L'Eia ha aggiornato la sua stima sulla riserve globali di shale gas. Calcola che ci siano 7,3 migliaia di miliardi di metri cubi di gas. Gli Stati Uniti, che più stanno sfruttando questa risorsa, ne hanno meno di Cina, Argentina e Algeria. La Polonia, che avrebbe le maggiori riserve europee, non è tra i primi dieci.
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mercoledì 12 giugno 2013
venerdì 7 giugno 2013
La sigaretta elettronica della Camel
Scrive il Financial Times che Reynolds, il gruppo che controlla tra gli altri i marchi Camel e Pall Mall, sta per lanciare la sua prima sigaretta elettronica. Altria, che controlla Marlboro, lancerà la sua entro fine anno. Goldman Sachs calcola che quest'anno il mercato delle sigarette elettroniche varrà 300 milioni di dollari. Alcuni analisti prevedono che raggiunga il miliardo nel giro di un paio d'anni.
venerdì 17 maggio 2013
Se anche giovani cinesi hanno problemi a trovare lavoro
Anche in Cina i giovani iniziano ad avere problemi a trovare lavoro. Secondo il ministro dell'istruzione cinese quest'anno avranno la laurea 7 milioni di studenti, 190mila in più rispetto al 2011. I media cinesi scrivono che per loro questo può essere il "più duro" degli ultimi anni per i neolaureati. Alla fine di aprile solo 3 neolaureati su 10 aveva trovato lavoro a Shanghai, il 10% in meno rispetto all'anno scorso.
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giovedì 16 maggio 2013
Facebook può finire in crisi
Gli investitori temono che Facebook interessi sempre meno alle giovani generazioni, interessate piuttosto a reti alternative come Twitter, WhatsApp, Tumblr, Line, Viber, Snapchat. "Una delle più frequenti conversazioni che ho con i miei investitori è quella sul disinteresse delle giovani generazioni per Facebook" dice Mark Mahaney, analisti di Rbc. Comunque oggi ogni giorno 665 milioni di persone usano Facebook.
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martedì 14 maggio 2013
Le Borse e le Banche centrali
Nel suo anno e mezzo alla guida della Banca centrale europea Mario Draghi ha tagliato quattro volte i tassi (erano all’1,5% quando è entrato in carica e ora sono allo 0,5%), ha prestato mille miliardi alle banche, ha comprato i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà e ha promesso che se sarà necessario tornerà a comprarli, e in quantità illimitata. Ha riempito di soldi l’Europa come nessuno aveva mai fatto prima, ma quel denaro si ferma nei bilanci di banche troppo spaventate per prestarli alle imprese. Al massimo i soldi finiscono in Borsa. «Siete frustrati per la cautela delle banche?» gli ha chiesto un giornalista americano nella conferenza stampa del 2 maggio, dopo l’ultimo taglio dei tassi. «Siamo... sì, frustrati, certamente, ha usato la parola giusta – ha risposto il banchiere italiano –. Il fatto è che noi non andiamo in giro a spargere soldi con l’elicottero. In Europa bisogna passare dalle banche ». Sono trascorsi 44 anni da quando l’economista Milton Friedman inventò l’esempio dell’elicottero della banca centrale che getta banconote dal cielo su un paesino afflitto dalla deflazione, e quell’immagine è ancora straordinariamente efficace. Quando quel cronista lo ha stuzzicato, a Draghi saranno venuti in mente i suoi due principali colleghi, che hanno fatto già decollare i loro elicotteri spargisoldi: l’americano Ben Bernanke (non a caso 'Helicopter Ben', per i critici) e il giapponese Haruhiko Kuroda.
