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venerdì 20 dicembre 2013

Gli anni di Bernanke alla Federal Reserve

Il vecchio Richard Shelby, storico senato­re dell’Alabama, glielo aveva detto. Lo a­veva avvertito precisamente il 15 no­vembre 2005, quando Ben Shalom Bernanke si era presentato in Senato per ottenere la conferma della nomina alla guida della Fe­deral Reserve avuta qualche mese prima dal presidente George W. Bush. «Spero che non debba avere a che fare con una crisi da ge­stire, ma so che le capiterà» aveva detto Shelby introducendo una domanda sulle ca­pacità della Fed di reagire a una crisi. Ber­nanke aveva risposto di avere fiducia negli strumenti a disposizione della Banca cen­trale americana. «E farò sicuramente del mio meglio – aveva promesso – per essere pre­parato a qualsiasi cosa possa incontrare lun­go la mia strada. Ma credo che siano stati fat­ti progressi nel rafforzare il sistema per resi­stere meglio davanti agli choc».

O Shelby è un gran menagramo o un vero indovino, perché la crisi che aveva pronosti­cato è arrivata ed è stata gigantesca. Ber­nanke si era detto pronto a tutto ed è stato servito. Questo geniale ebreo americano del­la Georgia, nipote di un immigrato polacco e figlio di un farmacista e di una maestra, si è trovato a dovere gestire: il collasso del si­stema finanziario americano e forse mon­diale, una clamorosa caduta del Pil degli Sta­ti Uniti, l’incapacità di rialzarsi dell’econo­mia globale. È entrato in carica nel febbraio del 2006 e un anno dopo sono arrivati i pri­mi scricchiolii dai mutui subprime.Nell’e­state del 2008 la crisi dell’immobiliare ame­ricano era già enorme. Il 15 settembre falli­va Lehman Brothers e la finanza mondiale finiva nel panico. Bernanke spiegherà che la Fed sarebbe anche intervenuta, ma il Teso­ro non poteva salvare Lehman con soldi pub­blici e il Congresso si sarebbe probabilmen­te opposto. Insomma, se lasciare fallire Leh­man Brothers è stata una colpa – e questo è tutt’altro che scontato – comunque è una colpa che Bernanke condivide con molti al­tri.
Più 'sua' è la responsabilità – e anche su questa solo la storia dirà se ha fatto bene o male – di avere tentato di spingere la ripre­sa guidando la Fed con un’audacia mai vista. Bernanke non si è limitato ad azzerare il co­sto del denaro (ha ereditato tassi al 4,5% ha provato a portarli sopra il 5% ma ha finito per ridurli bruscamente fino all’attuale 0-0,25%, fissato a fine 2008) ma ha anche usa­to i soldi potenzialmente illimitati della Fed per gonfiare il Pil degli Stati Uniti. Nel no­vembre del 2008 la Banca centrale ha avvia­to il primo quantitative easing ,un piano per rendere ancora più abbondante la disponi­bilità di denaro non solo usando i tassi ma anche la creazione di moneta. La Fed ha i­niziato a comprare miliardi e miliardi di ti­toli legati ai mutui e obbligazioni del Tesoro. Si è fermata dopo un anno e mezzo di tem­po e 1.300 miliardi di spesa, quando sem­brava che la ripresa fosse abbastanza forte da resistere senza aiuti. Ma non era vero, e Ber­nanke – nel frattempo confermato da Barack Obama – è stata costretto a riprendere lo shopping dopo pochi mesi. Il secondo pia­no diquantitative easing è durato altri sei mesi ed è costato altri 600 miliardi alla Fe­deral Reserve. Anche questa operazione non è stata sufficiente. Nel settembre del 2012 Bernanke ha annunciato che la Fed si sa­rebbe messa a comprare ogni mese titoli le­gati ai mutui per 40 miliardi di dollari e a di­cembre ha alzato il tiro fino a 85 miliardi. Gli acquisti, ha spiegato la Fed, sarebbero andati avanti finché la ripresa non fosse stata so­lida. E per ripresa solida, ha chiarito Ber­nanke, si intende con una disoccupazione al 6,5%. Il tasso oggi è al 7% e il bilancio del­la Fed in sette anni è cresciuto da 800 mi­liardi a 4mila miliardi di dollari. Sugli effet­ti positivi o meno del quantitative easing è aperto il dibattito tra i massimi economi­sti del mondo. Quelli sondati dal Wall Street Journal si sono divisi equamente tra so­stenitori e critici. Dai giornalisti Bernanke sarà ricordato an­che come il governatore che ha 'inventa­to' la conferenza stampa per annunciare le decisioni della Fed. Quella dell’aprile del 2011 è stata la prima nel secolo di storia della banca centrale americana. Quella di ieri è stata l’ultima con Bernanke come protagonista. Se al debutto era stato ava­rissimo di notizie, all’addio ha regalato ai cronisti l’inizio del tapering. Quasi una galanteria, per evitare che toccasse a Ja­net Yellen, che da gennaio lo sostituirà alla guida della Fed, l’onere di dare la prima – indispensabile – frenata.
da Avvenire

