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giovedì 31 ottobre 2013

I tassi bassi e le bolle immobiliari

A Londra il prezzo medio delle case in vendita è salito del 10% solo a settem­bre. La crescita – registrata da Rightmo­ve, primo portale immobiliare inglese – è davve­ro incredibile: a questi ritmi le quotazioni im­mobiliari della City raddoppierebbero entro la prossima estate. Ma anche se si guarda il dato del trimestre, meno volatile, si ottiene un dato fe­nomenale: +5,6%. E non parliamo di proprieta­ri avidi che hanno fissato prezzi stellari facendo fuggire gli acquirenti. Tutt’altro: a Londra le ca­se vanno via con il pane.

Spiega Miles Shipside, direttore del portale: «Alcuni agenti riferiscono che c’è una febbre da acquisto in certe zone del centro di Londra, con una disponibilità di case da comprare così scarsa che spesso loro riman­gono senza niente da vendere». Londra non è l’Italia, dove l’immobiliare è in pes­sima forma, ma non è nemmeno il Regno Uni­to. Nel senso che fuori dalla capitale l’aumento dei prezzi richiesti c’è ma è un più tranquillo +3,8% (in un anno, non in un mese). In alcune regioni come il Galles o West Midlands le quota­zioni sono addirittura in calo, e questo nono­stante il governo, attraverso il programma “Help to Buy”, aiuti i cittadini a comprare casa.

C’è un motivo. Non sono solo gli inglesi a fare shopping del mattone londinese, ma soprattutto gli oli­garchi russi, gli emiri arabi e gli imprenditori ci­nesi. Tutti in cerca dell’appartamento di lusso tra Chelsea e Notting Hill anche come bene rifugio davanti a un futuro incerto in cui una delle po­che certezze è che la City rimarrà la capitale del­la finanza europea. In questo la bolla immobiliare londinese non è troppo diversa da quella che si sta gonfiando altrove. Per esempio a Shanghai, dove i prezzi delle case nuove – ha scritto Bloom­berg – sono saliti del 12% solo in una settimana.

È chiaro che se non vivessimo negli anni dei sol­di facili (per chi può averli), cioè quelli in cui le Banche centrali di Stati Uniti, Europa e Giappo­ne tengono i tassi a zero e riversano ogni mese miliardi sul sistema finanziario, mancherebbe­ro i denari che possono spingere la pazza corsa delle quotazioni. Ed è altrettanto chiaro che, in assenza di altra aria finanziaria capace di gonfiare l’immobiliare, queste bolle rischiano di inter­rompere bruscamente il loro allargamento. Pos­sono anche scoppiare. Sicuramente l’inizio del­le “exit strategy” con cui le banche centrali ri­porteranno la loro politica monetaria a una si­tuazione più normale metterà alla prova molti mercati immobiliari.

Rischia anche la Germania. «I bassi tassi di inte­resse stanno alimentando la domanda per la pro­prietà immobiliare» ha scritto la Bundesbank la settimana scorsa. La Banca centrale tedesca è preoccupata perché «i prezzi delle case nelle città tedesche sono saliti così fortemente dal 2010 che una possibile sopravvalutazione non può esse­re esclusa». Secondo i calcoli dell’istituto cen­trale nelle città della Germania i prezzi delle ca­se sono superiori del 10% rispetto ai valori che sarebbero giustificati da fattori demografici ed economici.

Nei grandi centri come Berlino, Am­burgo o Monaco 'l’esagerazione” delle quota­zioni raggiunge il 20%. Pesa anche in questo ca­so l’investimento che arriva dall’estero, ma è for­te soprattutto la componente locale: i tedeschi, tradizionalmente legati all’affitto, da quando i tassi sono azzerati si trovano molti più soldi a di­sposizione di prima e quindi li investono anche nel mattone.

La formazione di bolle è una delle possibili controindicazioni delle politiche mo­netarie espansive e non può stupire che sia pro­prio la Bundesbank a lanciare l’allarme: se c’è u­na Banca centrale che non si trova a suo agio con le politiche più ardite della Bce di Mario Draghi è sicuramente la vecchia Buba. È un’altra rogna per il banchiere romano.

