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mercoledì 4 luglio 2012

Cosa succede alla Barclays

mio pezzo su Avvenire di oggi


Lo scandalo del tasso Libor "truccato" si sta allargando al di là di ogni aspettativa, con un effetto valanga che rischia di travolgere l’intera classe dirigente del sistema bancario del Regno Unito. La prima a pagare è Barclays, che venerdì scorso ha chiuso il caso che la riguarda accettando una multa da 290 milioni di sterline imposta dall’Autorità finanziaria britannica (la Fsa), dal dipartimento di Giustizia americano e dalla Cftc, la commissione statunitense che regola il mercato dei derivati. Le indagini riguardano altre 20 grandi banche internazionali – comprese Citigroup, Deutsche Bank e Hsbc – e coinvolgono direttamente Paul Tucker, il vice governatore della Banca di Inghilterra.
Barclays, 322 anni di storia, è una banca senza più una guida. Lunedì si è dimesso il presidente Marcus Agius, nel tentativo di proteggere l’amministratore delegato, l’americano Bob Diamond. Non è servito: ieri, sotto pressione della politica inglese, si è dimesso anche Diamond e se n’è dovuto andare anche il direttore generale Jerry del Missier. «Spero sia un primo passo verso una nuova cultura della responsabilità nel sistema bancario inglese» ha detto David Osborne, cancelliere dello Scacchiere. Oggi Diamond sarà ascoltato dalla commissione di inchiesta parlamentare voluta dal premier David Cameron. Il banchiere, che avrebbe diritto a una buonuscita di 20 milioni di euro (il Cda lo ha però invitato a rinunciare), potrebbe raccontare storie molto sgradevoli sulla Banca centrale inglese.
Al centro di tutta questa vicenda ci sono i tassi Libor che, con scadenze da 1 giorno ai 12 mesi, indicano gli interessi a cui le banche si stanno prestando reciprocamente denaro (soprattutto sterline e dollari, per l’euro il tasso è l’Euribor). Sono indicatori fondamentali per la finanza globale: si basano sul Libor contratti per un valore totale stimato in 350 mila miliardi di dollari, 5 volte il Pil del pianeta. Per fissare questi tassi, la British Banker Association (la Bba) ogni giorno chiede alle banche a che tasso contano di ottenere denaro in prestito dagli altri istituti il giorno dopo, quindi fanno la media. Barclays è stata punita perché da alcune email scambiate tra i suoi dipendenti emerge che gli addetti comunicavano alla Bba tassi diversi da quelli reali. Lo facevano per due motivi: a volte per favorire i trader interni, che speculavano sulle oscillazioni del Libor e promettevano bottiglie di champagne Bollinger ai colleghi disposti a mentire per aiutarli, altre volte per nascondere la sfiducia che le altre banche avevano sullo stato di salute di Barclays.
Questa seconda esigenza, in particolare, sarebbe stata avvallata dalla Bank of England. In una nota interna del 2008 inviata da Diamond (allora responsabile degli investimenti) all’amministratore delegato John Varley, il manager sottolineava che Paul Tucker, allora direttore generale per i Mercati della Banca di Inghilterra, gli aveva fatto presente che al ministero del Tesoro gli chiedevano perché Barclays comunicasse tassi così alti per il Libor. Scriveva Diamond: «Tucker ha assicurato che le chiamate che ha ricevuto dal governo sono di primo piano, e lui è certo che noi non abbiamo bisogno di consigli, che non deve sempre essere per forza il caso di mostrarci così alti (sui tassi Libor, ndr) come abbiamo fatto ultimamente».
L’agenzia Reuters ieri ha evidenziato come almeno 5 volte tra il 2007 al 2009 da alcuni addetti della Barclays e da dipendenti di altre banche siano stati mandati precisi allarmi sull’inattendibilità delle cifre del Libor alla Banca centrale inglese, alla Bba e alla Fsa. Sirene che, evidentemente, sono state poco ascoltate.
È il coinvolgimento degli stessi "vigili" della City a fare del caso Libor una bomba la cui esplosione può annientare i vertici della finanza londinese. Per il primo ministro Cameron, che si vanta di essere il discendente di una famiglia di banchieri, sarà personalmente difficile gestire la vicenda. Già l’opposizione lo accusa di essere troppo morbido. E certe decisioni che nel frattempo si stanno prendendo oltre la Manica non lo aiutano. «Se le 17 nazioni della zona euro fanno un’unione bancaria, e francamente penso che debbano farla, e se sapremo dotarci di meccanismi di salvaguardia, allora per noi non sarebbe un cambiamento fondamentale» ha assicurato ieri un premier britannico poco abile nel nascondere le sue paure: la prospettiva di un’Unione bancaria europea non può che lasciare Londra più isolata e attaccabile.