martedì 17 dicembre 2013

Le tasse scontate per la rivalutazione della Banca d'Italia

Il controverso decreto legge che riforma la Banca d’Italia, in di­scussione in questi giorni al Sena­to, non precisa quante tasse dovran­no pagare i soci della nostra Banca centrale sui profitti che otterranno. Non è una variabile da poco. La rifor­ma rivaluta le quote della Banca d’I­talia di 50mila volte, portandone il va­lore complessivo da 156mila a 7,5 mi­liardi di euro. In questo modo il de­creto genera dal nulla un profitto e­norme per quelle banche private che hanno ereditato dal loro passato di i­stituti di credito statali il possesso del 95% delle quote della Banca centrale, e che adesso possono venderle o te­nerle per migliorare i loro bilanci. L’as­senza di chiarezza sulla tassazione di questa generosa rivalutazione era sta­ta segnalata anche come un proble­ma nell’audizione in Senato di Igna­zio Visco, governatore della Banca d’I­talia, e Giovanni Sabatini, presidente dell’Associazione bancaria.

Il governo ha provveduto intervenen­do sulla legge di Stabilità. Un emen­damento introdotto dall’esecutivo al comma 91 della finanziaria stabilisce che su quei 7,5 miliardi di rivalutazio­ne i soci della Banca d’Italia paghe­ranno un’aliquota del 12%, sostituti­va dell’Ires, dell’Irap e di eventuali al­tre addizionali. Il versamento sarà in tre rate, senza interessi, di cui la prima nella prossima primavera.

È un trattamento molto favorevole per le banche che hanno quote nella Ban­ca centrale (a partire da Intesa San­paolo,
 UniCredit e Generali, che as­sieme controllano il 71%). Se su quei 7,5 miliardi di profitti avessero dovu­to pagarci l’Ires, l’imposta sui redditi delle imprese, l’aliquota sarebbe sta­ta più che doppia (al 27,5%) in condi­zioni normali e addirittura tripla l’an­no prossimo, considerato che per il 2014 l’Ires su banche e assicurazioni subirà un’addizionale di altri 8,5 pun­ti percentuali. Per l’Erario si parlereb­be di un incasso di oltre due miliardi e mezzo di euro.

Invece, se l’emendamento passerà, lo Stato dovrà accontentarsi di incassa­re 900 milioni di euro. Poco, conside­rato che fino ai giorni scorsi si parla­va di un gettito superiore al miliardo da ottenere attraverso un’imposta compresa tra il 16 e il 20%. Nel primo caso il gettito sarebbe stato di 1,2 mi­liardi, nel secondo di 1,5 miliardi. Di questi tempi 600 milioni di euro in più da ottenere su questo mezzo regalo alle banche sarebbero potuti essere molto utili per le casse pubbliche.

