Davvero anche Pechino può ascoltare le nostre telefonate? Giuliano Tavaroli – ex brigadiere, poi responsabile della sicurezza di Pirelli e quindi di Telecom Italia, grande protagonista dello scandalo del 'dossieraggio' illegale risolto, nel suo caso, con un patteggiamento a 4 anni e mezzo di reclusione – la settimana scorsa lo ha detto esplicitamente in un’intervista al Mattino : «Nessuno ricorda che Telecom acquistava e acquista apparecchiature di rete dalla cinese Huawei, un po’ come mettersi il nemico in casa. Che ci spia da tempo».
Era inevitabile. Emerso lo scandalo della Nsa americana si è aperta la grande caccia mondiale alla spia, e Huawei non poteva sperare di restarne fuori. Se c’è un’azienda sospetta è questo colosso basato a Shenzen, una società da 140mila dipendenti e 27 miliardi di euro di fatturato che quest’anno è diventata il primo gruppo mondiale nelle componenti delle reti di telecomunicazione nonché il terzo maggior produttore di telefonini al mondo. Un anno fa a Washington l’Intelligence Committee della Camera ha dichiarato che le cinesi Huawei e Zte sono una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, quindi ha chiesto di escluderle da ogni collaborazione con il governo e ha sconsigliato alle aziende di fare affari con loro. Sempre per motivi di sicurezza, pochi mesi prima era stata l’Australia a tenere fuori i cinesi dalla gara per la rete a banda larga, e il nuovo governo australiano ha già fatto sapere che confermerà quella decisione. Nel 2010 era stata l’India a scegliere di evitare l’acquisto di apparecchiature dai cinesi, citando sempre motivi di sicurezza. Anche nelle Nazioni con cui ha un rapporto privilegiato, questo colosso è guardato con qualche timore: la sede centrale di Huawei solo qualche giorno fa è stata visitata da George Osbone, il cancelliere dello Scacchiere, e dal 2011 il responsabile per la sicurezza del gruppo è John Suffolk, ex capo dell’ufficio informatico del governo inglese; eppure a luglio l’esecutivo di Cameron ha detto chiaramente che i controlli sul ruolo di Huawei nelle telecomunicazioni in Gran Bretagna sono stati «non sufficientemente robusti».
A inizio settembre Enrico Letta ha ricevuto Sun Yafang, la presidente di Huawei. Dopo l’Inghilterra, l’Italia è il secondo mercato europeo per questa azienda, che qui collabora con tutti i grandi operatori telefonici, ha 700 dipendenti e investirà un miliardo di dollari in cinque anni. I rapporti tra Roma e Shenzen sono «ottimi», assicura Roberto Loiola, l’italiano responsabile di Huawei per tutta l’Europa occidentale. Se le accuse di Tavaroli «non meritano nemmeno un commento, perché la sicurezza è una questione seria», quelle degli Stati Uniti e di altri Paesi secondo Loiola si spiegano con «motivi politici ». E il rapporto con Telecom? «Lavoriamo con Telecom come con altri 500 operatori di telecomunicazioni in tutto il mondo. I problemi di sicurezza delle reti non possono essere visti in un contesto solo nazionale, va analizzata tutta la catena: ci sono i dispositivi, come i telefoni, la rete di accesso, quella di trasporto... è molto complesso. Poi c’è un altro aspetto: temono il fatto che siamo cinesi, ma i nostri componenti sono realizzati in tutto il mondo. Abbiamo calcolato che ci sono meno componenti cinesi nei nostri telefoni che nell’iPhone». Certo, se il fondatore e grande capo di Huawei, Ren Zhengfei, non avesse iniziato la sua carriera lavorando come ingegnere per l’Esercito Popolare di Liberazione forse l’azienda sarebbe guardata con più tranquillità in giro per il mondo. Anche l’assetto di controllo della società è un po’ misterioso. Cathy Meng, figlia di Ren, ha spiegato che suo padre controlla l’1,4% delle azioni, il resto è diviso tra le migliaia di dipendenti. Loiola conferma che è così. In rete però gli appassionati di storie di spionaggio cercano da mesi di recuperare la copia di Cajing Magazine del settembre del 2012: conteneva un’analisi precisa sulla struttura di controllo di Huawei ma ufficiali del governo cinese l’hanno ritirata dalle edicole poche ore dopo la pubblicazione. C’è poi il caso di Shane Todd, a cui il Financial Times ha dedicato un’inchiesta lo scorso febbraio: Todd era un giovane ingegnere americano, lavorava a Singapore su un progetto tra il centro di ricerca governativo Ime e Huawei. Doveva sviluppare un amplificatore basato sul nitrito di gallio, un semiconduttore capace di resistere a temperature estreme usato nell’illuminazione, nelle stazioni telefoniche ma anche in apparecchiature militari, ad esempio come disturbatore di segnali radar. Todd è stato trovato impiccato nel bagno di casa sua una settimana prima del suo rientro negli Stati Uniti. La famiglia del ragazzo sospetta dall’inizio che l’ingegnere sia stato ucciso per evitare che raccontasse alle autorità degli Stati Uniti i dettagli di quel progetto. La corte di Singapore ha chiuso il caso definendolo un suicidio e l’ambasciata americana ha accettato questa conclusione.La sfida globale a colpi di cavi, intercettazioni e modelli di telefonini evidentemente sta dando molto da lavorare ai diplomatici.
