Per alimentare la crescita la Cina - scrive il Wsj - ha stimolato l'economia con 500 miliardi di dollari di spesa pubblica e investimenti "privati" pari al 48% del Pil. A questi si aggiunge una enorme massa di credito concesso all'economia reale: dal 2007 questo credito - che arriva dal sistema bancario ufficiale e da quello "ombra" - è quadruplicato fino ai 2.750 miliardi del 2012. Il debito pubblico cinese sommato a quello privato vale il 200% del Pil.
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mercoledì 27 febbraio 2013
Per domare lo spread, teniamo buona la Merkel
Sbaglia chi dice che i mercati stanno punendo l’Italia perché si è rivelata più 'anti- Europa' di quanto si pensasse. «Se c’è qualcuno che è sicuramente poco filo-Europa quelli sono i trader. È curioso: il problema dell’Europa, per chi la guarda da Londra o New York, è la crescita, non il debito. Gli investitori si chiedono quello che si chiede Paul Krugman: come può il Vecchio Continente sopportare tutta questa austerità?». Alessandro Fugnoli, strategist della società di gestione del risparmio Kairos, invita a guardare le cose da una prospettiva un po’ diversa.
La Borsa precipita e lo 'spread' si allarga. Se non è una punizione sembra quanto meno il sintomo di una certa preoccupazione.
L’ingovernabilità spaventa non perché l’Italia potrebbe abbandonare certe misure di austerità, ma perché potrebbe nascere un governo più ostile alla Germania. Il problema, infatti, non sta nei fondamentali, ma in quello che pensa la Germania.
In che senso?
Prendiamo la Spagna. Aveva promesso che avrebbe fatto un deficit del 4,5%. A un certo punto ha rinegoziato le condizioni e ha ottenuto di potere arrivare al 6%. Alla fine il rosso è stato del 10%. Madrid ha mancato clamorosamente i suoi obiettivi di bilancio ma sui mercati non c’è stato nessuno scossone. Sa perché? Perché alla Germania andava bene comunque, la Merkel ha apprezzato la buona volontà di Rajoy e non ha voluto esasperare le cose. Gli investitori lo hanno capito.
Anche l’Italia può contare su questa accondiscendenza tedesca?
Sicuramente, ma serve un governo che in qualche modo 'renda omaggio' all’Europa, un esecutivo che non esageri nei toni ostili verso la Merkel. Fino alle elezioni tedesche di settembre, Berlino si potrebbe accontentare della nostra buona volontà. La nuova dottrina economica europea, non detta ma praticata, dice che gli scostamenti nel bilancio sono accettati ex post. Conta la volontà. Già lo stiamo sperimentando: è passato il criterio che quando parliamo di deficit parliamo di quello 'strutturale', non del deficit complessivo. Corretto per il ciclo economico, il concetto di deficit è molto più elastico.
Però lo spread è già balzato sopra i 340 punti. Possiamo sperare che trovi un nuovo equilibrio a questi livelli?
Sicuramente vedremo più variabilità di quella degli ultimi mesi. Ma non credo che rivedremo i 500 punti. La nostra situazione, anche con questa instabilità politica, non è terrificante. Per fare impennare lo 'spread' occorrerebbe un governo apertamente ostile ai tedeschi e all’Europa. A quel punto Berlino saprebbe come alzare la temperatura con qualche dichiarazione pesante: i governi e Bruxelles sanno bene quali sono le formule giuste per istigare lo 'spread'. I tedeschi teorizzavano proprio l’uso del differenziale in chiave pedagogica...
Pensa che l’Italia dovrà alla fine fare ricorso al salvagente della Banca centrale europea?
Credo che si possa evitare l’accesso al programma Omt. La situazione non è certo terrificante. Ma serve anche la buona volontà di capire che non possiamo continuare ad aumentare il nostro debito: non tanto per rispettare i criteri europei, ma per il nostro bene. Non possiamo andare avanti senza fare nulla nella speranza che alla fine ci salverà comunque qualcun altro.
Certo, difficilmente il prossimo governo vorrà essere ricordato come quello che ha invitato l’Europa a salvare l’Italia.