L’eccezionale politica monetaria espansiva della Bce appare poca cosa davanti a quello che stanno facendo la Federal Reserve e la Banca del Giappone. Dopo avere azzerato i tassi e immesso nel sistema 2mila miliardi di dollari comprando bond del Tesoro e titoli legati ai mutui, la Fed lo scorso settembre ha avviato il suo terzo piano di 'quantitative easing': «Compreremo titoli legati ai mutui al ritmo di 40 miliardi al mese», aveva annunciato Bernanke, salvo poi raddoppiare la spesa (a 85 miliardi) a dicembre. Bernanke continuerà a rovesciare denaro sull’economia americana finché la disoccupazione non sarà scesa abbastanza: quando ha iniziato il tasso dei senza lavoro era all’8,1%, ad aprile la quota di disoccupati era diminuita al 7,5%, l’obiettivo è scendere verso il 6%. Nel frattempo sull’altro lato del Pacifico il nuovo governatore giapponese Haruhiko Kuroda sta caricando i suoi elicotteri. Il primo ministro Shinzo Abe lo ha chiamato per aiutarlo a risollevare – a colpi di spesa pubblica – un’economia depressa da vent’anni e lui ci vuole riuscire con un piano monetario realmente faraonico: in due anni raddoppierà i soldi in circolazione in Giappone. La base monetaria aumenterà di 130mila miliardi di yen (987 miliardi di euro, ai cambi attuali). «Voglio adottare tutte le misure immaginabili » ha avvertito l’economista giapponese: comprerà senza molti scrupoli titoli di Stato con scadenze quarantennali, ma anche fondi comuni di investimento al ritmo di 7 miliardi di yen al mese. Il suo obiettivo è riconquistare un’inflazione stabile al 2%, un miraggio desiderabile in un Paese in cui i prezzi sono da anni in discesa e il debito è al 230% del Pil. Se poi, come in effetti sta accadendo, Kuroda ottiene anche una svalutazione dello yen che può dare una mano alle esportazioni, tanto meglio. Anche il Regno Unito è pronto a far decollare il suo elicottero. La cloche è affidata al canadese Mark Carney, che dal 1° luglio prenderà il posto dell’attuale governatore Mervyn King. La Banca d’Inghilterra, che ha tassi allo 0,5% da 4 anni, ha già adottato misure estremamente aggressive, comprando titoli di Stato per 375 miliardi di sterline (443 miliardi di dollari), ma da Carney – che da governatore del Canada ha protetto il Paese dalla crisi – molti si aspettano mosse più ardite.
Se queste strategie funzioneranno gli studenti di economia delle prossime generazioni troveranno nei loro manuali lunghi capitoli sugli anni in cui la crisi fu affogata in un mare di denaro. Se falliranno quelle pagine parleranno di come la recessione fu ulteriormente peggiorata da una bolla inflazionistica gonfiata da Bernanke, Kuroda e colleghi. Perché un’inflazione galoppante è il naturale effetto collaterale di una politica monetaria troppo espansiva.
Per il momento l’inflazione è sotto controllo, la domanda è debole e i soldi freschi non hanno dato grandiosi risultati nell’economia reale. Piuttosto si sono viste grandi cose sui mercati finanziari, che stanno facendo il pieno di nuova moneta. La ricerca di alti rendimenti ha portato le ondate di liquidità sul mercato dei titoli di Stato dell’euro, facendo crollare i tassi dei Btp italiani e dei Bonos spagnoli. Con tanti soldi in giro le Borse sembrano avere trovato il Paese di Bengodi, con gli indici che abbattono i massimi toccati prima della crisi: a marzo nuovo record storico Wall Street, questo martedì record per Francoforte, mercoledì record per la piccola Instanbul. Fra qualche settimana potrebbero arrivare anche i record di Londra e Zurigo.
