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martedì 16 ottobre 2012

Il Nobel agli accoppiamenti


Abbiamo 10 donne e 10 uomini e dobbiamo farli sposare. Come possiamo accoppiare queste persone nel modo migliore, cioè rispettando le loro preferenze individuali e creando una situazione di massima stabilità, dove nessuna coppia si romperebbe perché né il marito né la moglie possono trovare alternative migliori? No, non avventuratevi in schemi o calcoli arditi, tanto non riuscirete a rispondere. L’89enne Lloyd Stowell Shapley si è posto il problema negli anni ’50 e la soluzione trovata è un algoritmo che gli ha aperto la strada del premio Nobel per l’Economia, che gli è stato assegnato ieri in coppia con il 61enne Alvin Eliot Roth.
Nella soluzione che Shapley elaborò assieme al collega David Gale (che avrebbe probabilmente vinto il Nobel anche lui, se non fosse morto 4 anni fa) ogni donna fa la sua proposta di matrimonio all’uomo che più le piace. Ricevute le proposte, ogni uomo si tiene la proposta che più lo convince e scarta le altre. Inizia allora un secondo giro, dove ogni donna "scartata" fa una nuova proposta agli uomini rimasti liberi, che scelgono di nuovo se accettarle o meno, e così via finché ogni donna non sarà stata maritata. Gli accoppiamenti finali saranno i migliori possibili per le 10 donne (non per i 10 uomini, che potrebbero ottenere soluzioni migliori se fossero loro a fare la proposta).
La teoria di Shapley è quella "delle allocazioni stabili e dei piani di mercato". Probabilmente una sua applicazione reale nelle dinamiche matrimoniali produrrebbe milioni di coppie infelici, ma per assegnare dotti agli ospedali, studenti alle scuole o organi donati a malati da salvare l’algoritmo di Gale-Shapley si è rivelato efficiente. Merito anche dell’altro vincitore del Nobel, il più giovane Alvin Roth, che negli anni ’80 ha adottato degli aggiustamenti alla teoria di Gale-Shapley per fare in modo che nell’assegnazione degli studenti di medicina agli ospedali gli istituti sanitari non fossero eccessivamente favoriti (come le donne dell’esempio) e i futuri dottori non potessero falsificare i risultati degli accoppiamenti esprimendo false preferenze in maniera strumentale. Ed è stato sempre Roth, con alcuni colleghi, ad adattare l’algoritmo nel 2003 per abbattere del 90% il numero di studenti americani che finiva in scuole superiori per le quali non aveva espresso nessuna preferenza (e parliamo di 30 mila ragazzi). Altra applicazione efficace è stata quella sull’accoppiamento tra reni e altri organi lasciati da donatori e pazienti in attesa di trapianto: la teoria delle allocazioni stabili ha consentito miglioramenti notevoli al sistema di assegnazione degli organi negli Stati Uniti. Gli studi basati su questi principi stanno andando avanti per inserire all’interno di questa teoria anche la variabile dei prezzi.
«Questo campo di studi continua a crescere e mostra grandi promesse per il futuro» hanno assicurato gli accademici svedesi assegnando il premio (8 milioni di corone svedesi, circa 930 mila euro) ai due studiosi «per i loro continui sforzi nel trovare soluzioni pratiche ai problemi del mondo reale». La teoria delle allocazioni stabili si inserisce nel filone della "teoria dei giochi" di John Nash e dei suoi colleghi, quella che fece vincere il Nobel del 1994 al matematico schizofrenico americano la cui vita è stata resa celebre dal film <+corsivo>A Beautiful Mind<+tondo>. È evidente che agli accademici del Nobel la "teoria dei giochi" piace: dopo il 1994 hanno premiato studiosi di diverse branche di questo stesso filone nel 2005, nel 2007 e quest’anno. Nel caso di Shapley e Roth ciò che conta di più è il loro lavoro sul concetto di "stabilità". Per gli Stati Uniti è una conferma della ricchezza del panorama universitario nazionale: entrambi gli studiosi sono americani, Shapley è emerito a Los Angeles mentre Roth insegna ad Harvard (ma quest’anno è a Stanford) e sembra un tipo simpatico: «Ora i miei studenti staranno più attenti» ha detto accogliendo la notizia della sua premiazione. Il Nobel per l’economia – nome ufficiale Premio della Sveriges Riskbank in Scienze economiche alla memoria di Alfred Nobel – è quasi un’esclusiva a stelle e strisce: dei 72 premiati dal 1969 ad oggi solo 31 non erano cittadini statunitensi. E anche l’unico Nobel per l’economia nato in Italia, il romano Franco Modigliani, quando vinse nel 1985 era cittadino americano da quasi 40 anni.