Sì, c’è uno 'stigma' negativo non indifferente, però l’esecutivo potrà sempre dare la colpa al governo precedente. E ci sono comunque dei rischi: in questi anni di crisi della zona euro abbiamo imparato che non c’è niente di irreversibile, nemmeno i salvataggi.
da Avvenire di oggi
La Borsa precipita e lo 'spread' si allarga. Se non è una punizione sembra quanto meno il sintomo di una certa preoccupazione.
L’ingovernabilità spaventa non perché l’Italia potrebbe abbandonare certe misure di austerità, ma perché potrebbe nascere un governo più ostile alla Germania. Il problema, infatti, non sta nei fondamentali, ma in quello che pensa la Germania.
In che senso?
Prendiamo la Spagna. Aveva promesso che avrebbe fatto un deficit del 4,5%. A un certo punto ha rinegoziato le condizioni e ha ottenuto di potere arrivare al 6%. Alla fine il rosso è stato del 10%. Madrid ha mancato clamorosamente i suoi obiettivi di bilancio ma sui mercati non c’è stato nessuno scossone. Sa perché? Perché alla Germania andava bene comunque, la Merkel ha apprezzato la buona volontà di Rajoy e non ha voluto esasperare le cose. Gli investitori lo hanno capito.
Anche l’Italia può contare su questa accondiscendenza tedesca?
Sicuramente, ma serve un governo che in qualche modo 'renda omaggio' all’Europa, un esecutivo che non esageri nei toni ostili verso la Merkel. Fino alle elezioni tedesche di settembre, Berlino si potrebbe accontentare della nostra buona volontà. La nuova dottrina economica europea, non detta ma praticata, dice che gli scostamenti nel bilancio sono accettati ex post. Conta la volontà. Già lo stiamo sperimentando: è passato il criterio che quando parliamo di deficit parliamo di quello 'strutturale', non del deficit complessivo. Corretto per il ciclo economico, il concetto di deficit è molto più elastico.
Però lo spread è già balzato sopra i 340 punti. Possiamo sperare che trovi un nuovo equilibrio a questi livelli?
Sicuramente vedremo più variabilità di quella degli ultimi mesi. Ma non credo che rivedremo i 500 punti. La nostra situazione, anche con questa instabilità politica, non è terrificante. Per fare impennare lo 'spread' occorrerebbe un governo apertamente ostile ai tedeschi e all’Europa. A quel punto Berlino saprebbe come alzare la temperatura con qualche dichiarazione pesante: i governi e Bruxelles sanno bene quali sono le formule giuste per istigare lo 'spread'. I tedeschi teorizzavano proprio l’uso del differenziale in chiave pedagogica...
Pensa che l’Italia dovrà alla fine fare ricorso al salvagente della Banca centrale europea?
Credo che si possa evitare l’accesso al programma Omt. La situazione non è certo terrificante. Ma serve anche la buona volontà di capire che non possiamo continuare ad aumentare il nostro debito: non tanto per rispettare i criteri europei, ma per il nostro bene. Non possiamo andare avanti senza fare nulla nella speranza che alla fine ci salverà comunque qualcun altro.
Certo, difficilmente il prossimo governo vorrà essere ricordato come quello che ha invitato l’Europa a salvare l’Italia.
Sì, c’è uno 'stigma' negativo non indifferente, però l’esecutivo potrà sempre dare la colpa al governo precedente. E ci sono comunque dei rischi: in questi anni di crisi della zona euro abbiamo imparato che non c’è niente di irreversibile, nemmeno i salvataggi.
