Per assumere 1.300 nuovi operai nella fabbrica di Palencia alla quale affidare due nuove piattaforme la Renault ha ottenuto dai sindacati spagnoli: far lavorare gli operai nei giorni festivi, se necessario; una giornata lavorativa di 7 giorni; aumenti di salario inferiori all'inflazione; la possibilità di fare contratti di 18 mesi; stipendi dei nuovi assunti inferiori (di circa un quarto) a quelli dei vecchi lavoratori. "Non gli chiediamo di essere competitivi rispetto ai cinesi o ali indiani - ha spiegato il ceo Carlo Tavares - ma di essere competitivi con la nostra attività in altre regioni". Con 2,4 milioni di auto costruite nel 2010 la Spagna è il secondo produttore d'Europa, dietro la Germania (5,9 milioni di auto) e davanti alla Francia (2,2 milioni).
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giovedì 22 novembre 2012
Benzina e tasse - un aggiornamento
Certi italiani, probabilmente quelli che ci badano meno, alla fine dell’estate erano arrivati a pagare 2 euro per avere un litro di benzina. Tra fine agosto e inizio settembre applicavano questo prezzo strabiliante le stazioni di rifornimento più piccole, vecchie e rigorosamente senza il fai-da-te. Un pieno sotto i 2 euro al litro, in realtà, è sempre stato disponibile in ogni città d’Italia. In queste settimane chi dà un’occhiata attenta ai listini dei distributori prima di entrarci può trovare benzinai che vendono la verde a 1,7 euro al litro, o anche a meno, e il gasolio attorno agli 1,65 euro al litro.
Con la benzina funziona così: quando il prezzo sale fa molto rumore, quando scende se ne parla appena. Dalle rilevazioni del ministero dello Sviluppo economico – l’ultima è del 19 novembre – emerge che il prezzo medio della benzina negli ultimi tre mesi è sceso di 15 centesimi, da 1,89 a 1,74 euro al litro, quello del gasolio è calato della metà, da 1,78 a 1,70 euro al litro. Queste diminuzioni si spiegano con il miglioramento del cambio tra euro e dollaro e un calo delle quotazioni internazionali. Non tanto quelle del petrolio grezzo – il Brent europeo è sempre attorno ai 115 dollari al barile – quanto quelle del Platts, il mercato su cui si scambiano i prodotti raffinati. Su questa piattaforma il prezzo della benzina in euro è sceso dalla media di 67 centesimi al litro di agosto ai 55 centesimi attuali, quello del gasolio è passato da 68 a 63 centesimi al litro. Anche a guardare lo “stacco”, cioè la differenza tra il prezzo della benzina in Italia e la media europea, al netto delle tasse, la tendenza è positiva: sia per la benzina che per il gasolio siamo attorno ai 2,5 centesimi al litro, cioè sotto i 4 centesimi considerati “strutturali”.
Ma ne ha di strada da scendere, la benzina, prima di tornare a valori sensati. Nei 27 Stati dell’Unione europea la verde costa in media 1,61 euro al litro, il gasolio 1,46, cioè rispettivamente 15 e 24 centesimi in meno dei prezzi italiani, che sono entrambi al secondo posto nella classifica europea. Tutta colpa delle tasse, mostruosamente salite dal 2011 ad oggi fino a pesare più di 1 euro su un litro di benzina e 91 centesimi su un litro di gasolio. Nessun Paese della zona euro tassa i carburanti come l’Italia. Nell’intera Unione europea, e solo per l’effetto cambio, solo il fisco inglese è più esoso del nostro. L’ultimo aumento, subdolo, è nella legge di stabilità, con una norma che rende stabile il rincaro delle accise dicirca 4 centesimi al litro introdotto in agosto per finanziare la ricostruzione delle zone terremotate dell’Emilia. Doveva durare fino a fine anno, invece - come è successo fin dai tempi della guerra di Abissinia - resterà per sempre. In questo contesto l’unico che ci guadagna è lo Stato: nei primi 10 mesi dell’anno, calcolano dal Centro studi promotor, i consumi di carburanti sono scesi del 10% (a 32,8 miliardi di litri), la cifra spesa dagli italiani per fare il pieno è però aumentata del 6,9% (a 56,8 miliardi) e l’incasso dell’erario ha segnato un +15,5%, a 26 miliardi di euro.