Le bol­le si formano dove l’economia si riprende: in­fatti mentre il mattone inglese e tedesco si sta rivalutando spaventosamente, quello spa­gnolo resta in agonia (i prezzi medi so­no sotto del 40% rispetto al 2007) e quello italiano è al quarto anno di stallo (il prezzo medio è sceso del 5,9% nel secondo trimestre, terzo peggior risultato nella zona euro). La Bce — che dovrebbe nello stesso tempo favorire con poli­tiche espansive la ri­presa della “periferia” d’Europa e protegge­re con politiche re­strittive la Germa­nia dalla frenesia immobiliare — non può permet­tersi ancora tan­ti anni di Unio­ne monetaria a due velocità.
da Avvenire

mercoledì 30 ottobre 2013

Huawei, le reti cinesi più usate e temute

 Davvero anche Pechino può ascolta­re le nostre telefonate? Giuliano Ta­varoli – ex brigadiere, poi responsa­bile della sicurezza di Pirelli e quindi di Te­lecom Italia, grande protagonista dello scan­dalo del 'dossieraggio' illegale risolto, nel suo caso, con un patteggiamento a 4 anni e mezzo di reclusione – la settimana scorsa lo ha detto esplicitamente in un’intervista al Mattino : «Nessuno ricorda che Telecom ac­quistava e acquista apparecchiature di rete dalla cinese Huawei, un po’ come mettersi il nemico in casa. Che ci spia da tempo».

Era inevitabile. Emerso lo scandalo della N­sa americana si è aperta la grande caccia mondiale alla spia, e Huawei non poteva sperare di restarne fuori. Se c’è un’azienda sospetta è questo colosso basato a Shenzen, una società da 140mila dipendenti e 27 mi­liardi di euro di fatturato che quest’anno è diventata il primo gruppo mondiale nelle componenti delle reti di telecomunicazione nonché il terzo maggior produttore di te­lefonini al mondo. Un anno fa a Washington l’Intelligence Committee della Camera ha dichiarato che le cinesi Huawei e Zte sono
 una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, quindi ha chiesto di escluderle da ogni collaborazione con il governo e ha scon­sigliato alle aziende di fare affari con loro. Sempre per motivi di sicurezza, pochi mesi prima era stata l’Australia a tenere fuori i ci­nesi dalla gara per la rete a banda larga, e il nuovo governo australiano ha già fatto sa­pere che confermerà quella decisione. Nel 2010 era stata l’India a scegliere di evitare l’acquisto di apparecchiature dai cinesi, ci­tando sempre motivi di sicurezza. Anche nelle Nazioni con cui ha un rapporto privi­legiato, questo colosso è guardato con qual­che timore: la sede centrale di Huawei solo qualche giorno fa è stata visitata da George Osbone, il cancelliere dello Scacchiere, e dal 2011 il responsabile per la sicurezza del grup­po è John Suffolk, ex capo dell’ufficio infor­matico del governo inglese; eppure a luglio l’esecutivo di Cameron ha detto chiara­mente che i controlli sul ruolo di Huawei nelle telecomunicazioni in Gran Bretagna sono stati «non sufficientemente robusti».