Il rischio è che impreviste interruzioni del flusso di nuova liquidità facciano crollare i listini e rimandino alle stelle gli spread .La speranza è che nel giro di qualche mese si parli anche dei 'record' di ripresa delle aziende e dell’occupazione. Il bello della metafora dell’elicottero è che la pioggia di soldi aiuta la gente del villaggio a stare meglio. La banca e la Borsa non sono menzionate. da Avvenire
L’eccezionale politica monetaria espansiva della Bce appare poca cosa davanti a quello che stanno facendo la Federal Reserve e la Banca del Giappone. Dopo avere azzerato i tassi e immesso nel sistema 2mila miliardi di dollari comprando bond del Tesoro e titoli legati ai mutui, la Fed lo scorso settembre ha avviato il suo terzo piano di 'quantitative easing': «Compreremo titoli legati ai mutui al ritmo di 40 miliardi al mese», aveva annunciato Bernanke, salvo poi raddoppiare la spesa (a 85 miliardi) a dicembre. Bernanke continuerà a rovesciare denaro sull’economia americana finché la disoccupazione non sarà scesa abbastanza: quando ha iniziato il tasso dei senza lavoro era all’8,1%, ad aprile la quota di disoccupati era diminuita al 7,5%, l’obiettivo è scendere verso il 6%. Nel frattempo sull’altro lato del Pacifico il nuovo governatore giapponese Haruhiko Kuroda sta caricando i suoi elicotteri. Il primo ministro Shinzo Abe lo ha chiamato per aiutarlo a risollevare – a colpi di spesa pubblica – un’economia depressa da vent’anni e lui ci vuole riuscire con un piano monetario realmente faraonico: in due anni raddoppierà i soldi in circolazione in Giappone. La base monetaria aumenterà di 130mila miliardi di yen (987 miliardi di euro, ai cambi attuali). «Voglio adottare tutte le misure immaginabili » ha avvertito l’economista giapponese: comprerà senza molti scrupoli titoli di Stato con scadenze quarantennali, ma anche fondi comuni di investimento al ritmo di 7 miliardi di yen al mese. Il suo obiettivo è riconquistare un’inflazione stabile al 2%, un miraggio desiderabile in un Paese in cui i prezzi sono da anni in discesa e il debito è al 230% del Pil. Se poi, come in effetti sta accadendo, Kuroda ottiene anche una svalutazione dello yen che può dare una mano alle esportazioni, tanto meglio. Anche il Regno Unito è pronto a far decollare il suo elicottero. La cloche è affidata al canadese Mark Carney, che dal 1° luglio prenderà il posto dell’attuale governatore Mervyn King. La Banca d’Inghilterra, che ha tassi allo 0,5% da 4 anni, ha già adottato misure estremamente aggressive, comprando titoli di Stato per 375 miliardi di sterline (443 miliardi di dollari), ma da Carney – che da governatore del Canada ha protetto il Paese dalla crisi – molti si aspettano mosse più ardite.
Se queste strategie funzioneranno gli studenti di economia delle prossime generazioni troveranno nei loro manuali lunghi capitoli sugli anni in cui la crisi fu affogata in un mare di denaro. Se falliranno quelle pagine parleranno di come la recessione fu ulteriormente peggiorata da una bolla inflazionistica gonfiata da Bernanke, Kuroda e colleghi. Perché un’inflazione galoppante è il naturale effetto collaterale di una politica monetaria troppo espansiva.
Per il momento l’inflazione è sotto controllo, la domanda è debole e i soldi freschi non hanno dato grandiosi risultati nell’economia reale. Piuttosto si sono viste grandi cose sui mercati finanziari, che stanno facendo il pieno di nuova moneta. La ricerca di alti rendimenti ha portato le ondate di liquidità sul mercato dei titoli di Stato dell’euro, facendo crollare i tassi dei Btp italiani e dei Bonos spagnoli. Con tanti soldi in giro le Borse sembrano avere trovato il Paese di Bengodi, con gli indici che abbattono i massimi toccati prima della crisi: a marzo nuovo record storico Wall Street, questo martedì record per Francoforte, mercoledì record per la piccola Instanbul. Fra qualche settimana potrebbero arrivare anche i record di Londra e Zurigo.
Il rischio è che impreviste interruzioni del flusso di nuova liquidità facciano crollare i listini e rimandino alle stelle gli spread .La speranza è che nel giro di qualche mese si parli anche dei 'record' di ripresa delle aziende e dell’occupazione. Il bello della metafora dell’elicottero è che la pioggia di soldi aiuta la gente del villaggio a stare meglio. La banca e la Borsa non sono menzionate. da Avvenire
giovedì 9 maggio 2013
Moleskine non sta bene in Borsa
Come azienda, Moleskine va alla grande. Ieri ha presentato i conti del primo trimestre e i risultati sono ottimi: ricavi in aumento del 15,5%, a 16,4 milioni di euro, un margine operativo lordo cresciuto del 9,7%, a 5,7 milioni, un utile netto di 3,2 milioni (+20,5%). Sono poche le aziende italiane che in questo momento possono mostrare numeri simili. Il modello industriale, evidentemente funziona: taccuini e agende con lo storico marchio francese recuperato da abili manager italiani vengono prodotti in Cina e quindi venduti in tutto il mondo (il 46% in Europa, il 39% in America, il 15% in Asia) a prezzi da prodotto di alta moda. Quel margine operativo – più di un terzo dei ricavi – è enorme.