I benzinai sono infuriati, ed è difficile non capirli. Già fanno un’attività a bassissimo margine, dato che guadagnano in media 3-5 centesimi ogni litro venduto (gli utili grossi, nella filiera del petrolio, si fanno ormai solo con i pozzi), adesso stretti tra le pressioni del fisco e quelli delle compagnie rischiano di fallire uno dopo l’altro. Non si oppongono al piano di riduzione della rete di distribuzione, troppo grande e costosa, ma non vogliono stare zitti mentre vengono soffocati. Ieri le organizzazioni dei gestori Faib Confesercenti, Fegica Cisl e Figisc/Anisa hanno annunciato che spegneranno le pompe dal 12 al 14 dicembre e per una settimana, a fine mese, non accetteranno i pagamenti con le carte di credito. Accusano il governo di non avere mantenuto le promesse fatte questa estate e le compagnie petrolifere di non rinnovare gli accordi collettivi. Il governo, per convincerli a rinunciare alla protesta, ha convocato un tavolo per il 4 dicembre. Un taglio di quelle tasse che pesano per più della metà di ogni pieno, però, sembra improbabile.
da Avvenire di oggi
I problemi del petrolio iracheno
La produzione di petrolio dell’Iraq, ha scritto l’Aie – l’Agenzia internazionale dell’energia – nel suo recente “Special Report” dedicato a Baghdad, raddoppierà in 8 anni: passerà dai 3,2 milioni di barili quotidiani di oggi a oltre 6 milioni di barili nel 2020. L’Aie – che cura gli interessi energetici dei Paesi dell’Ocse – non lo scrive, ma il governo iracheno due anni fa prevedeva per il 2020 una produzione di 12 milioni di barili al giorno. Non sorprende che i vecchi obiettivi siano stati così rapidamente abbandonati: con il passare degli anni l’Iraq sta regalando molte delusioni alle compagnie petrolifere.
Chi ha vinto la corsa all’oro nero iracheno iniziata subito dopo la fine della guerra sta valutando che fare con gli enormi giacimenti di quella terra, sotto la quale, secondo le stime più ottimistiche, riposano 200 miliardi di barili di greggio. I problemi emersi in questo decennio sono tanti. Le infrastrutture per trasportare e accumulare il greggio, che hanno avuto pochissimi investimenti negli anni di Saddam, sono in pessimo stato e migliorano troppo lentamente. Le leggi che regolano il settore petrolifero, basate sulla Costituzione del 2005, sono vaghe e si prestano a troppe interpretazioni diverse. La burocrazia è asfissiante e la corruzione impera: l’Iraq è al 175° posto tra le 182 nazioni nella classifica della corruzione preparata da Transparency International e secondo l’ultimo rapporto dell’ispettore generale speciale degli Stati Uniti per la ricostruzione ogni giorno 800 milioni di dollari lasciano l’Iraq illegalmente per essere nascosti all’estero.
«L’Iraq è un mondo meraviglioso per chi si occupa di idrocarburi, ma faccio un po’ fatica a dire che va tutto bene» ha ammesso Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, alla presentazione del rapporto dell’Aie. L’Eni in Iraq si è aggiudicata nel 2008 il giacimento di Zubair, il terzo più interessante del Paese dopo Rumaila, finito agli inglesi di British Petroleum, e West Qurna I, aggiudicato agli americani di ExxonMobil. Il manager veneto ha fatto capire che difficilmente l’azienda italiana parteciperà alle prossime aste organizzate dal governo di Baghdad: «Ci stiamo proprio ponendo la questione se insistere in un Paese che si è rivelato più complesso di quello che immaginavamo. Avessimo avuto più soddisfazione dal duro lavoro nel Paese non ci porremmo il problema».