da Avvenire di oggi
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venerdì 22 febbraio 2013
E Grillo diventa lo spauracchio dei mercati
Ogni mattina sul sito del Financial Times un gruppo di giornalisti finanziari chiacchiera pubblicamente sulle notizie destinate a muovere le Borse. Ieri la loro chiacchierata si apriva con una foto di Beppe Grillo. Seguiva una analisi pubblicata su Euro Intelligence (un servizio di informazione finanziaria sempre legato al quotidiano inglese) in cui si raccontava che in un’intervista concessa a Euronews il leader del Movimento 5 Stelle ha spiegato tra l’altro che intende «ridiscutere» il debito pubblico italiano e introdurre sanzioni sulle importazioni. «Quest’uomo – scrive Euro Intelligence citando i sondaggi che danno Grillo al 20% – propone le misure più anti-euro, anti-Ue e mercantiliste della recente storia elettorale europea e lo fa senza il razzismo dei tradizionali partiti dell’estrema destra ».Grillo è oggi uno dei grandi spauracchi degli investitori europei, che guardano al voto italiano con una certa ansia perché temono che da lunedì sera la terza maggiore economia dell’euro sarà, di fatto, ingovernabile. Le analisi diffuse in questi giorni da Credit Suisse, Morgan Stanley, Mediobanca Securities, Ig, Allianz Gi e Standard & Poor’s insistono tutte sullo stesso problema: se dal voto uscirà una maggioranza debole l’Italia rischia di mancare gli obiettivi di finanza pubblica che si è data e di abbandonare in partenza ogni tentativo di riforma della sua economia. In una zona euro dove la Germania rallenta (e anch’essa dovrà votare, in autunno), la Francia è in evidenti difficoltà e la Spagna resta in pessima forma l’Italia imprigionata dall’incertezza politica è proprio la novità meno desiderabile.
Gli analisti chiaramente non fanno il tifo per qualche partito specifico. Vogliono più che altro misure capaci, almeno secondo i loro calcoli, di rimettere l’Italia in grado di crescere quando l’economia europea troverà la ripresa. Scrive Neil Dwane, di Allianz Gi, che Monti «sebbene sia partito col piede giusto, non ha affrontato le più ampie, e forse più importanti, questioni relative all’attrattività dell’Italia per gli investitori istituzionali. Se non vengono affrontate a fondo tali questioni, l’Italia rischia di rimanere relegata a un futuro molto simile al passato degli ultimi 20 anni: bassa crescita, economia debole ed esposta alle pressioni regionali e globali, con l’ulteriore aggravio di un pesante debito pubblico». Quasi identica l’analisi di Moritz Kraemer di Standard & Poor’s: «Nonostante le riforme introdotte dal governo tecnico di Mario Monti nell’ultimo anno, le prospettive di crescita dell’economia italiana restano compresse dalle rigidità sul mercato del lavoro, da un settore dei servizi molto protetto e dall’elevato carico fiscale su lavoro e industria ».Qualche analista si sbilancia di più. Filippo Diodovich e Vincenzo Longo di Ig partono dai sondaggi e tra gli esiti più probabili spiegano che quello di una vittoria di Bersani alla Camera e non al Senato, con una situazione che però lo costringa a un’alleanza con Monti e conseguente uscita di Vendola dalla maggioranza «è lo scenario preferito dai mercati e dagli investitori esteri».
E quello scenario – nonostante le ripetute pubbliche smentite – è anche quello preferito dai tedeschi, che ovviamente non vogliono rischiare nulla sui soldi (soprattutto tedeschi) che l’Europa ha 'prestato' all’Italia. La Banca centrale europea ieri ha comunicato ufficialmente il dettaglio della sua spesa nel Securities Market Programme, il piano di acquisti di titoli pubblici delle nazioni a rischio chiuso all’inizio del 2012: l’istituto guidato da Mario Draghi ha in cassaforte titoli per 218 miliardi di euro (ma se a prezzi di mercato valgono 209 miliardi). Di questi poco meno della metà – 102,8 miliardi di valore ufficiale, 99 alle quotazioni attuali – sono Btp italiani, con una scadenza media di 4,5 anni. Nella migliore delle ipotesi politiche Francoforte avrà il suo rimborso prima della fine della prossima legislatura.
