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giovedì 2 gennaio 2014

Pagare solo 1,75 miliardi per comprarsi la Chrysler

Riuscire a farsi dare un miliardo e mezzo di dollari dagli americani della General Motors per non comprare la Fiat – era l’ormai lontano 2005 – è stato il primo degli incredibili risultati di Sergio Marchionne al Lingotto. Conquistare il 100% della Chrysler pagandola in gran parte con i suoi stessi soldi però sembra un affare anche migliore. Negli Stati Uniti questo manager italiano emigrato in Canada a quattordici anni sa strappare contratti davvero stupefacenti.

Quello annunciato ieri dà diritto alla Fiat di salire dal 58,5 al 100% della Chrysler comprando la quota del 41,5% in mano al Veba, il fondo sanitario del sindacato United Auto Workers (Uaw). L’accordo prevede che al sindacato vadano 3,65 miliardi di dollari. Di questi solo 1,75 saranno sborsati direttamente dalla Fiat. Gli altri 1,9 li metterà Chrysler, che li distribuirà come dividendo straordinario ai suoi soci (cioè la società italiana e il fondo sanitario del sindacato). Il Veba si terrà la sua parte, circa 780 milioni, e in più avrà tutta la parte della Fiat, cioè altri 1,12 miliardi. Il fondo sindacale otterrà poi altri 700 milioni di dollari, in quattro rate da saldare in quattro anni, come "contributo" da parte di Chrysler «a integrazione del vigente contratto collettivo» dell’azienda.

L’intesa chiude una trattativa che negli ultimi mesi sembrava a un passo dal fallimento. Fiat e il sindacato erano andati davanti alla corte del Dalaware perché non erano d’accordo su come fissare il prezzo delle azioni di Chrysler che gli italiani avevano diritto di comprare in base agli accordi del 2009. Il Veba aveva già consegnato alla Sec i primi documenti necessari ad avviare le procedure per quotare a Wall Street quel 25% di Chrysler svincolato dagli accordi con la Fiat. Un modo per mettere sotto pressione Marchionne, spingendolo ad adeguare la sua offerta alle richieste del fondo. La distanza era enorme: secondo le indiscrezioni il sindacato chiedeva 4,3 miliardi, l’azienda ne offriva poco più di 2. A chi gli aveva detto che il Uaw contava di incassare tutti i 5 miliardi di dollari fissati come soglia massima dagli accordi iniziali, Marchionne aveva risposto che «allora dovrebbero comprarsi un biglietto della lotteria».

Hanno incassato poco meno senza svenare il Lingotto. Ieri Marchionne ha definito l’intesa, che sarà finalizzata il 20 gennaio, un momento che «finirà nei libri di storia» della Fiat e della Chrysler, diventate assieme «un costruttore di auto globale». John Elkann, presidente della Fiat, è naturalmente entusiasta: «Aspetto questo giorno sin dal primo momento, sin da quando nel 2009 siamo stati scelti per contribuire alla ricostruzione di Chrysler».

Il progetto di integrazione tra Detroit e Torino è stato il centro dell’attività dei manager della Fiat negli ultimi quattro anni. Con un mercato dell’auto italiano ed europeo ridotto ai minimi termini, le vendite della casa americana sono state indispensabili per dare una prospettiva all’azienda degli Agnelli. Senza gli utili arrivati dall’altra sponda dell’oceano Atlantico, oggi la Fiat rischierebbe di essere un altro costruttore automobili europeo soffocato dalla crisi, come la disastrata Peugeot-Citroën che sta chiedendo aiuto ai cinesi. Invece il Lingotto inaugura il 2014 trasformandosi realmente un colosso italo-americano. Quanto sarà "italiano" e quanto "americano" lo si scoprirà nei prossimi mesi. Ma si sa che a Marchionne le cose migliori sono sempre riuscite nei dintorni di Detroit.

da Avvenire

lunedì 11 febbraio 2013

La Dodge Dart (made in Fiat) vende poco


La Dodge Dart, basata sulla Giulietta e prima Chryser derivata da una piattaforma Fiat, non vende bene. Secondo Autodata nel 2012 ne sono state vendute 25.303. Le previsioni indicavano 100 mila immatricolazioni. Chrysler resta conosciuta tra i clienti per le Jeep, i pick up e le auto grosse, convincere i clienti a scegliere le sue auto piccole è più difficile di quanto di pensasse. La Dart costa dai 16 mila dollari in su. Le sue concorrenti sono la Honda Civic (che vende 5 volte tanto) e la Chevrolet Cruze (vende il quadruplo). 

lunedì 30 luglio 2012

"L'auto sconta la crisi"