Exxon il problema se lo è già posto e lo ha anche risolto, decidendo di andarsene. La compagnia americana ha messo in vendita i suoi diritti su West Qurna – un progetto da 50 miliardi di euro – per potere investire senza problemi nella regione autonoma del Kurdistan, nel Nord del Paese. È stato il governo iracheno a spingerla ad andarsene: Baghdad infatti ha dato l’aut aut, chi fa contratti con il governo della regione autonoma (accordi illegali, secondo Baghdad) non potrà lavorare anche in Iraq. La questione, ovvio, verte sui soldi. Il governo autonomo del Kurdistan vuole che le royalties del petrolio trovato sui suoi giacimenti vadano alla sua gente, Baghdad invece ha scritto nella Costituzione che il denaro del petrolio va diviso tra tutta la popolazione irachena. Con 23 trivellazioni in corso e 50 contratti già firmati tra le compagnie e il governo autonomo l’area del Kurdistan è una delle più promettenti del mondo: l’obiettivo è portare la produzione a 1 milione di barili nel 2014 e a 2 nel 2019. A settembre i due governi avevano trovato un accordo: il Kurdistan avrebbe prodotto 200 mila barili al giorno da ottobre in cambio di mille miliardi di dinari (circa 670 milioni di euro). Poche settimane dopo il pagamento dei primi 650 miliardi, però, Baghdad ha accusato i curdi di non essere in grado di mantenere la produzione al livello concordato, ha annullato l’intesa e ha dato il suo aut aut.
Exxon, che pure aveva in Iraq un giacimento colossale, ha scelto i curdi; poco dopo l’ha seguita anche Chevron. Total potrebbe farlo presto. Il fatto è che il governo del Kurdistan offre contratti molto più redditizi di quello di Baghdad. Eni non ha intenzione di muoversi, almeno per ora. La fuga degli occidentali in Kurdistan lascia spazio a compagnie asiatiche in cerca di fortuna in Iraq: in corsa per il giacimento che Exxon lascerà ci sono la russa Lukoil, che già ha West Qurna II, e la cinese Cnooc, che in Iraq ha un giacimento di media grandezza. E l’ultima asta per le esplorazioni organizzata da Baghdad si è conclusa con la vittoria delle russe Lukoil e Bashfnet, della Pakistan Petroleum e della Kuwait Energy. Compagnie di seconda fascia, con tecnologie non all’altezza di quelle dei rivali americani ed europei, e quindi meno capaci di sfruttare i giacimenti iracheni. A forza di burocrazia, liti internee corruzione, l’Iraq rischia così di perdere clamorosamente la scommessa più importante e più facile, quella sull’oro nero, da cui arrivano il 95% delle entrate del Paese.
da Avvenire di oggi
mercoledì 21 novembre 2012
L'austerità italiana nei numeri Ocse
martedì 20 novembre 2012
La febbre delle banche italiane
Alcuni dei numeri dell'ultimo rapporto Moneta e Banche della Banca d'Italia:
- Nei primi 9 mesi del 2012 il credito delle imprese è diminuito di 38 miliardi di euro, cioè del 4,2%, in confronto con un anno fa.
- I depositi in banca valgono 2.340 miliardi, i prestiti concessi 2.860 miliardi.
- Le prime 33 banche devono trovare 78 miliardi di euro per rimborsare i bond che scadono il prossimo anno.