A inizio settembre Enrico Letta ha ricevuto Sun Yafang, la presidente di Huawei. Dopo l’Inghilterra, l’Italia è il secondo mercato eu­ropeo per questa azienda, che qui collabo­ra con tutti i grandi operatori telefonici, ha 700 dipendenti e investirà un miliardo di dollari in cinque anni. I rapporti tra Roma e Shenzen sono «ottimi», assicura Roberto Loiola, l’italiano responsabile di Huawei per tutta l’Europa occidentale. Se le accuse di Tavaroli «non meritano nemmeno un com­mento, perché la sicurezza è una questione seria», quelle degli Stati Uniti e di altri Paesi secondo Loiola si spiegano con «motivi po­litici ». E il rapporto con Telecom? «Lavoria­mo con Telecom come con altri 500 opera­tori di telecomunicazioni in tutto il mondo. I problemi di sicurezza delle reti non posso­no essere visti in un contesto solo naziona­le, va analizzata tutta la catena: ci sono i di­spositivi, come i telefoni, la rete di accesso, quella di trasporto... è molto complesso. Poi c’è un altro aspetto: temono il fatto che sia­mo cinesi, ma i nostri componenti sono rea­lizzati in tutto il mondo. Abbiamo calcolato che ci sono meno componenti cinesi nei no­stri telefoni che nell’iPhone». Certo, se il fondatore e gran­de capo di Huawei, Ren Zhengfei, non avesse inizia­to la sua carriera lavorando come ingegnere per l’Eserci­to Popolare di Liberazione forse l’azienda sarebbe guar­data con più tranquillità in giro per il mondo. Anche l’as­setto di controllo della so­cietà è un po’ misterioso. Cathy Meng, figlia di Ren, ha spiegato che suo padre con­trolla l’1,4% delle azioni, il re­sto è diviso tra le migliaia di dipendenti. Loiola conferma che è così. In rete però gli ap­passionati di storie di spio­naggio cercano da mesi di re­cuperare la copia di
 Cajing Magazine del settembre del 2012: conteneva un’analisi precisa sulla struttura di con­trollo di Huawei ma ufficiali del governo cinese l’hanno ritirata dalle edicole poche ore dopo la pubblicazione. C’è poi il caso di Shane Todd, a cui il Financial Times ha dedicato un’inchiesta lo scorso febbraio: Todd era un giovane ingegnere america­no, lavorava a Singapore su un progetto tra il centro di ricerca governativo Ime e Huawei. Doveva sviluppare un amplificatore basato sul nitrito di gallio, un semiconduttore ca­pace di resistere a temperature estreme u­sato nell’illuminazione, nelle stazioni te­lefoniche ma anche in apparecchiature mi­­litari, ad esempio come disturbatore di se­gnali radar. Todd è stato trovato impiccato nel bagno di casa sua una settimana prima del suo rientro negli Stati Uniti. La famiglia del ragazzo sospetta dall’inizio che l’inge­gnere sia stato ucciso per evitare che rac­contasse alle autorità degli Stati Uniti i det­tagli di quel progetto. La corte di Singapore ha chiuso il caso definendolo un suicidio e l’ambasciata americana ha accettato que­sta conclusione.La sfida globale a colpi di cavi, intercetta­zioni e modelli di telefonini evidentemente sta dando molto da lavorare ai diplomatici.

da Avvenire

martedì 22 ottobre 2013

Lo shale gas passa da Londra per conquistare l'Europa

Lo avevano detto che lo shale gas avrebbe cambiato il mon­do. Due notizie delle ultime settimane: secondo le rilevazioni di Pira, società americana di con­sulenza nel campo dell’energia, grazie al gas non convenzionale gli Stati Uniti quest’anno supereran­no l’Arabia Saudita per diventare il primo produttore di idrocarburi del pianeta; il cartello dell’Opec – che associa i grandi esportatori di pe­trolio – ha annunciato che l’anno prossima la Cina potrebbe scaval­care gli Stati Uniti e diventare il pri­mo importare di greggio al mondo. Sono i primi sorpassi storici dell’e­ra dello scisto: lo sviluppo della tec­nologia che permette di estrarre il gas e il petrolio intrappolati in roc­ce di argilla oltre i tre chilometri di profondità ha permesso agli Stati Uniti di emanciparsi gradualmen­te dalla dipendenza energetica dal­l’estero, tanto che i produttori di petrolio sono stati costretti a rivol­gersi a clienti nuovi. L’evoluzione dello scenario mon­diale dell’energia ha evidenti ri­svolti geopolitici (si potrà più par­lare delle guerre americane per il petrolio quando gli Usa non a­vranno più bisogno di comprare greggio dall’estero? Ed è una pro­spettiva tranquillizzante quella di un rapporto sempre più forte tra Cina e Iran?) ma anche immediate conseguenze pratiche. Con l’ener­gia che in America costa un terzo ri­spetto all’Europa ci sono «le azien­de petrolchimiche produttrici di piastrelle che ora trasferiscono gli impianti nel Texas» ha avvertito qualche giorno fa Paolo Scaroni, con un chiaro riferimento al re­cente passaggio del controllo di Marazzi, colosso emiliano delle piastrelle, al fondo texano Mohawk per 1,5 miliardi di dollari. Da mesi l’amministratore delegato dell’Eni sta facendo pressione perché an­che l’Europa dia il via libera alle e­splorazioni del gas di scisto. È ov­vio che per Eni si tratterebbe di un’occasione in più per fare utili, ma è altrettanto evidente – e il ca­so Marazzi è lì a dimostrarlo – che si tratta soprattutto di una que­stione di competitività.

