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venerdì 20 dicembre 2013

Gli anni di Bernanke alla Federal Reserve

Il vecchio Richard Shelby, storico senato­re dell’Alabama, glielo aveva detto. Lo a­veva avvertito precisamente il 15 no­vembre 2005, quando Ben Shalom Bernanke si era presentato in Senato per ottenere la conferma della nomina alla guida della Fe­deral Reserve avuta qualche mese prima dal presidente George W. Bush. «Spero che non debba avere a che fare con una crisi da ge­stire, ma so che le capiterà» aveva detto Shelby introducendo una domanda sulle ca­pacità della Fed di reagire a una crisi. Ber­nanke aveva risposto di avere fiducia negli strumenti a disposizione della Banca cen­trale americana. «E farò sicuramente del mio meglio – aveva promesso – per essere pre­parato a qualsiasi cosa possa incontrare lun­go la mia strada. Ma credo che siano stati fat­ti progressi nel rafforzare il sistema per resi­stere meglio davanti agli choc».

O Shelby è un gran menagramo o un vero indovino, perché la crisi che aveva pronosti­cato è arrivata ed è stata gigantesca. Ber­nanke si era detto pronto a tutto ed è stato servito. Questo geniale ebreo americano del­la Georgia, nipote di un immigrato polacco e figlio di un farmacista e di una maestra, si è trovato a dovere gestire: il collasso del si­stema finanziario americano e forse mon­diale, una clamorosa caduta del Pil degli Sta­ti Uniti, l’incapacità di rialzarsi dell’econo­mia globale. È entrato in carica nel febbraio del 2006 e un anno dopo sono arrivati i pri­mi scricchiolii dai mutui subprime.Nell’e­state del 2008 la crisi dell’immobiliare ame­ricano era già enorme. Il 15 settembre falli­va Lehman Brothers e la finanza mondiale finiva nel panico. Bernanke spiegherà che la Fed sarebbe anche intervenuta, ma il Teso­ro non poteva salvare Lehman con soldi pub­blici e il Congresso si sarebbe probabilmen­te opposto. Insomma, se lasciare fallire Leh­man Brothers è stata una colpa – e questo è tutt’altro che scontato – comunque è una colpa che Bernanke condivide con molti al­tri.
Più 'sua' è la responsabilità – e anche su questa solo la storia dirà se ha fatto bene o male – di avere tentato di spingere la ripre­sa guidando la Fed con un’audacia mai vista. Bernanke non si è limitato ad azzerare il co­sto del denaro (ha ereditato tassi al 4,5% ha provato a portarli sopra il 5% ma ha finito per ridurli bruscamente fino all’attuale 0-0,25%, fissato a fine 2008) ma ha anche usa­to i soldi potenzialmente illimitati della Fed per gonfiare il Pil degli Stati Uniti. Nel no­vembre del 2008 la Banca centrale ha avvia­to il primo quantitative easing ,un piano per rendere ancora più abbondante la disponi­bilità di denaro non solo usando i tassi ma anche la creazione di moneta. La Fed ha i­niziato a comprare miliardi e miliardi di ti­toli legati ai mutui e obbligazioni del Tesoro. Si è fermata dopo un anno e mezzo di tem­po e 1.300 miliardi di spesa, quando sem­brava che la ripresa fosse abbastanza forte da resistere senza aiuti. Ma non era vero, e Ber­nanke – nel frattempo confermato da Barack Obama – è stata costretto a riprendere lo shopping dopo pochi mesi. Il secondo pia­no diquantitative easing è durato altri sei mesi ed è costato altri 600 miliardi alla Fe­deral Reserve. Anche questa operazione non è stata sufficiente. Nel settembre del 2012 Bernanke ha annunciato che la Fed si sa­rebbe messa a comprare ogni mese titoli le­gati ai mutui per 40 miliardi di dollari e a di­cembre ha alzato il tiro fino a 85 miliardi. Gli acquisti, ha spiegato la Fed, sarebbero andati avanti finché la ripresa non fosse stata so­lida. E per ripresa solida, ha chiarito Ber­nanke, si intende con una disoccupazione al 6,5%. Il tasso oggi è al 7% e il bilancio del­la Fed in sette anni è cresciuto da 800 mi­liardi a 4mila miliardi di dollari. Sugli effet­ti positivi o meno del quantitative easing è aperto il dibattito tra i massimi economi­sti del mondo. Quelli sondati dal Wall Street Journal si sono divisi equamente tra so­stenitori e critici. Dai giornalisti Bernanke sarà ricordato an­che come il governatore che ha 'inventa­to' la conferenza stampa per annunciare le decisioni della Fed. Quella dell’aprile del 2011 è stata la prima nel secolo di storia della banca centrale americana. Quella di ieri è stata l’ultima con Bernanke come protagonista. Se al debutto era stato ava­rissimo di notizie, all’addio ha regalato ai cronisti l’inizio del tapering. Quasi una galanteria, per evitare che toccasse a Ja­net Yellen, che da gennaio lo sostituirà alla guida della Fed, l’onere di dare la prima – indispensabile – frenata.
da Avvenire