Un altro aiuto alle banche arriverà dal possibile ritiro dell’emendamento sul­la Tobin Tax. La modifica corregge­rebbe la tassa sulle transazioni finan­ziarie, che ha dato risultati molto al di sotto delle aspettative, abbassando l’a­liquota
 (dallo 0,1 allo 0,01%) ma ap­plicando l’imposta a tutte le transa­zioni finanziarie, escluse quelle sui ti­toli di Stato. Il testo ha trovato un ap­poggio trasversale: tutti i capigruppo della Commissione Bilancio della Ca­mera la hanno sostenuta. Ma il gover­no è contrario e il viceministro dell’E­conomia, Stefano Fassina, ha chiesto di ritirarla: «L’obiettivo è condiviso, ma la portata dell’operazione è molto ri­levante, non è un caso se nessuno Sta­to nazionale ha fatto questa opera­zione prima di noi». I sostenitori del­l’emendamento, a partire da Luigi Bobba, del Pd, primo firmatario del testo, potrebbero accettare il ritiro a condizione che a gennaio il governo riapra, in Italia e in Europa, il dibatti­to sulla tassa anti-speculazione.


giovedì 12 dicembre 2013

La riforma della Banca d'Italia. Perché no

La riforma della Banca d’Italia non è uno di quegli argomenti di cui si chiacchiera nei bar. Se proprio devono parlare di politica, gli italiani discutono piuttosto dell’Imu e dei suoi sostituti dai nomi esotici. Ma in questi giorni l’abolizione della tassa sulla casa (almeno nella sua vecchia forma) e la trasformazione della nostra Banca centrale in una public companycondividono lo stesso destino, perché il governo a fine novembre li ha inseriti nel medesimo decreto legge, il numero 133. Un testo che adesso è in discussione in Senato e che, se approvato in via definitiva dal Parlamento, può rendere il nostro Paese un caso unico al mondo: in nessun’altra nazione investitori privati stranieri possono avere una quota di maggioranza della Banca centrale.

Sono pochissime le Banche centrali non interamente di proprietà dello Stato. Soltanto la Federal Reserve americana, istituita un secolo fa, si serve di "banche centrali federate" il cui capitale è sottoscritto da privati. Ma questi privati sono le stesse banche (tutte, senza eccezioni), obbligate a partecipare al capitale se vogliono esercitare il mestiere di istituto di credito. E comunque le banche americane non sono vigilate dalla Fed, ma dal governo, e sono soci simbolici: le azioni non sono trasferibili e somigliano a una sorta di lasciapassare. Invece la Banca d’Italia è scivolata in mani private durante gli anni Novanta, quando le banche statali che ne controllavano il capitale sono state privatizzate.

Così oggi banche e società di assicurazioni italiane controllano il 94,3% delle quote di Bankitalia, gli enti pubblici Inps e Inail hanno il restante 5,7%. Gli azionisti privati della Banca d’Italia naturalmente non possono intervenire in nessun modo sull’attività istituzionale e le scelte di politica monetaria. Ma c’è un motivo se in quasi tutto il mondo la Banca centrale è gestita dallo Stato. Stampando denaro dal nulla in regime di monopolio e impiegandolo in titoli e prestiti alle banche in cambio di un interesse – l’attività di "signoraggio" – ogni istituto centrale incamera degli utili. Per esempio la nostra Banca centrale nel 2012 ha fatto utili per 2,5 miliardi. Soldi che per statuto vengono in parte messi "a riserva", in parte distribuiti allo Stato e in (piccola) parte divisi tra i soci.

Non c’è motivo per cui dei privati debbano guadagnare da un’attività di totale monopolio concesso per legge dallo Stato. Infatti il Parlamento aveva deciso, nel 2005, che i titoli della Banca centrale sarebbero dovuti tornare sotto il controllo pubblico. Soltanto che lo stesso Parlamento non ha mai approvato il regolamento per l’attuazione di questa legge e quindi il ritorno allo Stato della Banca d’Italia non è mai avvenuto.

La riforma decisa dal governo il 27 novembre abolisce la legge del 2005 e trasforma la Banca d’Italia in una società a proprietà diffusa (una public company, appunto) in cui nessuno può avere una quota superiore al 5%. Attualmente sono tre le banche che superano quella soglia: Intesa Sanpaolo, UniCredit e Generali, che assieme posseggono il 71% del capitale. Quindi dovrebbero cedere complessivamente il 56%.