lunedì 2 luglio 2012

La straordinaria crescita polacca

Secondo un recente studio dell'istituto di ricerca economica francese Coe-Rexecode i polacchi lavorano 1.975 ore all'anno, più dei tedeschi e molto più dei francesi, che si fermano a 1.679 ore all'anno. I tedeschi hanno un'efficienza doppia dei polacchi, ma i salari dei polacchi sono un quindi di quelli tedeschi.
Secondo una ricerca di Nomura, la Polonia sarebbe l'unico Paese europeo a non finire in recessione anche nel caso di uno scioglimento della zona euro. Tra il 2008 e il 2011 il Pil della Polonia è salito del 15,8%, quello dell'Europa è sceso dello 0,5%.
dal Ft


Il Giappone riattiva il primo reattore

Domenica il Giappone ha riattivato il suo primo reattore, chiudendo così i due mesi senza energia nucleare. Il reattore riattivato è il numero 3 di Oi, gestito dalla Kansai Electric. Il 17 luglio dovrebbe essere riattivato anche il reattore numero 4.

Le case giapponesi fanno le auto all'estero

A causa dello yen forte le case automobilistiche giapponesi progettano di spostare la produzione all'estero per risparmiare. C'è la Toyota che farà la Yaris a Valenciennes per venderla negli Stati Uniti, la Nissan chiuderà due linee nella fabbrica di Oppama e farà le auto (secondo le indiscrezioni) in Thailandia, poi ha annunciato mille assunzioni in Mississipi, dove costruirà la Sentra, Honda ha annunciato che vuole allargare il suo export dalle fabbriche statunitensi a 150 mila auto all'anno.
dal Wsj

Bella scarica di dati sulla crisi del mercato immobiliare


Oltre la metà della ricchezza delle famiglie italiane è rappresentata dal mattone (4.950 miliardi su un totale di 9.525 di patrimonio, fonte la Banca d’Italia). Nove italiani su cento vorrebbero cambiare alloggio nei prossimi cinque anni (fonte il Cresme, Centro Ricerche Economiche Sociali di Mercato per l’Edilizia e il Territorio). Gino Pagliuca: «Significa una domanda teorica annua di 450 mila abitazioni in acquisto o in locazione. A queste si aggiunge un potenziale di altre 360 mila case da parte di famiglie che hanno al loro interno una persona tra i 18 e i 39 anni che vorrebbe emanciparsi dallo stato di “bamboccione”. Quante di queste intenzioni rimarranno allo stato iniziale di desiderio non è dato saperlo, perché bisogna fare i conti con il nodo del reddito e quindi della possibilità concreta di ottenere un mutuo o un affitto». [1]

Da un’indagine campionaria della Banca d’Italia (dati aggiornati alla fine del 2010 che da allora non possono che essere peggiorati) emerge
che le due fasce più interessanti per il mercato immobiliare della prima casa, quella delle persone tra 19 e 34 anni e quella successiva (35-44 anni) hanno perso nel giro di cinque anni rispettivamente il 7% e l’8% di reddito reale, con la seconda fascia che è tornata ai livelli del 1991, la prima che è andata addirittura sotto. Pagliuca: «Anche nella fascia tra 45 e 54 anni la perdita nel quinquennio è di 8 punti, mentre le persone alla soglia della pensione, tra i 55 e i 64, hanno invece guadagnato 6 punti, ma si tratta di famiglie che di norma non cercano né affitto né mutuo e se comprano casa lo fanno per i figli o in cerca di un miglioramento di status». [1]

