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giovedì 28 febbraio 2013

La stretta di Barclays sui bonus

La mossa successiva al taglio dei bonus, per Barclays, è il ritiro dei premi già promessi. Nei prossimi giorni la banca scozzese dirà ai suoi manager che ha deciso di ridurre di 300 milioni di sterlinei bonus già promessi ma non ancora pagati (che ammontano a 2,9 miliardi di sterline). I soldi, ha spiegato la banca, le serviranno per pagare la multa per lo scandalo del Libor (240 milioni di di sterline) e per sanzioni minori. Anche Hsbc, Royal Bank of Scotland e JPMorgan negil anni passati hanno bloccato il pagamento dei bonus per motivi straordinari. Quest'anno anche Rbs dovrebbe farlo, tenendosi 60 milioni di bonus per pagare la sua multa Libor, da 390 milioni.
dal Ft

L'affidabilità di Marta Grande e quella di D'Alema

Tra Marta Grande, grillina che si è candidata perché ha visto "troppi colleghi costretti ad andare all'estero per lavorare", e Massimo D'Alema, che si chiede "chi può essere contrario al reddito di cittadinanza", io trovo più ragionevole e affidabile la prima. E pazienza se l'assurdità di pagare della gente solo perché è cittadina italiana è proprio del Movimento 5 Stelle: l'impressione è che per i grillini il reddito di cittadinanza sia la risposta a uninsostenibile disoccupazione giovanile, mentre per gli ex dirigenti del Pci invece è il solito modo di comprarsi i voti facendo di ognuno uno statale.

Giappone e Germania puntano sullo shale gas

All'incontro con Barack Obama il premier giapponese Shinzo Abe ha anche annunciato investimenti da mille miliardi di yen (10,9 miliardi di dollari) per linee di garanzia al credito verso le imprese che investono in progetti per la ricerca di shale gas. In Germania, il 26 febbraio, il governo ha preparato una proposta di legge per permettere, pur con diverse limitazioni, la tecnica del fracking. Le autorizzazioni per le trivellazioni saranno concesse solo dopo una"prova di sostenibilita" e mai vicino alle falde acquifere. Le stime parlano di 1,3-2,3 miliardi di metri cubi di shale gas sotto il territorio tedesco.

mercoledì 27 febbraio 2013

I debiti della Cina


Per alimentare la crescita la Cina - scrive il Wsj - ha stimolato l'economia con 500 miliardi di dollari di spesa pubblica e investimenti "privati" pari al 48% del Pil. A questi si aggiunge una enorme massa di credito concesso all'economia reale: dal 2007 questo credito - che arriva dal sistema bancario ufficiale e da quello "ombra" -  è quadruplicato fino ai 2.750 miliardi del 2012. Il debito pubblico cinese sommato a quello privato vale il 200% del Pil.

Per domare lo spread, teniamo buona la Merkel

Sbaglia chi dice che i merca­ti stanno punendo l’Italia perché si è rivelata più 'an­ti- Europa' di quanto si pensasse. «Se c’è qualcuno che è sicura­mente poco filo-Europa quelli so­no i trader. È curioso: il problema dell’Europa, per chi la guarda da Londra o New York, è la crescita, non il debito. Gli investitori si chiedono quello che si chiede Paul Krugman: come può il Vec­chio Continente sopportare tut­ta questa austerità?». Alessandro Fugnoli, strategist della società di gestione del risparmio Kairos, in­vita a guardare le cose da una pro­spettiva un po’ diversa.
La Borsa precipita e lo 'spread' si allarga. Se non è una punizio­ne
 sembra quanto meno il sinto­mo di una certa preoccupazio­ne.
L’ingovernabilità spaventa non perché l’Italia potrebbe abban­donare certe misure di austerità, ma perché potrebbe nascere un governo più ostile alla Germania. Il problema, infatti, non sta nei fondamentali, ma in quello che pensa la Germania.

In che senso?