da Avvenire
Era inevitabile. Emerso lo scandalo della Nsa americana si è aperta la grande caccia mondiale alla spia, e Huawei non poteva sperare di restarne fuori. Se c’è un’azienda sospetta è questo colosso basato a Shenzen, una società da 140mila dipendenti e 27 miliardi di euro di fatturato che quest’anno è diventata il primo gruppo mondiale nelle componenti delle reti di telecomunicazione nonché il terzo maggior produttore di telefonini al mondo. Un anno fa a Washington l’Intelligence Committee della Camera ha dichiarato che le cinesi Huawei e Zte sono una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, quindi ha chiesto di escluderle da ogni collaborazione con il governo e ha sconsigliato alle aziende di fare affari con loro. Sempre per motivi di sicurezza, pochi mesi prima era stata l’Australia a tenere fuori i cinesi dalla gara per la rete a banda larga, e il nuovo governo australiano ha già fatto sapere che confermerà quella decisione. Nel 2010 era stata l’India a scegliere di evitare l’acquisto di apparecchiature dai cinesi, citando sempre motivi di sicurezza. Anche nelle Nazioni con cui ha un rapporto privilegiato, questo colosso è guardato con qualche timore: la sede centrale di Huawei solo qualche giorno fa è stata visitata da George Osbone, il cancelliere dello Scacchiere, e dal 2011 il responsabile per la sicurezza del gruppo è John Suffolk, ex capo dell’ufficio informatico del governo inglese; eppure a luglio l’esecutivo di Cameron ha detto chiaramente che i controlli sul ruolo di Huawei nelle telecomunicazioni in Gran Bretagna sono stati «non sufficientemente robusti».
A inizio settembre Enrico Letta ha ricevuto Sun Yafang, la presidente di Huawei. Dopo l’Inghilterra, l’Italia è il secondo mercato europeo per questa azienda, che qui collabora con tutti i grandi operatori telefonici, ha 700 dipendenti e investirà un miliardo di dollari in cinque anni. I rapporti tra Roma e Shenzen sono «ottimi», assicura Roberto Loiola, l’italiano responsabile di Huawei per tutta l’Europa occidentale. Se le accuse di Tavaroli «non meritano nemmeno un commento, perché la sicurezza è una questione seria», quelle degli Stati Uniti e di altri Paesi secondo Loiola si spiegano con «motivi politici ». E il rapporto con Telecom? «Lavoriamo con Telecom come con altri 500 operatori di telecomunicazioni in tutto il mondo. I problemi di sicurezza delle reti non possono essere visti in un contesto solo nazionale, va analizzata tutta la catena: ci sono i dispositivi, come i telefoni, la rete di accesso, quella di trasporto... è molto complesso. Poi c’è un altro aspetto: temono il fatto che siamo cinesi, ma i nostri componenti sono realizzati in tutto il mondo. Abbiamo calcolato che ci sono meno componenti cinesi nei nostri telefoni che nell’iPhone». Certo, se il fondatore e grande capo di Huawei, Ren Zhengfei, non avesse iniziato la sua carriera lavorando come ingegnere per l’Esercito Popolare di Liberazione forse l’azienda sarebbe guardata con più tranquillità in giro per il mondo. Anche l’assetto di controllo della società è un po’ misterioso. Cathy Meng, figlia di Ren, ha spiegato che suo padre controlla l’1,4% delle azioni, il resto è diviso tra le migliaia di dipendenti. Loiola conferma che è così. In rete però gli appassionati di storie di spionaggio cercano da mesi di recuperare la copia di Cajing Magazine del settembre del 2012: conteneva un’analisi precisa sulla struttura di controllo di Huawei ma ufficiali del governo cinese l’hanno ritirata dalle edicole poche ore dopo la pubblicazione. C’è poi il caso di Shane Todd, a cui il Financial Times ha dedicato un’inchiesta lo scorso febbraio: Todd era un giovane ingegnere americano, lavorava a Singapore su un progetto tra il centro di ricerca governativo Ime e Huawei. Doveva sviluppare un amplificatore basato sul nitrito di gallio, un semiconduttore capace di resistere a temperature estreme usato nell’illuminazione, nelle stazioni telefoniche ma anche in apparecchiature militari, ad esempio come disturbatore di segnali radar. Todd è stato trovato impiccato nel bagno di casa sua una settimana prima del suo rientro negli Stati Uniti. La famiglia del ragazzo sospetta dall’inizio che l’ingegnere sia stato ucciso per evitare che raccontasse alle autorità degli Stati Uniti i dettagli di quel progetto. La corte di Singapore ha chiuso il caso definendolo un suicidio e l’ambasciata americana ha accettato questa conclusione.La sfida globale a colpi di cavi, intercettazioni e modelli di telefonini evidentemente sta dando molto da lavorare ai diplomatici.
da Avvenire