Il decreto stabilisce che gli azionisti possono essere banche, fondazioni bancarie, società di assicurazioni, enti di previdenza e fondi pensione. Le norme europee non ammettono in generale discriminazioni all’interno dell’Unione, quindi il governo ha pensato bene di stabilire che questi soci possono venire da qualunque dei ventotto Paesi della Ue. Se gli acquirenti delle quote da cedere fossero nuovi soci stranieri, allora ci ritroveremmo con una Banca d’Italia non più italiana.

Così ad esempio – come ha notato Massimo Mucchetti, l’ex vicedirettore del "Corriere della Sera" eletto senatore con il Pd – può succedere che «all’assemblea annuale di Via Nazionale il delegato di una banca cipriota quotista, magari legato ai servizi segreti russi, possa venire a concionare». Con questo decreto il governo dà un aiuto alle banche azioniste e fa incassare qualcosa all’Erario. La legge aggiorna il valore del capitale della Banca d’Italia, che era rimasto alle lire del 1936 (300 milioni, cioè circa 156mila euro) e lo porta a 7,5 miliardi.

Una manna per le banche azioniste: la loro partecipazione nella Banca centrale si rivaluta di quasi 50mila volte. Il decreto del governo corteggia le banche stabilendo che se rivaluteranno nei loro bilanci le quote della Banca d’Italia che detengono allora avranno conti migliori da presentare aglistress test a cui la Banca centrale europea le sottoporrà il prossimo anno. Un abbellimento che però deve ancora essere approvato dalla Bce. Il governo, invece, tasserà queste rivalutazioni per incassare circa un miliardo (soldi che potrà usare per fare quadrare il bilancio pubblico del prossimo anno).

Tutti contenti, dunque? Non proprio, e difatti la riforma sta incontrando più di un ostacolo in Parlamento e anche a Francoforte, dove la Bce non ha potuto ancora dare il suo parere sulla nuova legge a causa – pare – delle forti perplessità della "solita" Bundesbank: i tedeschi considerano questa rivalutazione delle quote un ingiusto regalo alle banche italiane e sospettano che si tratti di una manipolazione vietata dai principi contabili internazionali con i quali i bilanci debbono essere redatti. Può darsi che abbiano ragione.

«Con la Banca centrale europea stiamo facendo una figura molto meschina» ammette Fulvio Coltorti, economista e direttore emerito dell’area studi di Mediobanca. Assieme ad Alberto Quadrio Curzio, Coltorti ha proposto, già dallo scorso aprile, una soluzione che permetterebbe di fare della Banca d’Italia una leva per la crescita dell’economia nazionale. Il piano, battezzato "Bankoro", dal punto di vista tecnico è abbastanza complesso. Semplifichiamo. I due economisti propongono che il Tesoro costituisca la Bankoro Spa, una società della Banca d’Italia che compri l’oro custodito da via Nazionale, 79 milioni di once che ai prezzi attuali valgono circa 72 miliardi di euro.

Attraverso questa vendita la Banca d’Italia avrebbe un profitto su cui dovrebbe pagare circa 20 miliardi di tasse. Il Tesoro incasserebbe quei soldi e li userebbe per liquidare gli attuali soci non pubblici della Banca d’Italia, diventandone socio per oltre il 90%. I soldi incassati dalle banche private in questa operazione sarebbero utili "realizzati", e quindi validi a tutti gli effetti per aumentare il loro patrimonio, che reggerebbe meglio gli stress test della Bce senza rischiare accuse di manipolazioni. Data la loro origine, tuttavia, questi utili sarebbero vincolati in un fondo che lo Stato non tasserebbe per un certo numero di anni, a patto che impieghi le sue risorse per finanziare gli investimenti di aziende particolarmente dinamiche, capaci quindi di "spingere" la ripresa della nostra economia.

«La nostra proposta – spiega Coltorti – parte dall’idea che l’oro della Banca d’Italia appartiene agli italiani. Rivalutarlo può servire a creare un fondo per finanziare la crescita di un Paese in forte depressione economica». L’economista è andato a vedere quanto altre Banche centrali europee hanno versato ai loro Stati negli ultimi quattordici anni, cioè da quando esiste l’euro, sotto forma di tasse e utili: 26 miliardi la Banque de France, 55 miliardi la Bundesbank, 4,6 miliardi la Banca d’Italia.