Il problema è Moleskine come titolo. Il 3 aprile scorso il debutto a Piazza Affari di un’azienda così di moda era stato accolto con entusiasmo. Il fondo Syntegra – attraverso la società lussemburghese Appunti che aveva comprato il 75% dell’azienda nel 2006 per 60 milioni – e un gruppo di manager tramite la fiduciaria Istifid hanno messo sul mercato il 50,17% delle azioni incassando poco meno di 245 milioni di euro da usare per ridurre il debito. L’operazione valutava Moleskine circa 20 volte i suoi utili. Una valutazione alta. Come le agende, anche le azioni erano un po’ care: Moleskine veniva trattata come una società di alta moda o un’azienda tecnologica estremamente innovativa.
L’Ipo ha avuto un successo straordinario. Ma chi si è precipitato a comprare il titolo (il 90% dell’offerta era riservato agli investitori istituzionali, il 10% ai risparmiatori) per ora non può dire di avere fatto un grande affare. Anzi, per un po’ probabilmente se l’è vista brutta. Piazzate a 2,3 euro il 3 aprile le azioni Moleskine hanno rapidamente iniziato a svalutarsi. Dopo due settimane valevano 1,8 euro. Un’altra settimana e l’azione era precipitata a 1,6. Meno trenta per cento in tre settimane. Avranno tremato gli anziani del New Jersey: il fondo pensione statale ha comprato il 2,6% delle azioni Moleskine, una parte degli assegni di questi vecchi americani dipende dalle sorti di questi modaioli taccuini neri. Per fortuna quell’1,6 euro è rimasto un minimo. L’azione nella seconda metà di aprile ha iniziato un recupero che l’ha riportata a quota 2 euro (2 euro tondi, la chiusura di ieri, con un calo dello 0,5%). Meglio di prima, ma dal debutto la Borsa ha bruciato il 12,7% di capitalizzazione del gruppo. I titoli pagati 245 milioni di euro oggi valgono 214 milioni. È passato solo un mese, ma le mitiche agendine di Chatwin, Hemingway e Picasso a Piazza Affari non hanno già più il fascino di una volta.
da Avvenire
Il problema è Moleskine come titolo. Il 3 aprile scorso il debutto a Piazza Affari di un’azienda così di moda era stato accolto con entusiasmo. Il fondo Syntegra – attraverso la società lussemburghese Appunti che aveva comprato il 75% dell’azienda nel 2006 per 60 milioni – e un gruppo di manager tramite la fiduciaria Istifid hanno messo sul mercato il 50,17% delle azioni incassando poco meno di 245 milioni di euro da usare per ridurre il debito. L’operazione valutava Moleskine circa 20 volte i suoi utili. Una valutazione alta. Come le agende, anche le azioni erano un po’ care: Moleskine veniva trattata come una società di alta moda o un’azienda tecnologica estremamente innovativa.
L’Ipo ha avuto un successo straordinario. Ma chi si è precipitato a comprare il titolo (il 90% dell’offerta era riservato agli investitori istituzionali, il 10% ai risparmiatori) per ora non può dire di avere fatto un grande affare. Anzi, per un po’ probabilmente se l’è vista brutta. Piazzate a 2,3 euro il 3 aprile le azioni Moleskine hanno rapidamente iniziato a svalutarsi. Dopo due settimane valevano 1,8 euro. Un’altra settimana e l’azione era precipitata a 1,6. Meno trenta per cento in tre settimane. Avranno tremato gli anziani del New Jersey: il fondo pensione statale ha comprato il 2,6% delle azioni Moleskine, una parte degli assegni di questi vecchi americani dipende dalle sorti di questi modaioli taccuini neri. Per fortuna quell’1,6 euro è rimasto un minimo. L’azione nella seconda metà di aprile ha iniziato un recupero che l’ha riportata a quota 2 euro (2 euro tondi, la chiusura di ieri, con un calo dello 0,5%). Meglio di prima, ma dal debutto la Borsa ha bruciato il 12,7% di capitalizzazione del gruppo. I titoli pagati 245 milioni di euro oggi valgono 214 milioni. È passato solo un mese, ma le mitiche agendine di Chatwin, Hemingway e Picasso a Piazza Affari non hanno già più il fascino di una volta.