«Allarme casa, crollano le vendite», titolava Repubblica di mercoledì nell’apertura della prima pagina. [2] Marco Sodano: «Nei primi tre mesi del 2012 la vendita di abitazioni è crollata, segnando un secco -19,6% (rispetto ai primi tre mesi del 2011) che conferma una sensazione che chiunque può raccogliere passeggiando nei centri storici delle grandi città. I cartelli vendesi si moltiplicano, quelli nuovi sono attaccati sopra a quelli vecchi che ingialliscono in attesa di novità. E di compratori. Dicono all’Agenzia del Territorio (titolare del database da cui provengono i dati) che un dato così negativo per le vendite di case non era mai stato registrato. Non almeno a partire dal 2004, l’anno in cui hanno preso il via le rilevazioni trimestrali». [3]

Nelle otto maggiori città italiane le compravendite immobiliari sono scese nel primo trimestre 2012 del 17,9%. [4] A Roma i tempi di attesada quando si mette sul mercato l’immobile a quando si chiude possono superare anche i 18 mesi. Paolo Foschi: «Via Michele Di Lando, zona Piazza Bologna. Annuncio di maggio 2012: vendesi appartamento ristrutturato, salone con angolo cottura, tre camere, due bagni, balconi, piano alto: 750 mila euro. Stesso annuncio due settimane fa: 630 mila euro. Ancora, via Jenner, Monteverde, dodici mesi fa: salone doppio, cucina abitabile, tre camere, due bagni, ripostiglio cantina, termoautonomo 790 mila euro. Stesso appartamento oggi: 640 mila euro». [5]

«A maggio abbiamo venduto un quarto degli appartamenti costruiti rispetto al maggio 2011. Abbiamo dovuto fermare i programmi di nuove costruzioni, perché, di questo passo, impiegheremmo 4 anni a collocare il costruito. Su scala nazionale, se consideriamo il peso della casa nell'economia, l'Italia sta per bruciare da mezzo milione a un milione di posti di lavoro» (Francesco Gaetano Caltagirone a Massimo Mucchetti) [14]

Il mercato immobiliare residenziale milanese, nel suo complesso, è asfittico. Laura Fugnoli; «Sono state 19.182 le abitazioni totali transate nel 2011, ma nel 2012, nelle previsioni di Luca Dondi, responsabile settore immobiliare di Nomisma, “non saranno più di 18mila”». [6] In provincia di Torino circa 12.673 nuovi alloggi costruiti nell’ultimo decennio risultano invenduti (stime dell’osservatorio immobiliare di Nomisma). [7] A Genova la flessione delle compravendite immobiliari da inizio 2012 arriva al 21,8% (mancano soprattutto gli acquisti di giovani coppie e extracomunitari, con utilizzo di capitali mutuati). [8] A Bologna le compravendite di abitazioni sono calate nel primo trimestre 2012 del 18,4 per cento. Marco Bettazzi: «I dati dicono di un mercato fermo in città da almeno quattro anni». [9]

Mancano gli acquisti dei piccoli investitori, di chi compra la seconda casa per le vacanze, di chi vuole migliorare la propria situazione abitativa, ossia tutto quello che non è un mercato di necessità. Detto che la nuova normativa antiriciclaggio ha deviato una parte del nero che finiva sul mercato immobiliare, c’è poi l’effetto Imu. [4] Confedilizia: «È disastroso, soprattutto in riferimento alla totale scomparsa di chi compra come investimento con l’obiettivo di dare gli appartamenti in affitto». [3] Pagliuca: «L’imposta, oltre a pesare sul portafogli delle famiglie, potrebbe anche avere un effetto psicologico destabilizzante perché infrange un tabù: quello per cui sulla casa in Italia si pagano imposte ridotte e addirittura nulle per l’abitazione in cui si vive». [1]