Questo non tanto perché i profitti della Banca d’Italia siano stati distribuiti tra i suoi azionisti (le banche hanno avuto 709 milioni in 14 anni) ma soprattutto perché la nostra Banca centrale mette molti dei suoi utili "a riserva", e così ha accumulato un tesoretto enorme, che oggi contiene, oltre all’oro, più di 38 miliardi di euro in titoli di Stato, azioni, quote di fondi. La soluzione "Bankoro" sarebbe un modo perché quei soldi vadano a spingere una ripresa che non c’è e che i più ottimisti prevedono comunque debolissima.
La riforma in discussione in Parlamento – elaborata da un ministro, Fabrizio Saccomanni, che viene proprio dalla Banca d’Italia – va in una direzione molto diversa. Coltorti critica anche gli aspetti tecnici. Non solo l’idea della public company in cui possono entrare degli stranieri. Ma anche la perizia appare «non proprio condotta a regola d’arte»: è firmata da tre periti scelti dalla stessa Banca centrale – l’ex presidente della Corte costituzionale Franco Gallo, l’ex vicepresidente della Bce ed ex primo ministro greco Lucas Papademos e il rettore della Bocconi, Andrea Sironi – e il governo ha poi scelto di adottare il valore massimo della loro stima (che suggeriva una forchetta da 5 a 7,5 miliardi).

L’economista una sua spiegazione su queste scelte se l’è data: «Così stando le cose, la Banca d’Italia dimostra di volersi smarcare dal controllo pubblico facendo mancare al sistema il suo aiuto nella fase peggiore della crisi. Ma i profitti di una Banca centrale nascono sulle spalle dello Stato e ad esso devono tornare. Altrimenti finiscono ad alimentare una corporazione che punta solo a garantirsi la sopravvivenza in mezzo a famiglie e imprese sempre più impoverite. Diciamo sempre che vogliamo abbatterle, le corporazioni, e invece...».

mercoledì 11 dicembre 2013

Draghi e Visco rassicuranno Weidmann

In questi anni abbiamo visto le Banche centrali pren­dere decisioni che sarebbero state impensabili fino a poco tempo fa: hanno azzerato i tassi, allargato spaventosamente i loro bilanci, prestato enormi quan­tità di denaro alle banche, comprato miliardi di titoli, e non solo titoli di Stato. Sarà ora di fare ordine e chia­rire che gli obiettivi, se non il mandato, delle Banche centrali sono cambiati?

Secondo Mario Draghi e Ignazio Visco no, non ce n’è bisogno. L’ex governatore della Banca d’Italia passato alla guida della Banca centrale europea e il suo suc­cessore a Palazzo Koch ne han­no parlato a un convegno ro­mano in memoria di Curzio Giannini, economista e grande studioso delle Banche centrali scomparso dieci anni fa. Il tema, per Draghi, era evidentemente insidiosissimo: la Bun­desbank, già insofferente per le politiche monetarie aggressive sperimentate a Francoforte, non aspetta al­tro che nuove occasioni per andare all’attacco. Ma Dra­ghi non ha dato spunti perché il governatore tedesco Jens Weidmann potesse allarmarsi. È partito da una delle idee di Giannini, quella per cui le Banche centra­li e il denaro si basano sulla «fiducia», per chiarire che perché i cittadini possano fidarsi, e quindi accettare le scelte di un ente sovranazionale come la Bce, questa non può fare scelte che vanno oltre il suo mandato, che consiste nel mantenere la stabilità dei prezzi. «La fiducia è intimamente collegata con l’agire all’interno del proprio mandato. La Bce sta operando e deve o­perare solo all’interno del suo mandato» ha assicura­to Draghi. Poi, a braccio, ha ricor­dato che la 'sua' Banca centrale «è potente, è indipendente ma non è eletta» quindi deve rispettare il compito avuto dai legislatori. Il mandato, però, può includere an­che misure ardite come il piano sal­va- Stati Omt o il prestito salva-ban­che Ltro, che sono «la ricerca della stabilità dei prezzi con tutti i mez­zi che la situazione richiede».