da Avvenire di oggi

lunedì 15 ottobre 2012

Tasse, i conti di Alesina e Giavazzi

"Le manovre varate negli ultimi 12 mesi, prima dal governo Berlusconi e poi dal governo Monti, si possono così riassumere (prendiamo questi numeri dall'Audizione parlamentare del vicedirettore generale della Banca d'Italia, Salvatore Rossi): nell'arco di due anni, 2012 e 2013, le entrate delle amministrazioni pubbliche dovrebbero crescere di 82 miliardi, le spese scendere di 43. Di questi tagli, tuttavia, circa 23 miliardi sono minori trasferimenti a Comuni, Province e Regioni. Se questi enti, come sta accadendo, compenseranno la riduzione dei fondi che ricevono dallo Stato aumentando le tasse locali, il risultato complessivo di queste manovre sarà 105 miliardi di maggiori tasse e 20 di minori spese.
L'esperienza delle correzioni dei conti pubblici attuate negli ultimi 30 anni nei Paesi industriali ci insegna che questa composizione è recessiva. L'aumento della pressione fiscale sposterà ancor più in là la ripresa dell'economia e limiterà il miglioramento dei conti pubblici. Invece le manovre che hanno avuto minori effetti recessivi, e che quindi hanno ridotto più rapidamente il debito, sono state quelle con una composizione opposta rispetto alla nostra: tagli di spesa e minori aggravi fiscali. Se ci limitiamo al caso italiano, l'esperienza degli ultimi 30 anni insegna che le manovre per lo più costruite su tagli di spesa (le poche che sono state fatte) hanno inciso sull'economia in misura trascurabile. Invece quelle attuate per lo più aumentando le imposte hanno avuto un «moltiplicatore» pari a circa 1,5: cioè per ogni punto di Pil (Prodotto interno lordo) di correzione dei conti l'economia si è contratta, nel giro di un paio d'anni, di un punto e mezzo. Stato e amministrazioni locali spendono ogni anno (dati del 2010 e senza contare gli interessi sul debito) circa 720 miliardi. Togliamo i 310 miliardi che vanno in pensioni e spesa sociale: ne restano 410. Una riduzione del 20 per cento di queste spese, senza alcun taglio alla spesa sociale, consentirebbe di risparmiare 80 miliardi e di ridurre la pressione fiscale di 10 punti".
Alesina e Giavazzi sul Corriere di oggi

venerdì 12 ottobre 2012

La soluzione della crisi dell'euro secondo Tsipras

«La soluzione deve essere comune: va convocato un vertice sulla linea di quello di Londra nel 1953, quando venne cancellata una gran parte del debito tedesco e venne concesso alla Germania un rinvio sul pagamento degli interessi. Dopo aver estinto il debito per le nazioni in difficoltà, bisogna lanciare un Piano Marshall, liquidità per far ripartire la produttività e la crescita».
(Alexis Tsipras al Corriere della Sera)

Sarebbe curioso sapere che cosa si dovrà dire a chi ha prestato soldi a questi paesi in difficoltà ("non vi ridiamo niente, ma speriamo che in futuro ci aiuterete" potrebbe essere un'idea), né con quali soldi si dovrebbe fare questo Piano Marshall (quelli dei contribuenti europei? solo i soldi di quelli tedeschi?) e dove questo denaro sarebbe investito. Non sembra che i governi greci, così come quelli italiani degli ultimi decenni, siano molto abili a prendere denaro in prestito e poi investirlo generando "crescita, produttività" e ricchezza diffusa tra la popolazione.


domenica 7 ottobre 2012

Apertura russa sul petrolio dell'Artico

La Russia sta pensando di concedere alle società occidentali le licenze per cercare petrolio nelle acque del'Artico. L'idea, presentata al Ft dal ministro dell'Energia Alexander Novak, è quella di permettere alle compagnie di avere accesso alla produzione e almeno partecipare alle licenze, che oggi sono esclusiva dei gruppi parastatali Rosfnet e Gazprom.