Prendiamo la Spagna. Aveva pro­messo che avrebbe fatto un defi­cit del 4,5%. A un certo punto ha rinegoziato le condizioni e ha ot­tenuto di potere arrivare al 6%. Alla fine il rosso è stato del 10%. Madrid ha mancato clamorosa­mente i suoi obiettivi di bilancio ma sui mercati non c’è stato nes­suno scossone. Sa perché? Perché
 alla Germania andava bene co­munque, la Merkel ha apprezza­to la buona volontà di Rajoy e non ha voluto esasperare le cose. Gli investitori lo hanno capito.
Anche l’Italia può contare su que­sta accondiscendenza tedesca?

Sicuramente, ma serve un gover­no che in qualche modo 'renda o­maggio' all’Europa, un esecutivo
 che non esageri nei toni ostili ver­so la Merkel. Fino alle elezioni te­desche di settembre, Berlino si potrebbe accontentare della no­stra buona volontà. La nuova dot­trina economica europea, non detta ma praticata, dice che gli scostamenti nel bilancio sono ac­cettati ex post. Conta la volontà. Già lo stiamo sperimentando: è passato il criterio che quando parliamo di deficit parliamo di quello 'strutturale', non del de­ficit complessivo. Corretto per il ciclo economico, il concetto di deficit è molto più elastico.
Però lo spread è già balzato sopra i 340 punti. Possiamo sperare che trovi un nuovo equilibrio a que­sti
 livelli?
Sicuramente vedremo più varia­bilità di quella degli ultimi mesi.
 Ma non credo che rivedremo i 500 punti. La nostra situazione, an­che con questa instabilità politi­ca, non è terrificante. Per fare im­pennare lo 'spread' occorrereb­be un governo apertamente osti­le ai tedeschi e all’Europa. A quel punto Berlino saprebbe come al­zare la temperatura con qualche dichiarazione pesante: i governi e Bruxelles sanno bene quali sono le formule giuste per istigare lo 'spread'. I tedeschi teorizzavano proprio l’uso del differenziale in chiave pedagogica...
Pensa che l’Italia dovrà alla fine fare ricorso al salvagente della Banca centrale europea?

Credo che si possa evitare l’ac­cesso al programma Omt. La si­tuazione non è certo terrificante. Ma serve anche la buona volontà
 di capire che non possiamo con­tinuare ad aumentare il nostro debito: non tanto per rispettare i criteri europei, ma per il nostro bene. Non possiamo andare a­vanti senza fare nulla nella spe­ranza che alla fine ci salverà co­munque qualcun altro.
Certo, difficilmente il prossimo governo vorrà essere ricordato come quello che ha invitato l’Eu­ropa a salvare l’Italia.

Sì, c’è uno 'stigma' negativo non indifferente, però l’esecutivo po­trà sempre dare la colpa al gover­no precedente. E ci sono comun­que dei rischi: in questi anni di crisi della zona euro abbiamo im­parato che non c’è niente di irre­versibile, nemmeno i salvataggi.