Visco, come era prevedibile, non la vede diversamente. «Non c’è biso­gno di trasformare la stabilità fi­nanziaria in un obiettivo delle politiche monetarie» ha detto il governatore della Banca d’Italia, «fare della sta­bilità finanziaria un obiettivo esplicito e supplemen­tare della politica monetaria può creare confusione sulle responsabilità e creare il rischio di conflitti».

Visco, come era prevedibile, non la vede diversamente.


da Avvenire

martedì 26 novembre 2013

La ripresa? Occhio allo shopping di Natale

Attenti agli acquisti, da qui a Natale. Sarà lo shopping delle pros­sime settimane a dirci se l’e­conomia italiana l’anno pros­simo migliorerà in maniera significativa. Parola di Mario Deaglio, uno dei più autore­voli economisti italiani: «Se le cose funzionano dovremo a­vere un miglioramento lieve già nei consumi natalizi». L’indicazione del professore piemontese (un’indicazione, non una previsione, dato che «nell’economia attuale fare previsioni è molto più diffici­le rispetto a vent’anni fa») può essere presa come la massima sintesi del più com­plesso ragionamento conte­nuto nel Diciottesimo rap­porto sull’economia globale e l’Italia, frutto della collabo­razione tra il Centro di ricer­ca Luigi Einaudi e Ubi Banca.
Contano gli acquisti di Nata­le perché al centro della crisi italiana c’è la paura di spen­dere. «Le famiglie sono anco­ra solide dal punto di vista fi­nanziario, ma hanno paura del futuro – spiega Deaglio –. Quindi contraggono i consu­mi e piuttosto comprano Btp». Ecco che allora «supe­rare la paura di compiere ac­quisti necessari e già rinviati» è un passaggio fondamenta­le per fare ripartire la nostra economia, e quindi «è com­prensibile che si ragioni sui 200 euro in più o in meno...». L’acquisto non più rimanda­to può essere il fattore capa­ce di fare girare verso l’alto la curva della crescita italiana. L’alternativa e un lieve recu­pero e un’immediata stabi­lizzazione su bassi livelli. Se­condo l’analisi del Centro Ei­naudi, per dare più forza a questa risalita debole attesa per il primo trimestre del­l’anno prossimo occorrono poi altri due passaggi: il pri­mo è ricominciare a ragiona­re per settori, nel senso di de­cidere su quali punti di forza puntare per i prossimi anni; il secondo è recuperare i soldi pubblici sprecati e usarli per «iniziative produttive». Ba­sterà? No, se l’Europa non ci aiuta e non facciamo le rifor­me: «All’Eurogruppo a Spa­gna e Francia hanno avuto più tempo per aggiustare i conti, noi no. Se la Germania su questo fosse più leggera a­vremmo quei 4-5 miliardi in più che ci aiuterebbero a spingere la ripresa. Se però poi non facciamo le riforme possiamo avere comunque una ripresa, ma una ripresa breve: andiamo a sbattere su­bito contro un tetto molto basso e dopo 6-8 mesi ci tro­veremo di nuovo nelle diffi­coltà di prima, ma senza nes­suno disposto a farci credito»
 Bisogna proteggere i fili d’er­ba della ripresa dalla gelata (e infatti Fili d’erba, fili di ripre­sa è il titolo dello studio del Centro Einaudi). Vale per l’I­talia ma anche per gli altri. A partire dalla Francia, dove, se­condo Deaglio, «hanno per­so il controllo dell’econo­mia ». Non c’è area del mon­do che oggi sia al riparo dal rischio di una crisi economia: non gli Stati Uniti, dove lo Sta­to e i cittadini sono sempre più indebitati (il tasso di in­solvenza sui prestiti per l’u­niversità, nota l’economista, è allo spaventoso livello del 30%); non la Cina, dove si va verso una società «modera­tamente prospera», ma non ricca; non il Giappone, che sta sperimentando politiche mo­netarie 'kamikaze' per com­battere un declino ormai ven­tennale. La vecchia Europa non sta certo meglio, tra na­zioni che cercano di proteg­gere il loro cortile con misu­re protezionistiche e movi­menti di protesta sociale che combattono la stessa idea di Unione Europea. In questo momento, conclude Deaglio, molto dipende da quello che si deciderà a Berlino: «Sono passati due mesi dalle elezio­ni e ancora i tedeschi pren­dono tempo sul nuovo go­verno. Tengono tutto in so­speso. È pericoloso: se la Ger­mania sbaglia l’Europa è ve­ramente a rischio». 