da Avvenire
mercoledì 8 maggio 2013
Il biotech italiano ha bisogno di aiuto
Lo Stato deve 4 miliardi di euro alle imprese farmaceutiche, ma nemmeno il decreto sul pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione farà arrivare quei soldi alle aziende. «Colpa di alcuni tecnicismi» spiega Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria. La legge prevede come unico strumento per il pagamento dei debiti sanitari che la Regione faccia un’anticipazione di cassa con oneri a proprio carico: ma l’ente locale non ha nessun obbligo di ricorrere a questa soluzione, quindi sta a lei decidere se procedere o meno con i pagamenti. Farmindustria aveva sperato che il testo contenesse quantomeno una possibilità di compensare debiti e crediti (per le aziende farmaceutiche, infatti, è normale ogni anno rimborsare in anticipo alle Pubbliche amministrazioni parte delle cifre da incassare) ma nel decreto non c’è niente del genere. Mentre resta in piedi fino a fine anno il blocco delle azioni esecutive contro gli enti del sistema sanitario nazionale introdotto dal decreto Balduzzi: in sostanza la legge impedisce alle aziende farmaceutiche di muoversi con gli avvocati perché lo Stato paghi quanto dovuto.
Scaccabarozzi solleva il problema del pagamento dei crediti delle aziende farmaceutiche durante la presentazione dei risultati dello studio realizzato dal colosso della consulenza Ernst & Young sullo stato di salute delle biotecnologie in Italia. Non è un caso: il decreto sui debiti della Pubblica amministrazione è stato un’esemplare dimostrazione di quanto poco l’Italia si preoccupi di creare un ambiente positivo per aiutare le imprese che investono. Una trascuratezza confermata in pieno dall’indagine.
In 12 anni le imprese italiane che fanno ricerca e sviluppo in biotecnologie sono quasi triplicate: oggi sono 407 (erano 412 l’anno scorso) e di queste 256 sono 'pure biotech', cioè si occupano esclusivamente di biotecnologie. In Europa solo Regno Unito e Germania hanno più aziende biotecnologiche di noi. Questo è un settore preziosissimo per il sistema industriale nazionale, perché i risultati delle sue ricerche si applicano a campi molto diversi: soprattutto la farmaceutica, ma anche l’alimentare, l’informatica, l’ambiente, la chimica, l’agricoltura. Sono aziende che investono tanto (la quota di spese per la ricerca e lo sviluppo è stati pari al 26% dei ricavi nel 2010) e che pur essendo mediamente di piccola dimensione si sono organizzate in 'Cluster territoriali' per essere in grado di trasferire con efficacia sul mercato i risultati del loro lavoro. E soprattutto sono aziende in forte crescita: i dati del 2011, gli ultimi disponibili, indicano ricavi in aumento del 6,3% (a 7,1 miliardi di euro). L’aumento del fatturato delle aziende 'pure biotech' è anche più forte (+11%, a 1,4 miliardi). L’occupazione tiene: i dipendenti sono rimasti stabili (6.739 gli addetti in ricerca e sviluppo nel 2011, con un calo dello0,1%). «Eppure andiamo avanti con il freno a mano tirato » si arrabbia Alessandro Sidoli, presidente dell’associazione di settore Assobiotec, che fa l’elenco delle misure a favore delle ricerca varate altrove: in mezza Europa hanno detassato gli utili che derivano dalla cessione di proprietà intellettuale, in tutto il mondo (o quasi) è previsto del credito di imposta per l’attività di ricerca e sviluppo, in molti Paesi ci sono agevolazioni per i fondi di venture capital che investono su imprese ad alta innovazione. In Italia non c’è niente di tutto questo e anche le leggi che potrebbero aiutare non funzionano: il Decreto crescita 2.0 varato dal passato governo esclude le startup farmaceutiche, perché hanno tempi troppo lunghi (servono tra i 10 e i 12 anni per sviluppare un nuovo prodotto) rispetto a quelle tecnologiche. «Così rischiamo il naufragio» avverte Sidoli, segnalando che la quota di aziende biotecnologiche che hanno una disponibilità di cassa inferiore ai sei mesi è raddoppiata dal 22% del 2010 al 45% del 2012.Molte di queste aziende aspettano dall’Italia il pagamento di finanziamenti per la ricerca nazionali ed europei maturati e non ancora erogati. Questi non sono crediti commerciali, quindi sono esclusi dal Decreto sui debiti dello Stato. Ma vanno pagati con urgenza, avverte Assobiotec, se vogliamo evitare di uccidere aziende che altrimenti godrebbero di ottima salute.
