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martedì 26 novembre 2013

La ripresa? Occhio allo shopping di Natale

Attenti agli acquisti, da qui a Natale. Sarà lo shopping delle pros­sime settimane a dirci se l’e­conomia italiana l’anno pros­simo migliorerà in maniera significativa. Parola di Mario Deaglio, uno dei più autore­voli economisti italiani: «Se le cose funzionano dovremo a­vere un miglioramento lieve già nei consumi natalizi». L’indicazione del professore piemontese (un’indicazione, non una previsione, dato che «nell’economia attuale fare previsioni è molto più diffici­le rispetto a vent’anni fa») può essere presa come la massima sintesi del più com­plesso ragionamento conte­nuto nel Diciottesimo rap­porto sull’economia globale e l’Italia, frutto della collabo­razione tra il Centro di ricer­ca Luigi Einaudi e Ubi Banca.
Contano gli acquisti di Nata­le perché al centro della crisi italiana c’è la paura di spen­dere. «Le famiglie sono anco­ra solide dal punto di vista fi­nanziario, ma hanno paura del futuro – spiega Deaglio –. Quindi contraggono i consu­mi e piuttosto comprano Btp». Ecco che allora «supe­rare la paura di compiere ac­quisti necessari e già rinviati» è un passaggio fondamenta­le per fare ripartire la nostra economia, e quindi «è com­prensibile che si ragioni sui 200 euro in più o in meno...». L’acquisto non più rimanda­to può essere il fattore capa­ce di fare girare verso l’alto la curva della crescita italiana. L’alternativa e un lieve recu­pero e un’immediata stabi­lizzazione su bassi livelli. Se­condo l’analisi del Centro Ei­naudi, per dare più forza a questa risalita debole attesa per il primo trimestre del­l’anno prossimo occorrono poi altri due passaggi: il pri­mo è ricominciare a ragiona­re per settori, nel senso di de­cidere su quali punti di forza puntare per i prossimi anni; il secondo è recuperare i soldi pubblici sprecati e usarli per «iniziative produttive». Ba­sterà? No, se l’Europa non ci aiuta e non facciamo le rifor­me: «All’Eurogruppo a Spa­gna e Francia hanno avuto più tempo per aggiustare i conti, noi no. Se la Germania su questo fosse più leggera a­vremmo quei 4-5 miliardi in più che ci aiuterebbero a spingere la ripresa. Se però poi non facciamo le riforme possiamo avere comunque una ripresa, ma una ripresa breve: andiamo a sbattere su­bito contro un tetto molto basso e dopo 6-8 mesi ci tro­veremo di nuovo nelle diffi­coltà di prima, ma senza nes­suno disposto a farci credito»
 Bisogna proteggere i fili d’er­ba della ripresa dalla gelata (e infatti Fili d’erba, fili di ripre­sa è il titolo dello studio del Centro Einaudi). Vale per l’I­talia ma anche per gli altri. A partire dalla Francia, dove, se­condo Deaglio, «hanno per­so il controllo dell’econo­mia ». Non c’è area del mon­do che oggi sia al riparo dal rischio di una crisi economia: non gli Stati Uniti, dove lo Sta­to e i cittadini sono sempre più indebitati (il tasso di in­solvenza sui prestiti per l’u­niversità, nota l’economista, è allo spaventoso livello del 30%); non la Cina, dove si va verso una società «modera­tamente prospera», ma non ricca; non il Giappone, che sta sperimentando politiche mo­netarie 'kamikaze' per com­battere un declino ormai ven­tennale. La vecchia Europa non sta certo meglio, tra na­zioni che cercano di proteg­gere il loro cortile con misu­re protezionistiche e movi­menti di protesta sociale che combattono la stessa idea di Unione Europea. In questo momento, conclude Deaglio, molto dipende da quello che si deciderà a Berlino: «Sono passati due mesi dalle elezio­ni e ancora i tedeschi pren­dono tempo sul nuovo go­verno. Tengono tutto in so­speso. È pericoloso: se la Ger­mania sbaglia l’Europa è ve­ramente a rischio». 

da Avvenire

sabato 16 marzo 2013

Istituti di credito o istituti di trading?


