indonesia, Brasile e Turchia. Ed è figlio dell’incertezza il nervosismo che stiamo vedendo sulle Borse. Ieri, per la terza giornata consecutiva, i mercati europei hanno chiuso in calo, anche se sono stati evitati gli scivoloni pesanti di lunedì e martedì (Milano ha fatto -0,7%). Continua anche la risalita del tasso dei Btp decennali, che sul mercato secondario è salito di 6 centesimi, al 4,37% portandosi a 250 punti di distanza dai Bund tedeschi. Wall Street, come sempre unica grande Borsa aperta quando la Fed ha diffuso il comunicato (alle 20 italiane) era già in ribasso e ha accelerato la discesa (ma sotto l’1%). Gli analisti dicono di aspettarsi a questo punto una piccola riduzione del 'quantitative easing' nella riunione della Fed di metà settembre.
da Avvenire
sabato 17 agosto 2013
La grande fuga dai titoli Usa
È bastato che Ben Bernanke suggerisse con molta cautela che forse, se l’economia americana continuerà a migliorare, la Federal Reserve nei prossimi mesi potrebbe iniziare a ridurre il suo massiccio rifornimento mensile di denaro fresco al sistema finanziario (sono 85 miliardi di dollari al mese) per provocare una storica sbandata dei titoli di Stato americani. A giugno, ha comunicato nel giorno dell’Assunta il dipartimento del Tesoro, la quantità di titoli di Stato in mani straniere è diminuita di 57 miliardi di dollari, a 5.600 miliardi totali. Non è stato solo il terzo mese consecutivo di uscita degli investitori internazionali dal debito americano: da quando il ministero diffonde le cifre (e sono 36 anni) una fuga dai titoli del Tesoro come quella di giugno non si era mai vista.
A vendere, e questo è ancora più preoccupante per Washington, sono i suoi due maggiori creditori: la Cina, il cui portafoglio di titoli americani si è ridotto da 1.297 a 1.276 miliardi, e il Giappone, che ha tagliato i suoi investimenti a stelle e strisce da 1.103 a 1.083 miliardi. Da soli i due colossi asiatici valgono il 70% delle vendite di titoli del debito pubblico americano. Peggiora ulteriormente lo scenario il fatto che le vendite non siano concentrate solo sui titoli pubblici. Gli investitori internazionali hanno iniziato quella che sembra una fuga da tutti i tipi di titoli statunitensi: le azioni delle imprese (-26,8 miliardi), le loro obbligazioni (-5 miliardi), i titoli delle agenzie governative (-5,2 miliardi).
Non si può dire che questi numeri siano stati una sorpresa per Bernanke. Già sui mercati secondari i titoli del Tesoro avevano scontato subito l’apertura a una possibile riduzione delle politiche ultra-aggressive. Anche a Wall Street le cadute degli indici azionari erano state fragorose. Per fermare l’emorragia (e qualcuno sospetta su pressione governativa), nelle settimane successive il presidente della Fed ha corretto le posizioni della banca centrale, facendo capire che c’è fretta di uscire dal piano di stimolo. I dati di luglio, che saranno diffusi il mese prossimo, mostreranno se il passo indietro avrà riportato gli investitori a puntare sugli Usa. Se i numeri indicassero che la fuga va avanti, per Lawrence Summers e Janet Yellen, i due candidati alla successione di Bernanke alla guida della Fed, si prospetterebbe un debutto da incubo.
da Avvenire
A vendere, e questo è ancora più preoccupante per Washington, sono i suoi due maggiori creditori: la Cina, il cui portafoglio di titoli americani si è ridotto da 1.297 a 1.276 miliardi, e il Giappone, che ha tagliato i suoi investimenti a stelle e strisce da 1.103 a 1.083 miliardi. Da soli i due colossi asiatici valgono il 70% delle vendite di titoli del debito pubblico americano. Peggiora ulteriormente lo scenario il fatto che le vendite non siano concentrate solo sui titoli pubblici. Gli investitori internazionali hanno iniziato quella che sembra una fuga da tutti i tipi di titoli statunitensi: le azioni delle imprese (-26,8 miliardi), le loro obbligazioni (-5 miliardi), i titoli delle agenzie governative (-5,2 miliardi).
Non si può dire che questi numeri siano stati una sorpresa per Bernanke. Già sui mercati secondari i titoli del Tesoro avevano scontato subito l’apertura a una possibile riduzione delle politiche ultra-aggressive. Anche a Wall Street le cadute degli indici azionari erano state fragorose. Per fermare l’emorragia (e qualcuno sospetta su pressione governativa), nelle settimane successive il presidente della Fed ha corretto le posizioni della banca centrale, facendo capire che c’è fretta di uscire dal piano di stimolo. I dati di luglio, che saranno diffusi il mese prossimo, mostreranno se il passo indietro avrà riportato gli investitori a puntare sugli Usa. Se i numeri indicassero che la fuga va avanti, per Lawrence Summers e Janet Yellen, i due candidati alla successione di Bernanke alla guida della Fed, si prospetterebbe un debutto da incubo.
da Avvenire
Iscriviti a:
Commenti (Atom)