Gli analisti chiaramente non fanno il tifo per qualche partito specifico. Vogliono più che altro misure capaci, almeno secondo i loro calcoli, di rimettere l’Italia in grado di crescere quando l’economia europea troverà la ripresa. Scrive Neil Dwane, di Allianz Gi, che Monti «sebbene sia partito col piede giusto, non ha affrontato le più ampie, e forse più importanti, questioni relative all’attrattività dell’Italia per gli investitori istituzionali. Se non vengono affrontate a fondo tali questioni, l’Italia rischia di rimanere relegata a un futuro molto simile al passato degli ultimi 20 anni: bassa crescita, economia debole ed esposta alle pressioni regionali e globali, con l’ulteriore aggravio di un pesante debito pubblico». Quasi identica l’analisi di Moritz Kraemer di Standard & Poor’s: «Nonostante le riforme introdotte dal governo tecnico di Mario Monti nell’ultimo anno, le prospettive di crescita dell’economia italiana restano compresse dalle rigidità sul mercato del lavoro, da un settore dei servizi molto protetto e dall’elevato carico fiscale su lavoro e industria ».Qualche analista si sbilancia di più. Filippo Diodovich e Vincenzo Longo di Ig partono dai sondaggi e tra gli esiti più probabili spiegano che quello di una vittoria di Bersani alla Camera e non al Senato, con una situazione che però lo costringa a un’alleanza con Monti e conseguente uscita di Vendola dalla maggioranza «è lo scenario preferito dai mercati e dagli investitori esteri».
E quello scenario – nonostante le ripetute pubbliche smentite – è anche quello preferito dai tedeschi, che ovviamente non vogliono rischiare nulla sui soldi (soprattutto tedeschi) che l’Europa ha 'prestato' all’Italia. La Banca centrale europea ieri ha comunicato ufficialmente il dettaglio della sua spesa nel Securities Market Programme, il piano di acquisti di titoli pubblici delle nazioni a rischio chiuso all’inizio del 2012: l’istituto guidato da Mario Draghi ha in cassaforte titoli per 218 miliardi di euro (ma se a prezzi di mercato valgono 209 miliardi). Di questi poco meno della metà – 102,8 miliardi di valore ufficiale, 99 alle quotazioni attuali – sono Btp italiani, con una scadenza media di 4,5 anni. Nella migliore delle ipotesi politiche Francoforte avrà il suo rimborso prima della fine della prossima legislatura.
giovedì 21 febbraio 2013
La straordinaria lettera di Maurice Taylor al governo Hollande
Fra qualche anno la lettera con cui Maurice M. Taylor Jr., presidente e amministratore delegato di Titan, spiega a Arnaud Montebourg, ministro dello Sviluppo economico del governo Hollande, che non ha nessun interesse a comprare la fabbrica di pneumatici di Amiens potrà essere una pietra miliare emblematica delle ragioni della crisi industriale ed economica della Francia e dell'Europa.
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sabato 16 febbraio 2013
Declassata Standard and Poor's
Standard & Poor’s doveva aspettarselo, perché nel mondo spietato dei 'rating' non esistono amici e nemmeno sorelle. E allora sarai anche la regina dei votacci, quella che si è potuta togliere lo sfizio di levare la tripla A agli Stati Uniti e di tenere in ansia i governi di mezzo mondo, ma puoi essere declassata anche tu. Succede.
Moody’s ha annunciato di avere tagliato di due gradini il suo giudizio su McGraw-Hill – la società che controlla la rivale Standard & Poor’s – da A3 a Baa2 e ha aggiunto che continuerà a tenere sotto controllo l’azienda, perché potrebbe annunciare presto un’altra sforbiciata. Una settimana fa su S&P era caduta la mannaia di Fitch, l’altra sorella del rating: taglio del voto da A- a BBB+. Siamo a livelli bassi, un paio di gradini sopra il terribile declassamento a junk, che significa spazzatura. Può l’azienda che controlla Standard & Poor’s rischiare un rating spazzatura? Sì, se gli Stati Uniti d’America le hanno fatto causa e chiedono 5 miliardi di dollari. Sia Fitch e Moody’s hanno infatti giustificato i tagli con la causa che il dipartimento della Giustizia di Washington ha intentato contro S&P lo scorso 4 febbraio. Dovesse perdere, McGraw-Hill difficilmente sarebbe in grado di tirare fuori quei 5 miliardi: il gruppo fattura ogni anno più o meno 4,8 miliardi di dollari, fa utili per 1,3 miliardi e ha 761 milioni di liquidità. Le serviranno avvocati convincenti, perché una sentenza negativa potrebbe mandarla in bancarotta. È una pessima situazione, il declassamento della regina del 'rating' è inevitabile e le due agenzie rivali, inflessibili, ne hanno preso atto. Ma la sorte potrebbe essere ancora più ironica. I giudici di mezza America infatti stanno studiando a fondo le carte per capire se S&P era davvero l’unica a dare giudizi che, come sostiene l’accusa, erano volutamente menzogneri. Anche Fitch e Moody’s prima dell’esplosione della crisi assegnavano rating a tripla A a derivati strutturati che poi si sono rivelati immondizia o ad aziende clamorosamente fallite in una notte.Se Washington dovesse chiedere conto anche a loro di quei voti sballati, allora tra le tre sorelle del rating sarà tutto un forsennato declassarsi a vicenda.