Cercare un’auto nuova, in questi mesi, può essere un’esperienza gratificante. Costruttori e conces­sionari si svenano pur di riuscire a piazzare qual­che macchina in più, mentre il potenziale acquirente, se la crisi non gli ha svuotato troppo il conto in banca, sco­pre sorpreso di potersi permettere modelli che fino a po­co tempo fa sembravano irraggiungibili. «È un bagno di sangue dei prezzi ed è un bagno di sangue dei margini» ha detto Sergio Marchionne all’International Herald Tri­bune, irritando i rivali di Volkswagen. I tedeschi negano, ma la disperata guerra degli sconti non è un’invenzione del manager della Fiat. «Ci sono troppi marchi in Euro­pa che competono a prezzi irrazionali» ha spiegato Arndt Ellinghorst, analista del settore auto del Crédit Suisse. Secondo i suoi calcoli, il 60% delle macchine europee so­no vendute a prezzi inferiori ai costi di produzione.
Tagliare i prezzi e fare offerte davvero pazzesche è l’uni­co modo per conquistare clienti in un mercato dell’auto europea tornato ai livelli del 1994. È paradossale che tut­to questo avvenga nel momento del boom dell’auto mon­diale. Nel 2012 le immatricolazioni di auto nuove a livel­lo globale potrebbero raggiungere il record degli 80 mi­lioni di unità, ma è tutto merito di Cina, India, Russia e Sudamerica, economie emergenti dove ogni anno spun­tano decine di milioni di persone diventate abbastanza ricche da potersi comprare una macchina, e fabbriche di automobili pronte ad accontentarle. In Europa le vendi­te si fermeranno invece sotto i 13 milioni, 3 in meno ri­spetto all’anno migliore (il 2007) e troppo pochi per fare funzionare le fabbriche, se non quelle di 'lusso' che producono per esportare i veicoli lon­tano dal Vecchio continente.
Secondo uno studio di AlixPartners le fabbriche di auto europee stanno la­vorando al 73% della loro capacità pro­duttiva. In genere, sottolineano gli a­nalisti, la soglia di produttività sotto la quale si lavora in perdita è del 75-80%.
Stanno sopra quella quota Germania e Regno Unito (en­trambi all’85%), ci va vicina la Spagna (70%) mentre le fab­briche di Francia (60%) e Italia (54%) sono lontanissime dalla capacità di produrre profitti. Non aspettatevi una ripresa rapida, ha avvertito AlixPartners: i livelli di ven­dite del 2007 non torneranno prima del 2020. E siccome lavorare in perdita non è un grande affare, diversi co­struttori europei stanno studiando il modo per evitare che la disperata guerra al ribasso li faccia fuori. La soluzione che hanno trovato è semplice e brutale: chiudere le fab­briche più problematiche.
Da quando, a dicembre scorso, Marchionne è stato elet­to presidente dell’associazione europea dei costruttori di automobili, l’Acea, il manager della Fiat ha insistito su un unico punto: ottenere dall’Europa un piano per la ridu­zione della produzione di automobili (con l’allegato, non dichiarato, di aiuti comunitari per gestire la chiusura o la riconversione degli impianti). Non ha ottenuto nulla per­ché il problema della sovracapacità produttiva è soltan­
to di alcune case e, come abbiamo visto, non di quelle tedesche.
Così la selezione naturale tra le fabbriche va avanti di­sordinata e spietata. Le 'vittime', per il momento, sono state quattro. La prima è stata la fabbrica di Anversa, do­ve la General Motors, con il marchio Opel, produceva l’A­stra. Ha chiuso a fine 2010, lasciando a casa gli ultimi 2.600 addetti. La seconda è stata Termini Imerese, dove con circa 2 mila operai la Fiat costruiva la vecchia Lan­cia Y. La fabbrica ha chiuso alla fine dell’anno scorso e la ricerca di nuovi investitori pronti a scommettere sullo stabilimento siciliano procede con mol­te difficoltà. La prossima a chiudere sarà Aulnay, la fabbrica vicina a Parigi che oggi costruisce la Citroën C3 ma che al­l’inizio del 2014 sarà abbandonato dal gruppo Peugeot-Citroën, pronto a col­laborare col governo Hollande per tro­vare una nuova occupazione ai 3.200 o­perai. Nel 2016 arriverà il turno dei te­deschi, che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale non avevano mai vi­sto chiudere una fabbrica di automobili. Capiterà a Bo­chum, lo stabilimento della Opel (3 mila addetti) che og­gi costruisce la Zafira e sperava di aggiudicarsi la nuova Astra. La General Motors, la casa di Detroit che control­la la Opel, ha preferito affidare la futura Astra alla fabbrica inglese di Ellesmere Port e a quella polacca di Gliwice. Bochum sarà chiusa nel 2016.
Non è finita. Gli analisti calcolano che nella necessaria riorganizza­zione
 del settore dell’auto euro­pea ci sono ancora una dozzina di fabbriche di troppo. Marchion­ne ha già chiarito che se le vendite non ripartono sono a rischio altre 2 fabbriche ita­liane su 5. Ford, che usa i suoi impianti al 63%, probabil­mente chiuderà lo stabili­mento inglese di Southampton o quello belga di Genk. Nel se­condo trimestre dell’anno l’a­zienda americana ha fatto 1 mi­liardo di dollari di utili, ma in Europa ha perso 404 milioni e prevede di perderne al­tri 600 da qui a fine anno. L’altra 'Big' di Detroit, Gm, nel Vecchio Continente perde soldi da più di 10 anni. «Ha senso per Gm e Ford continuare a costruire e vendere macchine in Europa?» ha chiesto nel numero di giugno di Automotive News , la rivista di riferimento dell’auto mondiale, il direttore dell’edizione europea, l’i­taliano Come dire: chi è 'straniero' e può tirarsi facilmente fuo­ri dal «bagno di sangue» dell’auto europea farebbe me­glio a non esitare. Gli altri non possono che restare e lot­tare per sopravvivere. Fino all’ultimo sconto.



mio pezzo su Avvenire di sabato