L’attività di lobbying di Scaroni e delle multinazionali del petrolio fi­no ad oggi non ha ottenuto risulta­ti positivi.«Credo che in Europa continentale oggi sia difficile an­che solo cercare lo
 shale gas. In fu­turo credo sarà più facile perché di­venterà una necessità» ha ammes­so ieri il manager dell’Eni parlando a Londra a un convegno sul gas non convenzionale. L’anno scorso il Parlamento europeo ha approvato due mozioni in cui chiede regole più stringenti sullo shale gas. Lo stesso Parlamento il 9 di ottobre di quest’anno ha votato una modifi­ca alla direttiva sull’impatto am­bientale per estendere l’obbligo di valutare le conseguenze sul terri­torio anche agli idrocarburi non convenzionali. Il fracking,la tecni­ca per spaccare gli scisti di argilla e liberare il gas dal sottosuolo, è si­curamente un processo invasivo e non è ancora chiaro se i liquidi pompati in questo processo pos­sano inquinare le falde acquifere. Ma intanto la linea dura sta facen­do infuriare quei Paesi dell’Est che, almeno secondo i primi studi, po­trebbero avere enormi giacimenti di shale gas. Su tutti la Polonia, che già sta dando lezioni di crescita ai compagni dell’Ue, non è disposta a lasciarsi ostacolare da Bruxelles. Oltre all’opposizione dei legislato­ri il nuovo gas che sta facendo la fortuna del Nuovo Mondo nel Vec­chio Continente incontra spesso l’aperta contestazione della popo­lazione. Le proteste degli abitanti della piccola e povera Pungesti, vil­laggio rumeno da 3mila anime, la settimana scorsa hanno costretto alla ritirata la Chevron. I contadini di Pungesti, ha scritto il quotidiano România Libera «non vogliono la prosperità degli americani, perché vivono di agricoltura e le loro ac­que sarebbero avvelenate».

Ecco che allora lo
 shale gas sta cer­cando di aprirsi una via di ingres­so in Europa passando dal Regno Unito, sempre capace di restare con un piede nell’Ue e l’altro quasi in A­merica. «Non possiamo perdere l’occasione del fracking » ha scritto ad agosto il premier David Came­ron alla popolazione, invitando gli inglesi a non abbandonare la tra­dizione che vede i britannici all’a­vanguardia tecnologica nell’ener­gia. Scaroni e gli altri manager del­l’oro nero ci contano: «Credo che la Gran Bretagna, che il paese più pragmatico d’Europa, possa mo­strare la strada agli altri Paesi eu­ropei nello sfruttamento dello sha­le gas – ha detto ieri l’Ad dell’Eni – . Questa è la mia speranza».
da Avvenire

mercoledì 16 ottobre 2013

Banche centrali in un vicolo cieco

Ben Bernanke e Mario Draghi hanno già avuto occasione di ammetterlo: con le stra­tegie monetarie aggressive di que­sti anni – acquisti di titoli di Stato e non, tassi azzerati, soldi quasi in regalo alle banche – la Federal Re­serve e la Banca cen­trale europea si sono incamminate lungo sentieri inesplorati. Quello che i due ban­chieri centrali più po­tenti del mondo non hanno confessato è che non sanno più co­me tornare indietro.

Quando ha fatto capi­re che la Fed stava per tagliare la terza fase del suo
 quantitative ea­sing , e quindi avrebbe ridotto gli 85 miliardi di dollari che da gennaio ogni me­se riversa sui mercati, Bernanke ha spaventato gli investitori ed è sta­to costretto a tornare sui suoi pas­si prima che i tassi dei titoli del Te­soro andassero fuori controllo. Po­trebbe tornare sui suoi passi anche la Bce, che tra dicembre 2011 e feb­braio 2012 ha prestato alle banche mille miliardi di euro a un tasso mi­nimo per evitare che il sistema an­dasse al collasso. La scadenza fina­le del rimborso si avvicina (il pre­stito era triennale) ma si è già ca­pito che molte banche non po­tranno permettersi di sdebitarsi e quindi la Bce sta pensando di aiu­tarle con un altro prestito. Non è diversa la situazione delle Banche centrali di Giappone e Regno U­nito, tanto ardite nelle loro strate­gie monetarie quanto incerte sui percorsi per ritirarle.