Affordability: secondo il Cresme per le famiglie si è soprattutto ridotta la concreta possibilità di comprare una casa. Pagliuca: «Rispetto all’epoca della lira i prezzi reali delle case sono saliti (il divario quotazioni/inflazione a Milano e Roma negli ultimi dieci anni è di circa 40 punti) mentre i redditi reali sono scesi; fin quando allo squilibrio si rimediava erogando mutui di lunga durata all’80-90% del valore della casa si poteva trovare un compromesso, oggi invece le possibilità di ripresa del mercato, che anche i più ottimisti datano al 2014, sono legate o alla diminuzione dei prezzi o all’aumento delle disponibilità economiche delle famiglie. Facile immaginare quale delle due ipotesi sia più plausibile». [1]

Oggi il mutuo conviene a chi meno se lo può permettere. Pagliuca: «Anche questa può essere una spiegazione, sia pure parziale, alle difficoltà attuali del mercato immobiliare. Si sta infatti creando un circolo vizioso per cui sono costrette ad andare in locazione famiglie che, pagando una rata di mutuo analoga a quella del canone, riuscirebbero sulla carta a finanziare gran parte dall’acquisto, mentre nella pratica non riescono, con i criteri attuali di valutazione, a ottenere il credito». Fino a cinque anni fa investendo l’equivalente dell’affitto, si arrivava a superare il 100% del valore dell’immobile e in pratica si poteva comprare quasi senza sborsare un euro di contante: «Oggi, invece, quote superiori al 70% del valore immobiliare sono ben rare sul mercato e ottenibili solo con garanzie supplementari». [10]

Il settore delle costruzioni vale, comprendendo l’intera filiera, il 12% del Pil nazionale. [11] Paolo Buzzetti, presidente dei costruttori dell’Ance, assicura che in Italia la bolla immobiliare non c’è (a differenza di Spagna e Stati Uniti): «Qui c’è e c’è sempre stata una domanda di abitazioni superiore all’offerta. A parte qualche eccezione, non vi sono aree dove si sia costruito troppo rispetto alla richiesta. Al contrario ci sono 500 mila domande eccedenti rispetto alle abitazioni a disposizione». Considerato com’è stata trattata l’edilizia negli ultimi tempi («politica incosciente e distruttiva»), la sua idea è che potevamo anche aspettarci di peggio. [12]

Mentre Francia e Germania puntavano sull’edilizia per uscire dalla crisi e varavano aiuti alle coppie giovani o sgravi sulle ristrutturazionidi qualità, in Italia si è fatto di tutto per spingere le famiglie a non comperare. Buzzetti: «Patto di Stabilità e ritardi abissali nei pagamenti da parte della Pubblica amministrazione hanno messo in ginocchio le imprese. Patrimoniali sulla casa, lo shock dell’Imu e il crollo dei mutui concessi hanno spossato e frenato le famiglie. Cosa potevamo aspettarci da tanto clima di sfiducia? Non si comprano le cravatte, figuriamoci le case. Per fortuna ora vedo dei cambiamenti. Se quanto previsto dal decreto Sviluppo passerà, forse ci salveremo dal crinale. Penso soprattutto al taglio dell’Iva sull’invenduto: un’imposta capestro che blocca completamente il mercato, tanto che ai costruttori non conviene nemmeno affittare le case ferme». [12]

A guardare il bicchiere mezzo pieno, l’immobiliare italiano ha retto meglio di altri Paesi alla crisi internazionale che è partita quattro anni fa dalla crisi dei mutui subprime americani. A guardarlo mezzo vuoto, va constatata la concorrenza crescente dei mercati emergenti che toglie spazi ai Paesi più maturi come il nostro. [11] Nonostante il mattone italiano sia il quarto in Europa per importanza, occupa gli ultimi posti nella classifica delle cosiddette transazioni cross border, cioè gli acquisti da parte di investitori provenienti dall’estero: nel 2011 solo il 18% dei 4 miliardi di euro impiegato da investitori istituzionali proveniva da oltrefrontiera: è la quota peggiore da quando c’è l’euro. [13]

