Il mio pezzo da Avvenire di domenica
N Star, la maggiore compagnia elettrica del Massachussets, a febbraio ha annunciato un taglio del 34% della bolletta dei suoi clienti industriali: dal 1° aprile le aziende che rifornisce pagano l’elettricità 5,5 invece che 8,3 centesimi di dollaro al kilowattora. La utilitynordamericana ha promesso un taglio anche ai clienti domestici, che per ora dovranno accontentarsi di uno sconto del 27% sul gas. Qualche settimana dopo, a Roma, l’Autorità per l’energia elettrica ha comunicato agli italiani che il prezzo dell’elettricità sarebbe salito del 5,8%, a 18,3 centesimi di euro per kWh. Le aziende italiane pagano la luce poco meno dei normali cittadini, in media 16 centesimi per kWh. È quasi quattro volte la tariffa garantita da NStar. L’America taglia e l’Italia (ma più in generale l’Europa) stanga. Succede perché nel Nuovo mondo hanno trovato qualcosa che nel Vecchio mondo ancora non sanno se c’è: loshale gas . Il gas che si ottiene dagli scisti bituminosi (vedi box a fianco) ha cambiato in pochi anni lo scenario energetico mondiale. Con benefici, almeno per il momento, tutti americani. Gli Stati Uniti hanno scoperto di avere una riserva di gas naturale 'non convenzionale' da 23 mila miliardi di metri cubi. Basterebbe a coprire il fabbisogno nazionale per più di un secolo. È tanto gas ed è gas a basso prezzo. Se NStar può tagliare le tariffe è perché la maggioranza degli impianti di generazione di energia elettrica del Massachussets funziona a gas, e il costo del gas in America è crollato dai 14 dollari per 300 metri cubi del 2008 fino sotto ai 2 dollari (-85%). Un prezzo che sta scombussolando l’industria energetica nazionale: gli impianti a carbone ormai non sono più economicamente sostenibili mentre le stesse compagnie che estraggono gas naturale con i vecchi metodi sono costrette a chiudere quei pozzi che, a questi prezzi, producono in perdita. Mentre gli americani si godono un mondo che sta cambiando tutto a loro vantaggio, gli altri sono costretti ad aggiornare i loro progetti. Senza che la cosa fosse troppo notata, nel 2011 gli Stati Uniti sono diventati il primo produttore mondiale di gas naturale (con 684 miliardi di metri cubi estratti) rubando il posto alla Russia (che si è fermata a circa 634 miliardi di metri cubi). Si parla di energia, ma anche di potere. Mosca vende gas naturale ai suoi poco amati 'vicini' – come Polonia e Ucraina – con prezzi attorno ai 17 dollari per 300 metri cubi, 8 volte il prezzo americano.
Gli Usa, molto avanti nelle tecniche di liquidazione e rigassificazione, potrebbero intervenire. Ha previsto Fareed Zakaria, uno dei più autorevoli editorialisti economici statunitensi, che «alla scadenza dei contratti tra Russia e Paesi europei, Mosca si ritroverà a fronteggiare un drammatico calo nelle entrate », e presto «si passerà da un mondo in cui pochi Paesi – Russia, Iran, Qatar e Arabia Saudita – controllano il prezzo e le forniture di gas naturale a un mondo in cui questa fonte energetica sarà molto più diffusa».
Il miglior esempio delle imprevedibili novità nello scenario energetico mondiale viene da un progetto su cui già stanno lavorando in Alaska (Stato in cui si trova il 13% delle riserve americane dello shale gas): l’idea è realizzare una condotta che porti il gas verso sud, dove si dovrebbe costruire un impianto che lo riduca allo stato liquido così da poterlo caricare sulle navi cisterna e trasportarlo fino in Cina, dove oggi il gas naturale si paga 15,5 dollari per 300 metri cubi, 7 volte la quotazione Anche Pechino però vuole il suo gas a basso prezzo. Le stime dicono che la materia prima c’è: le riserve cinesi di gas non convenzionale sarebbero di circa 25 mila miliardi di metri cubi, anche maggiori di quelle degli Stati Uniti e i inferiori solo a quelle di Argentina, Messico e Australia, altre regioni ricche di shale gas. Il problema è che estrarre il nuovo gas è molto complicato e oggi nessuna compagnia cinese sa farlo. Difatti il colosso nazionale Sinopec ha investito 2,5 miliardi in un’alleanza con la statunitense Devon Energy per acquisirne le competenze. Anche l’italiana Eni è in cerca di shale gas in Cina. Il suo obiettivo prioritario resta però il gas non convenzionale europeo (le riserve sono stimate in 18 mila miliardi di metri cubi): ce ne sarebbe soprattutto in Piccardia (nella Francia del Nord), in Ucraina e in Polonia. Ma prima la Francia, lo scorso novembre, e poi la Bulgaria, a gennaio, hanno deciso di fermare le esplorazioni. Hanno bloccato tutto per ragioni ambientali: la tecnica del fracking che si usa per rompere gli scisti e liberare il gas prevede il pompaggio sotteranneo di liquidi che includono anche sostanze chimiche sospettate di inquinare le falde acquifere. È un sospetto, appunto: solo nell’ultimo mese in America l’autorità ambientale Epa ha finito per rimangiarsi tre documenti in cui accusava alcune aziende di avere inquinato l’acqua. Nuovi test dimostrano infatti che l’inquinamento non c’è stato. E nel Regno Unito il Dipartimento per l’energia e il cambiamento climatico ha da poco concesso il riavvio delle esplorazioni nei mari del Nord.
Nel dubbio, l’Europa vuole limitare le ricerche. Col rischio di danneggiare soprattutto la Polonia, che è già in uno stato abbastanza avanzato di esplorazione. Varsavia ha già fatto capire che non è disposta a fermarsi. Nemmeno davanti alle prime delusioni: Exxon , tra le prime ad avviare le esplorazioni, a gennaio ha annunciato che i due primi pozzi non sono in grado di dare gas in quantità che possa giustificare la loro esistenza e l’istituto geologico polacco ha tagliato le stime sulle riserve dell’85%, da 5,3 milioni a 800 mila metri cubi. Ma le ricerche vanno avanti. La Polonia vuole essere la prima, in Europa, ad emanciparsi dagli equilibri geopolitici dell’energia del Novecento.
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