Lo avevano detto che lo shale gas avrebbe cambiato il mondo. Due notizie delle ultime settimane: secondo le rilevazioni di Pira, società americana di consulenza nel campo dell’energia, grazie al gas non convenzionale gli Stati Uniti quest’anno supereranno l’Arabia Saudita per diventare il primo produttore di idrocarburi del pianeta; il cartello dell’Opec – che associa i grandi esportatori di petrolio – ha annunciato che l’anno prossima la Cina potrebbe scavalcare gli Stati Uniti e diventare il primo importare di greggio al mondo. Sono i primi sorpassi storici dell’era dello scisto: lo sviluppo della tecnologia che permette di estrarre il gas e il petrolio intrappolati in rocce di argilla oltre i tre chilometri di profondità ha permesso agli Stati Uniti di emanciparsi gradualmente dalla dipendenza energetica dall’estero, tanto che i produttori di petrolio sono stati costretti a rivolgersi a clienti nuovi. L’evoluzione dello scenario mondiale dell’energia ha evidenti risvolti geopolitici (si potrà più parlare delle guerre americane per il petrolio quando gli Usa non avranno più bisogno di comprare greggio dall’estero? Ed è una prospettiva tranquillizzante quella di un rapporto sempre più forte tra Cina e Iran?) ma anche immediate conseguenze pratiche. Con l’energia che in America costa un terzo rispetto all’Europa ci sono «le aziende petrolchimiche produttrici di piastrelle che ora trasferiscono gli impianti nel Texas» ha avvertito qualche giorno fa Paolo Scaroni, con un chiaro riferimento al recente passaggio del controllo di Marazzi, colosso emiliano delle piastrelle, al fondo texano Mohawk per 1,5 miliardi di dollari. Da mesi l’amministratore delegato dell’Eni sta facendo pressione perché anche l’Europa dia il via libera alle esplorazioni del gas di scisto. È ovvio che per Eni si tratterebbe di un’occasione in più per fare utili, ma è altrettanto evidente – e il caso Marazzi è lì a dimostrarlo – che si tratta soprattutto di una questione di competitività.
L’attività di lobbying di Scaroni e delle multinazionali del petrolio fino ad oggi non ha ottenuto risultati positivi.«Credo che in Europa continentale oggi sia difficile anche solo cercare lo shale gas. In futuro credo sarà più facile perché diventerà una necessità» ha ammesso ieri il manager dell’Eni parlando a Londra a un convegno sul gas non convenzionale. L’anno scorso il Parlamento europeo ha approvato due mozioni in cui chiede regole più stringenti sullo shale gas. Lo stesso Parlamento il 9 di ottobre di quest’anno ha votato una modifica alla direttiva sull’impatto ambientale per estendere l’obbligo di valutare le conseguenze sul territorio anche agli idrocarburi non convenzionali. Il fracking,la tecnica per spaccare gli scisti di argilla e liberare il gas dal sottosuolo, è sicuramente un processo invasivo e non è ancora chiaro se i liquidi pompati in questo processo possano inquinare le falde acquifere. Ma intanto la linea dura sta facendo infuriare quei Paesi dell’Est che, almeno secondo i primi studi, potrebbero avere enormi giacimenti di shale gas. Su tutti la Polonia, che già sta dando lezioni di crescita ai compagni dell’Ue, non è disposta a lasciarsi ostacolare da Bruxelles. Oltre all’opposizione dei legislatori il nuovo gas che sta facendo la fortuna del Nuovo Mondo nel Vecchio Continente incontra spesso l’aperta contestazione della popolazione. Le proteste degli abitanti della piccola e povera Pungesti, villaggio rumeno da 3mila anime, la settimana scorsa hanno costretto alla ritirata la Chevron. I contadini di Pungesti, ha scritto il quotidiano România Libera «non vogliono la prosperità degli americani, perché vivono di agricoltura e le loro acque sarebbero avvelenate».
Ecco che allora lo shale gas sta cercando di aprirsi una via di ingresso in Europa passando dal Regno Unito, sempre capace di restare con un piede nell’Ue e l’altro quasi in America. «Non possiamo perdere l’occasione del fracking » ha scritto ad agosto il premier David Cameron alla popolazione, invitando gli inglesi a non abbandonare la tradizione che vede i britannici all’avanguardia tecnologica nell’energia. Scaroni e gli altri manager dell’oro nero ci contano: «Credo che la Gran Bretagna, che il paese più pragmatico d’Europa, possa mostrare la strada agli altri Paesi europei nello sfruttamento dello shale gas – ha detto ieri l’Ad dell’Eni – . Questa è la mia speranza».
da Avvenire
L’attività di lobbying di Scaroni e delle multinazionali del petrolio fino ad oggi non ha ottenuto risultati positivi.«Credo che in Europa continentale oggi sia difficile anche solo cercare lo shale gas. In futuro credo sarà più facile perché diventerà una necessità» ha ammesso ieri il manager dell’Eni parlando a Londra a un convegno sul gas non convenzionale. L’anno scorso il Parlamento europeo ha approvato due mozioni in cui chiede regole più stringenti sullo shale gas. Lo stesso Parlamento il 9 di ottobre di quest’anno ha votato una modifica alla direttiva sull’impatto ambientale per estendere l’obbligo di valutare le conseguenze sul territorio anche agli idrocarburi non convenzionali. Il fracking,la tecnica per spaccare gli scisti di argilla e liberare il gas dal sottosuolo, è sicuramente un processo invasivo e non è ancora chiaro se i liquidi pompati in questo processo possano inquinare le falde acquifere. Ma intanto la linea dura sta facendo infuriare quei Paesi dell’Est che, almeno secondo i primi studi, potrebbero avere enormi giacimenti di shale gas. Su tutti la Polonia, che già sta dando lezioni di crescita ai compagni dell’Ue, non è disposta a lasciarsi ostacolare da Bruxelles. Oltre all’opposizione dei legislatori il nuovo gas che sta facendo la fortuna del Nuovo Mondo nel Vecchio Continente incontra spesso l’aperta contestazione della popolazione. Le proteste degli abitanti della piccola e povera Pungesti, villaggio rumeno da 3mila anime, la settimana scorsa hanno costretto alla ritirata la Chevron. I contadini di Pungesti, ha scritto il quotidiano România Libera «non vogliono la prosperità degli americani, perché vivono di agricoltura e le loro acque sarebbero avvelenate».
Ecco che allora lo shale gas sta cercando di aprirsi una via di ingresso in Europa passando dal Regno Unito, sempre capace di restare con un piede nell’Ue e l’altro quasi in America. «Non possiamo perdere l’occasione del fracking » ha scritto ad agosto il premier David Cameron alla popolazione, invitando gli inglesi a non abbandonare la tradizione che vede i britannici all’avanguardia tecnologica nell’energia. Scaroni e gli altri manager dell’oro nero ci contano: «Credo che la Gran Bretagna, che il paese più pragmatico d’Europa, possa mostrare la strada agli altri Paesi europei nello sfruttamento dello shale gas – ha detto ieri l’Ad dell’Eni – . Questa è la mia speranza».
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