John Paulson, il 56enne titolare del fondo Paulson & Co., avrebbe detto ai suoi cilenti che sta scommettendo contro i titoli sovrani europei e si sta proteggendo con i Cds. Il fondo hedge di Paulson ha in gestione 24 miliardi di dollari e lo scorso anno ha perso il 51% scommettendo sula ripresa americana. Paulson è sicuro che l'euro presto scomparirà.
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martedì 17 aprile 2012
sabato 14 aprile 2012
La caduta delle Borse del 13 aprile
Gli investitori stanno scommettendo pesantemente sul fallimento della Spagna. Dall’inizio di marzo tutti vogliono i credit default swap (Cds) iberici, quei titoli che garantiscono un rimborso nel caso che Madrid non sia in grado di onorare i suoi debiti. All’inizio di marzo assicurarsi contro l’insolvenza spagnola costava 355 dollari per ogni 10 mila dollari di credito, dopo 15 giorni il prezzo è salito fino a oltre i 400 dollari, ieri ha superato i 500, toccando un nuovo record. Quello precedente, 492, era stato segnato lo scorso novembre, nel peggior momento della crisi del debito europeo. In quelle settimane i Cds italiani erano arrivati a superare i 590 punti e l’Italia fino a ieri era l’unica nazione dell’euro che aveva visto i suoi Cds superare quota 500 ma non aveva dovuto chiedere aiuti internazionali (come invece hano fatto Grecia, Portogallo e Irlanda). Adesso i nostri Cds costano 428 dollari, 70 in più rispetto all’inizio di marzo, ma sopra quota 500 c’è appunto Madrid.
Da qualche giorno il governo guidato da Mariano Rajoy è costretto a smentire che la Spagna debba essere salvata, eppure la voce di un imminente piano di salvataggio continua a circolare. Il principale problema è che il governo ha comunicato dati sul debito pubblico che però non comprendono quelli delle Regioni, e senza informazioni più complete l’Europa continua a dubitare dell’efficacia del piano di risanamento dei conti spagnolo. La credibilità del nuovo premier iberico nel mondo finanziario sta scendendo tanto che ieri il <+corsivo>Wall Street Journal<+tondo> gli ha dedicato un duro editoriale. Basta il titolo: «Pollyanna in Madrid». Un dato, poi, ha fatto ulteriormente salire la tensione: a marzo le banche spagnole hanno raddoppiato la loro richiesta di fondi alla Banca centrale europea, ottenendo 227 miliardi di euro sui 361 messi a disposizione da Francoforte. E questo dopo essere state in prima fila nell’attingere alle aste a tasso scontato con cui la Bce ha concesso alle banche mille miliardi tra dicembre e febbraio. Sembra, insomma, che gli istituti di credito iberici, in serissime diffiicoltà per avere gonfiato la bolla immobiliare nazionale, non riescano a raccogliere fondi sul mercato se non chiedendoli alla Bce.
Il nuovo allarme ha spinto in alto di altri 16 punti i tassi dei Bonos spagnoli (al 5,98%), con gli italiani che li seguono a distanza sentendo la tensione (5,52%, 12 punti in più). Il nostro <+corsivo>spread<+tondo> rispetto ai Bund tedeschi è salito da 362 a 379 punti, quello spagnolo è salito fino a 424 punti.
Le Borse sono crollate, anche in vista del probabile taglio di rating delle banche europee da parte di Moody’s, che però è stato rimandato: alle italiane doveva toccare lunedì, ma a mercati chiusi l’agenzia ha annunciato una modifica dell’agenda, rinviando tutti a maggio. I titoli bancari (-6% Unicredit, -4,8% Intesa) hanno affondato Milano, che ha perso il 3,4% bruciando 11 miliardi di capitalizzazione. Giù del 3,6% Madrid, -2,5% Parigi, -2,4% Francoforte e -1% Londra. Male anche Wall Street, che vede peggiorare lo scenario globale: ieri sono arrivati cattivi dati sulla fiducia dei consumatori americani e sulla crescita cinese (il Pil salirà dell’8,1% invece dell’8,4% previsto).
In questo contesto estremamente complesso, per l’Italia c’è anche il altro rischio di perdere il controllo delle aziende, ha avvertito un allarmato Giovanni Perissinotto, amministratore delegato di Generali: «La Borsa non funziona – ha detto il manager –, bisogna cambiare le regole. C’è troppa speculazione e i prezzi sono preoccupanti, con le aziende sottovalutate in maniera pericolosa e attaccabili dall’estero».
venerdì 6 aprile 2012
La Balena di Londra
Per i giganti di Wall Street da quest’estate la vita potrebbe complicarsi molto. A luglio dovrebbe dovrebbe entrare in vigore la "Volcker Rule", la regola – contenuta nel più generale Dood-Frank Act, la riforma della finanza americana – che vieta alle banche d’affari di fare investimenti in Borsa con i loro stessi capitali invece di limitarsi a scommettere i soldi dei clienti. I funzionari della Sec, l’organismo che vigila su Wall Street, da mesi stanno studiando assieme ai colleghi della Federal Reserve come applicare concretamente la nuova regola. L’idea è quella di consentire alcune eccezioni. Le grandi banche d’affari, JPMorgan, Goldman Sachs e Morgan Stanley, stanno facendo pressione per mantenere il massimo grado possibile di libertà.
Ma la storia della "Balena di Londra", raccontata ieri dall’agenzia <+corsivo>Bloomberg<+tondo> e dal <+corsivo>Wall Street Journal<+tondo>, indebolisce duramente le argomentazioni delle banche. La "Balena di Londra" si chiama Bruno Iksil, è francese e dal 2005 lavora a Londra per JPMorgan. Iksil non fa il trader con i soldi dei clienti, ma lavora nella divisione "chief investment office", l’unità che si occupa di gestire il patrimonio della banca americana. È una divisione che non fa scommesse azzardate, ma ha il compito di proteggere gli asset di JPMorgan. Iksil è quindi attivo proprio in quell’ambito di attività bancaria che la "Volcker Rule" punta a ridurre al minimo, se non ad eliminare.
Se lo chiamano la "Balena di Londra" è perché questo trader nelle ultime settimane ha mosso una quantità di denaro impressionante sul suo mercato di riferimento, quello dei <+corsivo>credit default swap<+tondo> (i titoli con cui gli investitori si assicurano contro il fallimento della loro controparte). «Non avevamo mai visto niente del genere» hanno raccontato ai giornalisti i trader di cinque fondi speculativi e di banche d’affari rivali che si sentono danneggiati dalla distorsione dei prezzi che Iksil è in grado di produrre. La Balena avrebbe accumulato una posizione enorme, da 100 miliardi di dollari, sul principale indice americano dei Cds, e con questa massa di movimento le sue operazioni sono in grado di scuotere il listino in maniera violenta. Iksil sarebbe anche riuscito a "rompere" qualcuno dei principali indici dei Cds, creando una disparità tra il valore dell’indice e quello della media dei Cds delle società.
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