da Avvenire

giovedì 21 novembre 2013

La Fed che accelera. La Bce che frena

La Federal Reserve continua a spostare in avanti il momento in cui smetterà di spingere l’acceleratore. Martedì sera, al­la cena annuale del club americano degli e­conomisti, il presidente Ben Bernanke ha ri­percorso le motivazioni dietro le scelte fatte nei suoi otto anni alla guida della Banca cen­trale. Ha spiegato che la forward guidance, cioè la scelta di dare ai mercati indicazioni a lungo termine sulle strategie della Fed, rap­presenta un grande passo avanti verso una politica monetaria più trasparente. Poi ha di­feso il quantitative easing : il massiccio ac­quisto di titoli pubblici e legati ai mutui – ha detto Bernanke – sta servendo a tenere bassi i tassi di breve periodo. Quindi il capo della Fed ha fatto capire che questa strategia andrà avanti ancora a lungo: ci vorrà infatti «un po’ di tempo» prima che la politica monetaria a­mericana torni «alla normalità».

Per Bernanke è stato uno degli ultimi discor­si da banchiere centrale. Oggi la Commissio­ne bancaria del Senato americano confer­merà la nomina di Janet Yellen a prendere la
 guida della Fed dal 1 ° febbraio, uno dei pas­saggi finali per la conferma definitiva. Con il cambio di presidenza la Fed potrebbe diven­tare ancora più aggressiva. Rispondendo alle domande di un senatore, Yellen ha sottoli­neato un concetto che Bernanke ha già ripe­tuto un paio di volte negli ultimi mesi: le so­glie non sono meccanismi automatici. Signi­fica che se la Banca centra­le ha detto che i tassi reste­ranno azzerati almeno fin­ché la disoccupazione non tornerà sotto il 6,5%, non è però detto che al raggiungi­mento di quell’obiettivo il costo del denaro tornerà a salire. E lo stesso vale per il quarto piano di quantitive easing: non ci sono automatismi che costrin­geranno al Fed a ridurre gli acquisti di titoli, che da gennaio proseguono al ritmo di 85 mi­liardi di dollari al mese (anche se alla riunio­ne di ottobre i consiglieri della Fed sono tor­nati a parlare della possibilità di tagliare lo shopping nei prossimi mesi).

Sono pessime notizie per i rigoristi della Ban­ca
 centrale europea. Più le altre grandi ban­che centrali sperimentano politiche ultra-ag­gressive più sale la pressione perché la Bce faccia altrettanto. Martedì è stata l’Ocse a da­re un consiglio, non richiesto, a Mario Dra­ghi: «La Bce deve stare molto attenta – ha scrit­to l’organizzazione nel suo rapporto sull’eco­nomia mondiale – ed essere preparata a usa­re misure anche non con­venzionali per eliminare che i rischi di deflazione diven­tino permanenti». Simili ri­chiami non lasciano freddi i responsabili della politica monetaria europea. La set­timana scorsa Peter Praet, capo economista della Bce, ha spiegato che se Fran­coforte vedesse a rischio la sua missione «prenderemo tutte le misure che riterremo di dover prendere per svolgere il nostro manda­to ». Mentre martedì il portoghese Vitòr Con­stâncio ha chiarito che quella del quantitati­ve easingeuropeo è «un’opzione, niente di più». Ma è stata una di quelle mezze smenti­te che si trasformano in conferme. Tanto che Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e leader dei custodi del rigore tedesco all’in­terno del consiglio della Bce, si è fatto inter­vistare dallo Zeit per spiegare che l'attuale po­litica monetaria espansiva è «giustificata» da una prospettiva di inflazione molto bassa e che ora non è il momento di parlare di nuo­ve mosse: «Il consiglio ha appena deciso di tagliare i tassi, dunque non mi sembra sensato mandare immediatamente il messaggio che è pronto a farlo di nuovo».