da Avvenire
Scaccabarozzi solleva il problema del pagamento dei crediti delle aziende farmaceutiche durante la presentazione dei risultati dello studio realizzato dal colosso della consulenza Ernst & Young sullo stato di salute delle biotecnologie in Italia. Non è un caso: il decreto sui debiti della Pubblica amministrazione è stato un’esemplare dimostrazione di quanto poco l’Italia si preoccupi di creare un ambiente positivo per aiutare le imprese che investono. Una trascuratezza confermata in pieno dall’indagine.
In 12 anni le imprese italiane che fanno ricerca e sviluppo in biotecnologie sono quasi triplicate: oggi sono 407 (erano 412 l’anno scorso) e di queste 256 sono 'pure biotech', cioè si occupano esclusivamente di biotecnologie. In Europa solo Regno Unito e Germania hanno più aziende biotecnologiche di noi. Questo è un settore preziosissimo per il sistema industriale nazionale, perché i risultati delle sue ricerche si applicano a campi molto diversi: soprattutto la farmaceutica, ma anche l’alimentare, l’informatica, l’ambiente, la chimica, l’agricoltura. Sono aziende che investono tanto (la quota di spese per la ricerca e lo sviluppo è stati pari al 26% dei ricavi nel 2010) e che pur essendo mediamente di piccola dimensione si sono organizzate in 'Cluster territoriali' per essere in grado di trasferire con efficacia sul mercato i risultati del loro lavoro. E soprattutto sono aziende in forte crescita: i dati del 2011, gli ultimi disponibili, indicano ricavi in aumento del 6,3% (a 7,1 miliardi di euro). L’aumento del fatturato delle aziende 'pure biotech' è anche più forte (+11%, a 1,4 miliardi). L’occupazione tiene: i dipendenti sono rimasti stabili (6.739 gli addetti in ricerca e sviluppo nel 2011, con un calo dello0,1%). «Eppure andiamo avanti con il freno a mano tirato » si arrabbia Alessandro Sidoli, presidente dell’associazione di settore Assobiotec, che fa l’elenco delle misure a favore delle ricerca varate altrove: in mezza Europa hanno detassato gli utili che derivano dalla cessione di proprietà intellettuale, in tutto il mondo (o quasi) è previsto del credito di imposta per l’attività di ricerca e sviluppo, in molti Paesi ci sono agevolazioni per i fondi di venture capital che investono su imprese ad alta innovazione. In Italia non c’è niente di tutto questo e anche le leggi che potrebbero aiutare non funzionano: il Decreto crescita 2.0 varato dal passato governo esclude le startup farmaceutiche, perché hanno tempi troppo lunghi (servono tra i 10 e i 12 anni per sviluppare un nuovo prodotto) rispetto a quelle tecnologiche. «Così rischiamo il naufragio» avverte Sidoli, segnalando che la quota di aziende biotecnologiche che hanno una disponibilità di cassa inferiore ai sei mesi è raddoppiata dal 22% del 2010 al 45% del 2012.Molte di queste aziende aspettano dall’Italia il pagamento di finanziamenti per la ricerca nazionali ed europei maturati e non ancora erogati. Questi non sono crediti commerciali, quindi sono esclusi dal Decreto sui debiti dello Stato. Ma vanno pagati con urgenza, avverte Assobiotec, se vogliamo evitare di uccidere aziende che altrimenti godrebbero di ottima salute.
da Avvenire
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