Nel primo trimestre del 2012 solo 24 milioni di euro su 400 sono stati spesi da operatori stranieri. Paolo Gasperini: «Che poi tali sono solo dal punto di vista giuridico, perché si tratta di Bnp Paribas, che nel nostro Paese ha rilevato le attività di Bnl, e di Carrefour, presente in Italia con supermercati e ipermercati da decenni». Lo spread del Btp ai livelli attuali relega l’Italia nell’elenco dei Paesi a rischio, ma paghiamo anche l’incertezza normativa. Cesare Ferrero, amministratore delegato di Bnp Paribas Real Estate: «A uno straniero non puoi spiegare che dopo sei mesi dal varo dell’Imu non si sa quanto bisognerà pagare». [13] Se gli stranieri acquistano meno case italiane, gli italiani sono sempre più attratti dal “mattone straniero”: l’acquisto di monolocali all’estero è in crescita del 10,8 per cento. [2]

Note [1] Gino Pagliuca, CorrierEconomia 18/6; [2] Luisa Grion, Rosa Serrano, la Repubblica 20/6; [3] Marco Sodano, La Stampa 20/6; [4] Giuliana Ferraino, Corriere della Sera 20/6; [5] Paolo Foschi, Corriere della Sera 22/6; [6] Laura Fugnoli, la Repubblica 27/5; [7] Gabriele Guccione, la Repubblica 22/6; [8] Aldo Lampani, la Repubblica 20/6; [9] Marco Bettazzi, la Repubblica 21/6; [10] Gino Pagliuca, Corriere della Sera 4/6; [11] l. d. o., la Repubblica 4/6; [12] l. gr., la Repubblica 20/6; [13] Paolo Gasperini, CorrierEconomia 4/6; [14] Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 22/6.

Il sottoutilizzo delle fabbriche di auto

(ANSA) - ROMA, 29 GIU - Nel continente europeo, il 40% delle fabbriche di automobili non lavora a livelli sufficienti per produrre profitti. Secondo uno studio di AlixPartners, che viene riportato da Autoactu, questo problema di sovraccapacità colpisce soprattutto la Francia, la Spagna e l'Italia. Nel nostro Paese, in particolare, l'utilizzo della capacità produttiva degli impianti è solo del 54%, con 1,4 milioni di unità. Si tratta del tasso di utilizzo più basso rispetto agli altri 4 principali mercati europei che oscillano tra l'85% di Germania e Gran Bretagna e il 60% della Francia. La situazione complessiva - sottolinea AlixPartners - migliorerà solo a medio termine. Nel 2012 è previsto infatti in Europa un mercato a 13,5 milioni di unità, inferiore del 20% rispetto al 2011. E si dovrà attendere il 2020 per toccare di nuovo il livello del 2007, a 16 milioni di unità. Le cifre esposte da AlixPartners - specialista delle ristrutturazioni industriali - sono preoccupanti, ben più negative di quelle fornite dall'ACEA, l'associazione che rappresenta i costruttori europei, che aveva affermato, durante un'audizione del suo presidente Sergio Marchionne, che "il 20% delle capacità produttive installate in Europa sono superflue". La soglia indicata da AlixPartners (40%) si riferisce al numero di impianti che lavora al di sotto del 75-80% della capacità, quindi operano in perdita. La società di consulenza evidenzia che ad essere meno utilizzate, oltre a quelle citate, sono anche le fabbriche in Russia e in Turchia. In dettaglio la capacità in Germania è di 6,4 milioni di unità all'anno e quella in Gran Bretagna di 1,6 milioni, con un tasso di utilizzazione per entrambi i Paesi superiore all'85%. In Spagna questo valore scende al 70% (la capacità complessiva è di 3 milioni di unità), in Francia al 60% (3,3 milioni) ed in
Italia al 54% (1,4 milioni).

domenica 1 luglio 2012

I debiti delle regioni spagnole

Le regioni spagnole hano un debito di 145 miliardi e quest'anno devono raccogliere 35 miliardi di euro. Non sanno come fare, per questo hanno chiesto aiuto allo Stato centrale, che in cambio del sostegno pretende il rispetto di rigorose regole di bilancio. Madrid ha aperto per loro una linea di credito di 5 miliardi e gli ha prestato 17,7 miliardi per pagare i vecchi debiti. Per ora non può fare di più.