Eppure già ieri qualcuno da Francoforte ha fatto arrivare all’agenzia
 Bloomberg una nuo­va indiscrezione: la Bce starebbe valutando di portare il tasso sui depositi bancari in ne­gativo, allo -0,1%. Sarebbe un altro passo a­vanti verso una Bce più all’americana. 


da Avvenire

martedì 19 novembre 2013

Il trio dell'agenda digitale

Dieci anni fa, quando l’Eurostat ha iniziato a raccogliere le statistiche sulla diffusione delle connessioni veloci a Internet, in Europa c’erano un paio di nazioni straordinariamente avanti, una manciata di Paesi innovativi e una larga maggioranza di Stati dove la banda larga non c’era proprio. L’Italia faceva parte dell’ultimo gruppo.
Abbiamo almeno provato a recuperare, all’inizio: nel 2005 la percentuale di famiglie italiane raggiunte da collegamenti veloci era salita al 13%, una quota che ci assegnava il diciottesimo posto in un’Europa dove la banda larga raggiungeva il 23% dei cittadini. Non sarà stato un grande risultato, ma è il migliore che siamo stati capaci di raggiungere. Negli anni successivi ci siamo lasciati sorpassare quasi da tutti e siamo scivolati alle ultimissime posizioni. Gli ultimi dati, quelli del 2012, dicono che con una percentuale di famiglie a banda larga salita al 55% siamo ancora lontani dalla media europea (è al 72%) e siamo più "moderni" solo di Bulgaria, Grecia e Romania. La tecnologia, però, non ci aspetta. Perché in questo decennio si è anche sviluppata la banda ultralarga, con connessioni che vanno almeno a 30 Megabit al secondo, quando non a 100. È in questa tecnologia che l’Italia dà il peggio di sé: la rete superveloce raggiunge il 14% delle nostra famiglie, la media europea è del 53,8%. Siamo ultimissimi in classifica, a 7 punti percentuali di distanza dalla Grecia, penultima, e a 10 dalla Francia, che chiude il terzetto degli "arretrati". In Irlanda, quart’ultima, le famiglie con la banda ultralarga sono il 42,1%.
Ecco perché il lavoro accettato da Francesco Caio, l’ex manager di Omnitel che il governo a giugno ha designato nuovo responsabile dell’Agenda Digitale per l’Italia, è un mestieraccio. Siamo terribilmente indietro e abbiamo pochi soldi da investire per recuperare. Nel testo della legge di Stabilità, per intenderci, continuano ad apparire e scomparire i soldi per completare la diffusione della banda larga nel centro nord. E sono 20 milioni, appena più di niente. Per fortuna che l’Europa ci dovrebbe dare una mano. L’Italia riceverà circa 35 miliardi di euro di fondi strutturali da Bruxelles tra il 2014 e il 2020. Il premier Enrico Letta, alla fine del vertice europeo di fine ottobre che era proprio dedicato all’Agenda Digitale, ha promesso che il 10% di quei fondi sarà investito nello sviluppo della banda larga.
Ieri il presidente del Consiglio, partecipando a una conferenza sull’Italia organizzata a Roma dal Financial Times, ha dato un’accelerata. Ha nominato due esperti internazionali per aiutare Caio ad analizzare lo stato della nostra rete e definire quali investimenti bisognerà fare «perché l’Italia possa essere competitiva». Con l’aiuto dei due esperti – Gerard Pogorel dell’Università ParisTech e Scott Marcus, ex advisor della Federal Communication Commission americana – Caio entro la fine dell’anno consegnerà al governo un rapporto con i risultati dell’indagine. La parte più interessante sarà il conto finale. I tre fisseranno gli investimenti «che qualunque proprietario della rete dovrà raggiungere». Telecom Italia, attuale proprietaria della rete, e Telefonica, suo grande azionista ispanico, sono avvertite.
da Avvenire di oggi