La Banca centrale europea ce la sta mettendo tutta: tiene il costo del denaro ai minimi storici, finanzia direttamente le banche, compra titoli di Stato e promette che lo farà ancora. Rovescia miliardi di euro sul sistema bancario sperando che i soldi arrivino anche a imprese e famiglie, ma non succede. Nelle economie dell’euro più in difficoltà – come l’Italia e la Spagna – c’è un problema di "trasmissione" della politica monetaria, ammette ormai da mesi Mario Draghi: la massa di denaro a basso costo generata dalla Bce fa bene solo alla casse delle banche, che usano quei soldi per tutti gli scopi possibili (compreso l’acquisto di titoli di Stato, con conseguente e benefica discesa dei tassi) ma non li prestano. Piuttosto se li giocano nelle Borse.
I bilanci 2012 che le tre maggiori banche italiane hanno presentato questa settimana confermano questa situazione. Prendiamo Intesa Sanpaolo, che attraverso le due aste Ltro – quelle con cui la Bce ha prestato alle banche europee mille miliardi al tasso quasi simbolico dell’1% – ha ottenuto 36 miliardi di euro da Francoforte. La banca guidata da Enrico Cucchiani nel 2012 ha ridotto dal 104,7 al 99% il rapporto tra depositi e prestiti: ha incassato 20 miliardi in più dai clienti, e ora ha 380 miliardi di depositi, ma ha tenuto fermi i crediti a 377 miliardi. Nonostante abbia fatto meno "la banca" rispetto a prima, Intesa ha chiuso l’anno passato con il migliore risultato operativo dal 2008: 8 miliardi e 968 milioni. Considerato che il Pil italiano è caduto del 2,4% l’aumento del profitto ottenuto dalla prima banca del Paese è veramente straordinario, soprattutto se si conta anche che le sue due principali voci di entrata sono calate: dagli interessi Intesa ha incassato 9,4 miliardi (-3,6%) e dalle commissioni 5,5 miliardi (-0,3%). A salvare l’utile della banca ci hanno pensato i suoi trader, che sfruttando anche il denaro a basso costo incassato dalla Bce hanno fatto portato profitti da "negoziazione" da 2,2 miliardi, il 130% in più rispetto ai 920 milioni del 2011. Un exploit eccezionale, che resta tale anche se si escludono i 379 milioni di incassi ottenuti attraverso alcune operazioni straordinarie come il riacquisto di debiti o le cessioni delle quote in Prada, Findomestic e London Stock Exchange.
I colleghi di UniCredit, che è la seconda banca d’Italia per capitalizzazione di Borsa, non sono certo rimasti a guardare. La banca ha attinto alle generose aste della Bce per 26 miliardi di euro, ha tagliato i prestiti a famiglie e piccole e medie imprese italiane del 6,3% (a 117 miliardi) e ha compensato con i giochi di Borsa la caduta degli incassi dalle commissioni (-3,2%, a 7,8 miliardi) e dagli interessi (-6,3% a 14,3 miliardi). Le entrate dal trading della banca guidata da Federico Ghizzoni sono passati dagli 1,1 miliardi del 2011 ai 2,3 miliardi dell’anno passato. Senza questa crescita portentosa (è un +110%) l’utile operativo della banca non sarebbe stato di 10 miliardi (+5,1%) ma di 9 scarsi, cioè anche sotto i livelli dell’anno precedente.
Per la più piccola Ubi – che dopo le disavventure di Mps è diventata la terza banca d’Italia per capitalizzazione – la storia del 2012 non è diversa. Anche Ubi non si è tirata indietro davanti all’offerta della Bce, dalla quale ha incassato 12 miliardi, e anche lei ha tagliato drasticamente i prestiti, ridotti dai 99,7 miliardi di fine 2011 ai 92,9 miliardi di dicembre (il rapporto tra depositi e prestiti è calato dal 97 al 94%). L’anno di Ubi si è chiuso un utile operativo di 1,26 miliardi, il 20% in più sul 2011. Merito, anche in questo caso, del trading che ha bilanciato il calo delle entrate da interessi (-7,7%, a 1,86 miliardi) e commissioni (-1%, a 1,18 miliardi). I 257 milioni di euro guadagnati da Ubi con la finanza nel 2012 sarebbero più o meno un 3600% in più rispetto ai soli 7 milioni del 2011. Senza questa strabiliante performance finanziaria il +20% dell’utile operativo 2012 si sarebbe trasformato in un misero -3,8%.
da Avvenire di oggi