giovedì 31 ottobre 2013

I tassi bassi e le bolle immobiliari

A Londra il prezzo medio delle case in vendita è salito del 10% solo a settem­bre. La crescita – registrata da Rightmo­ve, primo portale immobiliare inglese – è davve­ro incredibile: a questi ritmi le quotazioni im­mobiliari della City raddoppierebbero entro la prossima estate. Ma anche se si guarda il dato del trimestre, meno volatile, si ottiene un dato fe­nomenale: +5,6%. E non parliamo di proprieta­ri avidi che hanno fissato prezzi stellari facendo fuggire gli acquirenti. Tutt’altro: a Londra le ca­se vanno via con il pane.

Spiega Miles Shipside, direttore del portale: «Alcuni agenti riferiscono che c’è una febbre da acquisto in certe zone del centro di Londra, con una disponibilità di case da comprare così scarsa che spesso loro riman­gono senza niente da vendere». Londra non è l’Italia, dove l’immobiliare è in pes­sima forma, ma non è nemmeno il Regno Uni­to. Nel senso che fuori dalla capitale l’aumento dei prezzi richiesti c’è ma è un più tranquillo +3,8% (in un anno, non in un mese). In alcune regioni come il Galles o West Midlands le quota­zioni sono addirittura in calo, e questo nono­stante il governo, attraverso il programma “Help to Buy”, aiuti i cittadini a comprare casa.

C’è un motivo. Non sono solo gli inglesi a fare shopping del mattone londinese, ma soprattutto gli oli­garchi russi, gli emiri arabi e gli imprenditori ci­nesi. Tutti in cerca dell’appartamento di lusso tra Chelsea e Notting Hill anche come bene rifugio davanti a un futuro incerto in cui una delle po­che certezze è che la City rimarrà la capitale del­la finanza europea. In questo la bolla immobiliare londinese non è troppo diversa da quella che si sta gonfiando altrove. Per esempio a Shanghai, dove i prezzi delle case nuove – ha scritto Bloom­berg – sono saliti del 12% solo in una settimana.

È chiaro che se non vivessimo negli anni dei sol­di facili (per chi può averli), cioè quelli in cui le Banche centrali di Stati Uniti, Europa e Giappo­ne tengono i tassi a zero e riversano ogni mese miliardi sul sistema finanziario, mancherebbe­ro i denari che possono spingere la pazza corsa delle quotazioni. Ed è altrettanto chiaro che, in assenza di altra aria finanziaria capace di gonfiare l’immobiliare, queste bolle rischiano di inter­rompere bruscamente il loro allargamento. Pos­sono anche scoppiare. Sicuramente l’inizio del­le “exit strategy” con cui le banche centrali ri­porteranno la loro politica monetaria a una si­tuazione più normale metterà alla prova molti mercati immobiliari.

Rischia anche la Germania. «I bassi tassi di inte­resse stanno alimentando la domanda per la pro­prietà immobiliare» ha scritto la Bundesbank la settimana scorsa. La Banca centrale tedesca è preoccupata perché «i prezzi delle case nelle città tedesche sono saliti così fortemente dal 2010 che una possibile sopravvalutazione non può esse­re esclusa». Secondo i calcoli dell’istituto cen­trale nelle città della Germania i prezzi delle ca­se sono superiori del 10% rispetto ai valori che sarebbero giustificati da fattori demografici ed economici.

Nei grandi centri come Berlino, Am­burgo o Monaco 'l’esagerazione” delle quota­zioni raggiunge il 20%. Pesa anche in questo ca­so l’investimento che arriva dall’estero, ma è for­te soprattutto la componente locale: i tedeschi, tradizionalmente legati all’affitto, da quando i tassi sono azzerati si trovano molti più soldi a di­sposizione di prima e quindi li investono anche nel mattone.

La formazione di bolle è una delle possibili controindicazioni delle politiche mo­netarie espansive e non può stupire che sia pro­prio la Bundesbank a lanciare l’allarme: se c’è u­na Banca centrale che non si trova a suo agio con le politiche più ardite della Bce di Mario Draghi è sicuramente la vecchia Buba. È un’altra rogna per il banchiere romano.

Le bol­le si formano dove l’economia si riprende: in­fatti mentre il mattone inglese e tedesco si sta rivalutando spaventosamente, quello spa­gnolo resta in agonia (i prezzi medi so­no sotto del 40% rispetto al 2007) e quello italiano è al quarto anno di stallo (il prezzo medio è sceso del 5,9% nel secondo trimestre, terzo peggior risultato nella zona euro). La Bce — che dovrebbe nello stesso tempo favorire con poli­tiche espansive la ri­presa della “periferia” d’Europa e protegge­re con politiche re­strittive la Germa­nia dalla frenesia immobiliare — non può permet­tersi ancora tan­ti anni di Unio­ne monetaria a due velocità.
da Avvenire