«Una Banca centrale può essere il salvatore del sistema, ma se poi il sistema non si muove, allora il sal­vatore diventa il peccatore» ha am­messo Lorenzo Bini Smaghi par­lando ieri a un convegno milanese in cui il Centro Paolo Baffi della Bocconi ha messo assieme econo­misti ed ex alti dirigenti delle gran­di Banche centrali. «Banchieri cen­trali: salvatori o peccatori?» ha chiesto l’istituto di ricerca. Bini Smaghi, che fino al dicembre del 2011 era nel direttivo della Bce, ha
 risposto che per una Banca centra­le è molto facile fare il salvatore del­la situazione («basta comprare quello che i mercati vogliono ven­dere »), ma a quel punto si sta solo prendendo tempo: se i 'salvati' (cioè banche e governi) non usano la tregua monetaria per tagliare i debiti e fare le riforme allora il sal­vataggio diventa un danno. È quel­lo che sta avvenendo in Europa. «Ma credo che quando verrà il mo­mento di usare l’Omt – dice Bini Smaghi citando il programma di acquisto di bond con cui Draghi ha calmato drasticamente le paure dei mercati dall’estate del 2012 in poi – allora sarà chiaro che la Bce può aiutare, ma solo se i governi ri­spettano le sue condizioni». È il punto in cui il 'peccatore' torna ad essere un 'salvatore', ma stavolta molto severo. Questo ruolo toc­cherà anche a Janet Yellen, l’eco­nomista che dal prossimo gennaio prenderà il posto di Bernanke alla guida della Fed e dovrà gestire il ri­tiro delle misure ultra-espansive varate in questi an­ni dalla Banca cen­trale. Al convegno milanese l’ameri­cano Kevin Warsh – che nel 2006 stupì il mondo entrando nel board della Fed senza avere nem­meno 36 anni (ne è uscito nel 2011) – ha lavorato anni con Yellen e assicu­ra che è un’econo­mista «straordina­riamente prepara­ta ». Ma avverte: «È incredibilmen­te focalizzata su modelli economi­ci molto recenti che però que­st’anno si sono dimostrati delu­denti nel prevedere la ripresa a­mericana. Se non funzionassero nemmeno l’anno prossimo, la Fed sarebbe costretta a cambiare stra­tegia ». 
da Avvenire di oggi

giovedì 29 agosto 2013

Il processo alla grande crisi

«C’ è un sacco di gente che sente di a­vere subìto un torto da Jp Morgan ma non può permettersi di pren­dersela con un’enorme banca. Non dovrebbe essere così». Ha ragione Leonard Blavatnik, uno che martedì ha ottenuto dal giudice di farsi risarcire 50 milioni di euro dalla banca d’affari americana. Blavatnik è uno dalle spalle abbastanza larghe per prendersela con chi vuole. Ucraino emigrato negli Stati Uniti da ra­gazzo per studiare prima alla Columbia e poi a Har­vard, ha fatto fortuna azzeccando un investimento giusto dopo l’altro e oggi, a 56 anni, ha un conto da 16 miliardi di dollari che ne fa il 44esimo uomo più ricco del mondo. Ha fatto causa a Jp Morgan perché nel 2006 un suo fondo aveva affidato alla banca 1 mi­liardo di dollari da investire con una strategia “con­servativa” e invece i trader hanno puntato forte sui ti­toli basati sui “subprime”. In due anni gli hanno bru­ciato 100 milioni. Il miliardario Blavatnik sarà par­zialmente rimborsato e sugli ingannati incapaci di difendersi ha ragione davvero; ma se tutte le vittime finanziarie delle scorrettezze che negli anni prima della crisi le banche d’affari americane avevano or­ganizzato per mangiarsi i soldi dei clienti potessero permettersi di chiedere il conto, a Wall Street reste­rebbe una manciata di superstiti.