venerdì 5 ottobre 2012

Il potenziale esplosivo delle banche Ue

Le banche europee sono molto più pericolose di quelle americane. Nel 2010 le banche statunitensi avevano asset per 8.600 miliardi di dollari, quelle europee per 42.900 miliardi. Se gli asset delle banche Usa sono pari all'80% del Pil del Paese, quelle dell'Unione europea sono 3,5 volte il Pil. "Se l'Ue fa confusione con le banche può fare esplodere l'economia mondiale".
Martin Wolf sul Ft

giovedì 4 ottobre 2012

Se le banche non capiscono le imprese

Nel rapporto Liika­nen, il documento sulla riforma del si­stema bancario europeo presentato martedì a Bruxelles dagli esperti inca­ricati di elaborare le loro proposte, a un certo punto compare una classifica del­le principali banche della zona euro ordinate in base al rapporto tra i prestiti che concedono e i loro asset. Nelle prime 10 posizioni ci sono 3 banche italiane: Ubs, prima, Mps, seconda, Inte­sa Sanpaolo, decima. I dati dicono che sono 'generose', le banche italiane, anche se questi istituti faticherebbe­ro a trovare qualche cittadi­no (magari imprenditore) disposto a raccontare la sua bella storia di soddisfazioni raccolte in filiale.
Due studiosi del Politecnico di Milano – Anna Florio e Giangiacomo Nardozzi – hanno analizzato il com­portamento e le scelte fatte dalle banche europee tra il 2007 e il 2009 per arrivare a un paio di conclusioni inte­ressanti. La prima, non sor­prendente, è che c’è una spiegazione di analisi eco­nomica alla stretta dei rubi­netti adottata dalle banche i­taliane ed europee in questi anni: la loro posizione fi­nanziaria è molto peggiora­ta, non sono più riuscite a ottenere fondi sul mercato tradizionale e quindi hanno usato le risorse messe a di­sposizione dalla Bce per compensare un’assenza di fondi sul mercato interban­cario piuttosto che avventu­rarsi in rischiosi prestiti alle imprese. Ma è la seconda conclusione quella più inte­ressante: la recessione ha re­so evidente quanto alle ban­che italiane, soprattutto quelle grandi, manchi la ca­pacità di capire davvero se una piccola o media impre­sa sarà in grado di rimbor­sare il denaro che chiede in prestito. Questo perché al di là delle informazioni ufficiali l’istituto di credito avrebbe bisogno di una serie di dati 'informali' sullo stato di sa­lute di un’azienda, elemen­ti che si possono ottenere soltanto grazie a una solida relazione con il cliente. «La flessibilità nell’utilizzo di ra­ting di credito che derivano da modelli standardizzati è limitata» ricordano i due studiosi. Banche che non ca­piscono le imprese faticano a concedere loro prestiti.
Lo studio di Florio e Nar­dozzi apre il 17esimo rap­porto della Fondazione Ros­selli, incentrato sulla crisi del modello della banca com­merciale territoriale italiana. Il rapporto, a cura degli eco­nomisti Giampio Bracchi e Donato Masciandaro, mo­stra come il modello della banca italiana – che racco­glie depositi per fare credito alle imprese mantenendo un rapporto abbastanza sta­bile tra i due elementi – ab­bia resistito bene alla crisi e­conomica internazionale, ma adesso si debba con­frontare con il problema del­la redditività. «Per due de­cenni questo modello è sta­to dopato – spiega Mascian­daro – se volete stabilità non potete volere anche rendi­menti a due cifre. Se si ac­cettano rendimenti a due ci­fre allora bisogna accettare che le banche possano falli­re ». Gli utili delle banche i­taliane si stanno assotti­gliando e questo le costrin­ge a studiare soluzioni per ridurre i costi – a partire da un taglio al numero delle fi­liali – senza rinunciare alla vocazione originaria di ban­che commerciali territoria­li. Sarà uno «sforzo enorme» ricordano gli esperti della Fondazione Rosselli. Per chi volesse vederne una confer­ma concreta basta dare un’occhiata agli ostacoli che sta incontrando il piano in­dustriale elaborato da Ales­sandro Profumo e Giuseppe Viola per il Monte dei Paschi. Un piano a base di tagli per ritrovare l’utile. 