Moody’s ha annunciato di avere tagliato di due gradini il suo giudizio su McGraw-Hill – la società che controlla la rivale Standard & Poor’s – da A3 a Baa2 e ha aggiunto che continuerà a tenere sotto controllo l’azienda, perché potrebbe annunciare presto un’altra sforbiciata. Una settimana fa su S&P era caduta la mannaia di Fitch, l’altra sorella del rating: taglio del voto da A- a BBB+. Siamo a livelli bassi, un paio di gradini sopra il terribile declassamento a junk, che significa spazzatura. Può l’azienda che controlla Standard & Poor’s rischiare un rating spazzatura? Sì, se gli Stati Uniti d’America le hanno fatto causa e chiedono 5 miliardi di dollari. Sia Fitch e Moody’s hanno infatti giustificato i tagli con la causa che il dipartimento della Giustizia di Washington ha intentato contro S&P lo scorso 4 febbraio. Dovesse perdere, McGraw-Hill difficilmente sarebbe in grado di tirare fuori quei 5 miliardi: il gruppo fattura ogni anno più o meno 4,8 miliardi di dollari, fa utili per 1,3 miliardi e ha 761 milioni di liquidità. Le serviranno avvocati convincenti, perché una sentenza negativa potrebbe mandarla in bancarotta. È una pessima situazione, il declassamento della regina del 'rating' è inevitabile e le due agenzie rivali, inflessibili, ne hanno preso atto. Ma la sorte potrebbe essere ancora più ironica. I giudici di mezza America infatti stanno studiando a fondo le carte per capire se S&P era davvero l’unica a dare giudizi che, come sostiene l’accusa, erano volutamente menzogneri. Anche Fitch e Moody’s prima dell’esplosione della crisi assegnavano rating a tripla A a derivati strutturati che poi si sono rivelati immondizia o ad aziende clamorosamente fallite in una notte.Se Washington dovesse chiedere conto anche a loro di quei voti sballati, allora tra le tre sorelle del rating sarà tutto un forsennato declassarsi a vicenda.
da Avvenire di oggi
mercoledì 13 febbraio 2013
Il Giappone chiede alle aziende di alzare gli stipendi
Nella sua lotta alla deflazione il primo ministro Shinzo Abe ha tentato una nuova arma: scrive il Wsj che il premier ha invitato le maggiori aziende ad alzare gli stipendi, così da rompere il ciclo di pessimismo e calo delle aspettative che ha peggiorato la crisi. Gli stipendi dei giapponesi sono diminuiti in 8 degli ultimi 10 anni.
lunedì 11 febbraio 2013
La Dodge Dart (made in Fiat) vende poco
La Dodge Dart, basata sulla Giulietta e prima Chryser derivata da una piattaforma Fiat, non vende bene. Secondo Autodata nel 2012 ne sono state vendute 25.303. Le previsioni indicavano 100 mila immatricolazioni. Chrysler resta conosciuta tra i clienti per le Jeep, i pick up e le auto grosse, convincere i clienti a scegliere le sue auto piccole è più difficile di quanto di pensasse. La Dart costa dai 16 mila dollari in su. Le sue concorrenti sono la Honda Civic (che vende 5 volte tanto) e la Chevrolet Cruze (vende il quadruplo).
da Bloomberg
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