Non sarà questa distru­zione per via giudiziaria che alcuni si augurano, ma 'il processo alla gran­de crisi' in America è ini­ziato e sta più che inner­vosendo qualche ban­chiere. Ancora Jp Mor­gan, la più grande ma an­che la più tormentata delle banche d’affari a­mericane. Il giorno dopo la vittoria di Balvatnik è emerso che la Fhfa, l’agenzia che regola il mercato del credito immobiliare Usa, ha chiesto alla banca 6 miliardi di dollari come risarci­mento per i titoli basati sui mutui 'subprime' che Jp Morgan ha venduto alle agenzie Fannie Mae e Fred­die Mac, poi salvate dallo Stato con un intervento da 42 miliardi. È la richiesta di rimborso più grossa fat­ta a una banca d’affari per quanto fatto negli anni della crisi. Delle altre 17 banche messe sotto accusa dalla Fhfa tre hanno già accettato di pagare. La sviz­zera Ubs, l’unica che ha comunicato l’importo della 'sanzione' ha chiuso la vicenda con 885 milioni. Se il parametro sarà lo stesso difficilmente Jp Morgan se la caverà con meno di 5 miliardi.

Vedremo. Nel frattempo un altro processo alla gran­de crisi si è appena chiuso con un successo dell’ac­cusa. Il 1° agosto la giuria di Manhattan ha giudicato colpevole di 6 dei 7 reati contestati Fabrice Tourre, ex trader di Goldman Sachs. Il caso è esemplare: Tour­re per Goldman aveva lavorato alla costruzione di A­bacus, un derivato imbottito di altri derivati basati sui mutui che erano stati scelti dal John Paulson. La banca nel 2007 aveva venduto il prodotto ai clienti o­mettendo un dettaglio non indifferente: Paulson a­veva scelto i titoli perché voleva scommetergli con­tro con il suo 'hedge fund'. Una tipica trovata pre-Lehmann. Lo spericolato finanziere ci ha fatto 1 mi­liardo di dollari, i clienti della banca hanno perso al­meno
 altrettanto. Lo sconosciuto trentaquatrenne Tourre, in questa sto­ria, ha pagato per tutti. Però via via che le intricate vi­cende degli anni che hanno portato al crollo mondiale del 2008 si dipanano con l’aiuto dei magistrati ame­ricani, anche ai sopravvissuti della crisi viene chiesto conto delle loro scelte. In tribunale, come testimone, potrebbe finirci Ben Bernanke. Maurice 'Hank' Greenberg, ottantottenne fondatore ed ex proprieta­rio del colosso assicurativo Aig, pretende che il capo della Federal Reserve spieghi davanti ai giudici per­ché nel 2008 decise di salvare Aig togliendone il con­trollo ai suoi azionisti. Secondo il vecchio Greenberg il banchiere centrale in realtà ha voluto salvare Gold­man Sachs, che con il fallimento di Aig avrebbe per­so almeno 20 miliardi di dollari. Il giudice ha convo­cato Bernanke come testimone, ma il governo ame­ricano sta facendo di tutto per evitare al governatore uscente questo passaggio in tribunale. Una scelta che certamente non aiuterà a tranquillizzare chi sospet­ta che in questo grande processo alla crisi Washing­ton abbia ancora qualcosa da nascondere. 
da Avvenire

lunedì 26 agosto 2013

In Borsa tornano le matricole (ma poco in Italia)