da Avvenire

mercoledì 3 ottobre 2012

Il processo (molto politico) a JPMorgan


Bear Stearns, che prima della crisi era la quinta banca d’America, ha venduto titoli legati a mutui immobiliari spacciandoli per investimenti sicuri, ma sapeva che in realtà non valevano quasi nulla. JPMorgan, che nel 2008 su pressione del Tesoro e della Federal Reserve ha dovuto comprare l’istituto rivale per salvarlo, adesso dovrà rispondere di quei comportamenti. È davvero un anno maledetto per la banca guidata da Jamie Dimon, la più grande degli Stati Uniti: dopo avere subito il caso di Bruno Iksil, il trader basato a Londra che con le sue scommesse ardite e massicce sui derivati le ha fatto perdere più o meno 9 miliardi di dollari, adesso dovrà gestire una complicata vicenda giudiziaria che ha anche un sapore molto politico.
L’indagine è stata annunciata ieri da Eric Schneiderman, procuratore generale di New York, che si è mosso come uno dei cinque co-presidenti del <+corsivo>Residential Mortgage Backed Securities working group<+tondo>, la task force sui titoli legati ai mutui immobiliari creata da Obama a gennaio per indagare sui comportamenti e sulle responsabilità che hanno portato alla crisi dei subprime, origine della sconquasso dell’economia globale. L’accusa riguarda Bear Stearns: tra il 2006 e il 2007 la banca ha venduto titoli basati su mutui ipotecari che si sono rivelati fallimentari causando agli investitori perdite stimate in 22,5 miliardi di dollari. Secondo il procuratore Bear Stearns sapeva che quei titoli avevano un alta probabilità di rivelarsi insolventi, ma li ha comunque raccomandati come investimenti sicurissimi. Visto che la banca "colpevole" non esiste più, il procuratore di New York ha messo sotto accusa JPMorgan, che nel marzo del 2008 (cioè prima del fallimento di LehmanBrothers) ha inglobato la banca a un prezzo irrisorio per evitarne il fallimento. «I clienti di Bear Stearns possono essere sicuri che JPMorgan garantirà il loro rischio di controparte» aveva assicurato il manager Dimon nell’annunciare l’operazione, che gli era stata imposta dalla Federal Reserve e dal Tesoro. Con un simile appoggio sicuramente non poteva immaginare future grane tribunalizie. Ha sottolineato ieri il portavoce della banca: «La causa riguarda interamente la condotta storica di un’entità che abbiamo acquistato nel giro di un fine settimana su ordine del governo americano». Secondo alcune indiscrezioni la vicenda potrebbe chiudersi con un patteggiamento che costerebbe a JpMorgan 2 o 3 miliardi di dollari.
Gli investitori non sono sembrati molto preoccupati: a Wall Street il titolo della prima banca degli Usa ha perso meno dello 0,5%. Probabilmente perché l’accusa potrebbe rivelarsi solo un’operazione elettorale. Schneiderman è di fede democratica, eletto procuratore generale di New York nel 2010 come candidato del partito di Obama. È lo stesso giudice che all’inizio del mese ha accusato di elusione fiscale la Bain Capital, la società di investimenti fondata da Mitt Romney, l’avversario di Obama per la Casa Bianca, lo stesso che domani affronterà il presidente nel primo scontro televisivo. La task force sui mutui di cui fa parte era stata fondata da Obama a gennaio. «Questa squadra ci aiuterà a girare la pagina su un’era di irresponsabilità» aveva detto il presidente, ma da allora la task force non aveva dato nessun risultato. Stasera Obama potrà invece parlare davanti alle telecamere di questa indagine sulle origini della crisi per ammorbidire un po’ la realtà di un tasso di disoccupazione sopra l’8%. E il tutto a scapito dell’amico e sostenitore Dimon, manager di JPMorgan da 23 milioni all’anno (il più pagato degli Usa) che ancora un paio di mesi fa veniva indicato dal presidente come «uno dei più abili banchieri che abbiamo».
da Avvenire di oggi