da Avvenire di oggi

venerdì 22 febbraio 2013

E Grillo diventa lo spauracchio dei mercati

Ogni mattina sul sito del Financial Times un gruppo di giornalisti finanziari chiac­chiera pubblicamente sulle notizie de­stinate a muovere le Borse. Ieri la loro chiacchie­rata si apriva con una foto di Beppe Grillo. Se­guiva una analisi pubblicata su Euro Intelligen­ce (un servizio di informazione finanziaria sem­pre legato al quotidiano inglese) in cui si raccon­tava che in un’intervista concessa a Euronews il leader del Movimento 5 Stelle ha spiegato tra l’al­tro che intende «ridiscutere» il debito pubblico i­taliano e introdurre sanzioni sulle importazioni. «Quest’uomo – scrive Euro Intelligence citando i sondaggi che danno Grillo al 20% – propone le mi­sure più anti-euro, anti-Ue e mercantiliste della recente storia elettorale europea e lo fa senza il razzismo dei tradizionali partiti dell’estrema de­stra ».Grillo è oggi uno dei grandi spauracchi degli in­vestitori europei, che guardano al voto italiano con una certa ansia perché te­mono che da lunedì sera la ter­za maggiore economia dell’eu­ro sarà, di fatto, ingovernabile. Le analisi diffuse in questi gior­ni da Credit Suisse, Morgan Stanley, Mediobanca Securities, Ig, Allianz Gi e Standard & Poor’s insistono tutte sullo stesso pro­blema: se dal voto uscirà una maggioranza debole l’Italia ri­schia di mancare gli obiettivi di finanza pubblica che si è data e di abbandonare in partenza o­gni tentativo di riforma della sua economia. In una zona eu­ro dove la Germania rallenta (e anch’essa dovrà votare, in au­tunno), la Francia è in evidenti difficoltà e la Spagna resta in pessima forma l’Italia imprigionata dall’incer­tezza politica è proprio la novità meno desidera­bile.
Gli analisti chiaramente non fanno il tifo per qual­che partito specifico. Vogliono più che altro mi­sure capaci, almeno secondo i loro calcoli, di ri­mettere l’Italia in grado di crescere quando l’e­conomia europea troverà la ripresa. Scrive Neil Dwane, di Allianz Gi, che Monti «sebbene sia par­tito col piede giusto, non ha affrontato le più am­pie, e forse più importanti, questioni relative al­l’attrattività dell’Italia per gli investitori istituzio­nali. Se non vengono affrontate a fondo tali questioni, l’Italia ri­schia di rimanere relegata a un futuro molto simile al passato degli ultimi 20 anni: bassa cre­scita, economia debole ed espo­sta alle pressioni regionali e glo­bali, con l’ulteriore aggravio di un pesante debito pubblico». Quasi identica l’analisi di Moritz Kraemer di Standard & Poor’s: «Nonostante le riforme intro­dotte dal governo tecnico di Ma­rio Monti nell’ultimo anno, le prospettive di crescita dell’eco­nomia italiana restano com­presse dalle rigidità sul mercato del lavoro, da un settore dei ser­vizi molto protetto e dall’eleva­to carico fiscale su lavoro e in­dustria ».
Qualche analista si sbilancia di più. Filippo Dio­dovich e Vincenzo Longo di Ig partono dai son­daggi e tra gli esiti più probabili spiegano che quello di una vittoria di Bersani alla Camera e non al Senato, con una situazione che però lo costringa a un’alleanza con Monti e conseguente uscita di Vendola dalla maggioranza «è lo scenario prefe­rito dai mercati e dagli investitori esteri».
E quello scenario – nonostante le ripetute pub­bliche smentite – è anche quello preferito dai te­deschi, che ovviamente non vogliono rischiare nulla sui soldi (soprattutto tedeschi) che l’Euro­pa ha 'prestato' all’Italia. La Banca centrale eu­ropea ieri ha comunicato ufficialmente il detta­glio della sua spesa nel Securities Market Pro­gramme, il piano di acquisti di titoli pubblici del­le nazioni a rischio chiuso all’inizio del 2012: l’i­stituto guidato da Mario Draghi ha in cassaforte titoli per 218 miliardi di euro (ma se a prezzi di mercato valgono 209 miliardi). Di questi poco meno della metà – 102,8 miliardi di valore uffi­ciale, 99 alle quotazioni attuali – sono Btp italia­ni, con una scadenza media di 4,5 anni. Nella mi­gliore delle ipotesi politiche Francoforte avrà il suo rimborso prima della fine della prossima le­gislatura. 

da Avvenire di oggi

giovedì 21 febbraio 2013

La straordinaria lettera di Maurice Taylor al governo Hollande

Fra qualche anno la lettera con cui Maurice M. Taylor Jr., presidente e amministratore delegato di Titan, spiega a Arnaud Montebourg, ministro dello Sviluppo economico del governo Hollande, che non ha nessun interesse a comprare la fabbrica di pneumatici di Amiens potrà essere una pietra miliare emblematica delle ragioni della crisi industriale ed economica della Francia e dell'Europa.