Non sarà l’arrivo di Mossi e Ghisolfi a consolare la Borsa di Hong Kong. Certo, la società basata a Tortona ma con stabilimenti in mezzo mondo è uno dei principali produttori mondiali di polietilene per bottiglie di plastica e imballaggi e ha una dimensione significativa: fattura circa 3 miliardi di dollari e dovrebbe essere valutata poco meno di 2 miliardi. Cifre che farebbero entrare da subito l’impresa di Vittorio Ghisolfi e i figli nel Ftse Mib, l’indice che mette assieme le quaranta società più grosse della piccola Borsa Italiana, ma che non spostano gli equilibri alla piazza di Hong Kong – dove il gruppo ha deciso di quotarsi – che vale quasi dieci volte la nostra. No, Hong Kong non può consolarsi con Mossi e Ghisolfi perché il mercato asiatico dal 2008 al 2011 è stato la maggiore piazza al mondo per i debutti di Borsa ma nel 2012 è scivolato al quarto posto e quest’anno difficilmente riuscirà a fare meglio. Soprattutto, la Borsa di Hong Kong rischia anche di perdersi l’esordio più ricco di tutti.
Quello di Alibaba, gigantesca compagnia cinese del commercio elettronico che gestisce più scambi di Amazon ed eBay messe assieme. Jack Ma, suo fondatore e proprietario, è il più corteggiato dalle Borse mondiali. Se per l’onnipresente Twitter, che sta lavorando per quotarsi a Wall Street, si parla di una valutazione di 10 miliardi di dollari, per Alibaba le stime indicano quotazioni da 70 miliardi. A quei livelli se Ma mettesse sul mercato anche solo un terzo delle azioni il suo debutto varrebbe da solo un quarto del mercato mondiale 2013 delle Ipo, cioè dei collocamenti delle società in Borsa. È comprensibile quindi che Hong Kong – dove Ma aveva quotato Alibaba.com, il suo più interessante sito del commercio online, per poi ricomprarsi tutte le azioni nel 2012 – non voglia farsi sfuggire il prezioso cliente. Però il manager, a quanto pare, starebbe pensando di andare a Wall Street, dove avrebbe la possibilità di suddividere le azioni a seconda dei diritti di voto, così da raccogliere capitali senza rinunciare alla sicurezza delcontrollo del suo gruppo.Il collocamento di Alibaba potrebbe ridare a questo 2013 delle Ipo uno splendore perso nell’ultimo biennio. Non è una questione solo tecnica: quando un numero significativo di società decide di quotarsi in Borsa e quindi andare a raccogliere fondi tra nuovi soci per crescere e allargarsi è anche un segnale importante di ottimismo economico. Nel 2007 l’ottimismo c’era ancora e i nuovi collocamenti avevano portato alle Borse 266 miliardi di dollari di nuovo capitale. È stato il massimo di sempre, poi c’è stata la caduta: solo 85 miliardi le Ipo del 2008, 109 miliardi l’anno dopo. L’illusione della fine della crisiaveva riacceso il mercato nel 2010, un anno in cui la raccolta ha raggiunto i 243 miliardi grazie alle enormi Ipo di Agricoltural Bank of China, Icbc e General Motors. Il ritorno al pessimismo ha caratterizzato altri due anni mediocri: nel 2011 e il 2012 il mercato delle Ipo è rimasto sotto i 100 miliardi.
Quest’anno le cose stanno andando un po’ meglio. Nei primi 7 mesi, secondo i calcoli di Thomson Reuters, attraverso 417 debutti di Borsa sono stati raccolti quasi 80 miliardi di dollari, con un aumento del 14% rispetto allo stesso periodo del 2012. Con Hong Kong in difficoltà, Wall Street regna incontrastata come piazza preferita dalle debuttanti. Ha raccolto 27,6 miliardi con 117 Ipo, ma segna un calo del 10% rispetto all’anno scorso. Aumenta invece addirittura del 310% l’incasso di Tokyo, che ha raccolto 7,7 miliardi e ha ospitato la seconda Ipo più grande dell’anno, quella da 4 miliardi di Suntory Beverage. La prima Ipo è stata brasiliana, con la compagnia assicurativa Bb Seguridade che ha raccolto 5,7 miliardi garantendo alla piazza di Sanpaolo il terzo posto mondiale nella classifica delle Ipo. Una classifica in cui Milano resta indietro. Thomson conta tre Ipo a Piazza Affari in questo 2013, per un incasso di 400 milioni di dollari (+73%). L’unico debutto nostrano veramente rilevante è stato quello di Moleskine. L’azienda delle agendine ha raccolto 269 milioni mettendo sul mercato il 50,2% delle azioni il 3 aprile. Sono passati quasi cinque mesi, la Borsa ha guadagnato il 15% ma il titolo Moleskine ha perso altrettanto. Anche 'affari' come questi aiutano a capire perché le imprese di Tortona vanno a quotarsi nell’Estremo Oriente.
da Avvenire

giovedì 22 agosto 2013

Il crollo nelle riserve delle banche centrali emergenti

Secondo un'analisi di Morgan Stanley, da maggio le banche centrali dei paesi emergenti hanno perso 81 miliardi di dollari di riserve valutarie per effetto di uscite di capitale o interventi sui mercati valutari. La cifra, che esclude la Cina, è circa il 2% delle riserve di queste banche.
dal Ft