- Le prime 4 banche italiane hanno crediti deteriorati per 166 miliardi di euro
lunedì 19 novembre 2012
I problemi di Desertec
Il progetto Desertec, quello che prevede di produrre energia elettrica con centrali solari nell'Africa del Nord, perde pezzi. A fine ottobre è uscita Siemens, poi ha lasciato anche Bosch. Costi troppo alti e progetti troppo rischiosi, dicono. La Spagna, poi, non ha firmato il progetto di connessione della rete elettrica con il Marocco. A tre anni dall'avvio del progetto ancora non è stato realizzato nulla.
sabato 17 novembre 2012
Wind Jet contro Alitalia
Agli inizi di agosto, quando dopo 7 mesi di negoziato la trattativa per la fusione di Wind Jet in Alitalia stava per fallire, i dirigenti del vettore siciliano hanno tirato fuori la loro verità: l’ex compagnia di bandiera, dicevano, da mesi stava sostanzialmente gestendo la società di Antonino Pulvirenti, per questo adesso non poteva fare saltare il tavolo e lasciarla fallire. Invece il tavolo è saltato davvero e il 13 agosto Wind Jet ha smesso di volare lasciando a terra 300 mila passeggeri.
Nella concitazione di quei giorni questa versione dei fatti è rimasta in secondo piano. Torna d’attualità adesso perché qualche giorno fa – come ha rivelato ieri il quotidiano La Sicilia e come è stato confermato dal vettore siciliano – Wind Jet ha consegnato al Tribunale di Catania un atto di citazione in cui spiega la vicenda nei dettagli e finisce col chiedere ad Alitalia 162,5 milioni di danni. La cronaca di questa trattativa ha dettagli che, se fossero confermati, sarebbero stupefacenti: manager di Alitalia che usavano delle email non aziendali per inviare ai colleghi di Wind Jet le indicazioni sulle strategie commerciali da adottare, si firmavano con dei soprannomi e chiedevano di cancellare i messaggi una volta letti. In questi testi inusuali, sostiene Wind Jet, c’erano istruzioni cruciali per la gestione della compagnia: prezzi, rotte, numero di posti da offrire, chiusure di rapporti contrattuali con i fornitori. Addirittura l’assunzione di 6 piloti di Alitalia al posto di 6 colleghi di Wind Jet a cui scadeva il contratto. I manager siciliani si sono fidati, ritenendo che adeguarsi fosse comunque utile visto che la trattativa sembrava destinata a una sicura intesa. L’accordo invece non arriverà: il 26 luglio l’Antitrust pone per la chiusura dell’operazione condizioni che Alitalia giudica troppo costose, la trattativa si guasta e a inizio agosto salta definitivamente. A Wind Jet sembrano convinti che fosse tutta una strategia per farli fallire e quindi rubargli i passeggeri. Nel documento consegnato ai giudici parlano di «concorrenza sleale per annientamento».
È per capire cosa sia successo davvero che lo scorso 7 novembre gli agenti della Guardia di Finanza sono andati nel quartier generale di Alitalia per ritirare alcuni documenti. Le fiamme gialle hanno perquisito anche gli uffici di Wind Jet, in un’indagine parallela, sempre al Tribunale di Catania, sulla contabilità dell’azienda di Pulvirenti. Alitalia comunica di non avere ricevuto nessun ricorso, giudica «completamente prive di fondamento le tesi di Wind Jet e comunque confida nella magistratura per un accertamento della correttezza del suo operato».
Nell’aeroporto Fontanarossa di Catania – il primo della Sicilia e la base della vecchia Wind Jet (che con i suoi 3 milioni di passeggeri aveva un quarto del mercato aereo siciliano e un terzo di quello dell’area catanese) – lo spazio vuoto lasciato dal vettore locale è già stato quasi tutto riempito. Il vettore sardo Meridiana ha aperto rotte su Torino, Verona, Bologna e Napoli e aumentato i voli su Milano e Roma (le tratte più preziose). Alitalia ha potenziato le rotte per Roma e Linate e ha fatto di Catania la quarta base di Air One, con due Airbus A320 che da qualche settimana la collegano anche a Torino, Verona e Venezia. Air One ha anche aumentato i voli sulle vecchie destinazioni di Pisa e Malpensa. I dirigenti dell’aeroporto catanese sperano di riuscire a portare al Fontanafredda qualche vettore low cost che porti più concorrenza nei voli su Roma.
da Avvenire di oggi
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