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giovedì 12 dicembre 2013

La riforma della Banca d'Italia. Perché no

La riforma della Banca d’Italia non è uno di quegli argomenti di cui si chiacchiera nei bar. Se proprio devono parlare di politica, gli italiani discutono piuttosto dell’Imu e dei suoi sostituti dai nomi esotici. Ma in questi giorni l’abolizione della tassa sulla casa (almeno nella sua vecchia forma) e la trasformazione della nostra Banca centrale in una public companycondividono lo stesso destino, perché il governo a fine novembre li ha inseriti nel medesimo decreto legge, il numero 133. Un testo che adesso è in discussione in Senato e che, se approvato in via definitiva dal Parlamento, può rendere il nostro Paese un caso unico al mondo: in nessun’altra nazione investitori privati stranieri possono avere una quota di maggioranza della Banca centrale.

Sono pochissime le Banche centrali non interamente di proprietà dello Stato. Soltanto la Federal Reserve americana, istituita un secolo fa, si serve di "banche centrali federate" il cui capitale è sottoscritto da privati. Ma questi privati sono le stesse banche (tutte, senza eccezioni), obbligate a partecipare al capitale se vogliono esercitare il mestiere di istituto di credito. E comunque le banche americane non sono vigilate dalla Fed, ma dal governo, e sono soci simbolici: le azioni non sono trasferibili e somigliano a una sorta di lasciapassare. Invece la Banca d’Italia è scivolata in mani private durante gli anni Novanta, quando le banche statali che ne controllavano il capitale sono state privatizzate.

Così oggi banche e società di assicurazioni italiane controllano il 94,3% delle quote di Bankitalia, gli enti pubblici Inps e Inail hanno il restante 5,7%. Gli azionisti privati della Banca d’Italia naturalmente non possono intervenire in nessun modo sull’attività istituzionale e le scelte di politica monetaria. Ma c’è un motivo se in quasi tutto il mondo la Banca centrale è gestita dallo Stato. Stampando denaro dal nulla in regime di monopolio e impiegandolo in titoli e prestiti alle banche in cambio di un interesse – l’attività di "signoraggio" – ogni istituto centrale incamera degli utili. Per esempio la nostra Banca centrale nel 2012 ha fatto utili per 2,5 miliardi. Soldi che per statuto vengono in parte messi "a riserva", in parte distribuiti allo Stato e in (piccola) parte divisi tra i soci.

Non c’è motivo per cui dei privati debbano guadagnare da un’attività di totale monopolio concesso per legge dallo Stato. Infatti il Parlamento aveva deciso, nel 2005, che i titoli della Banca centrale sarebbero dovuti tornare sotto il controllo pubblico. Soltanto che lo stesso Parlamento non ha mai approvato il regolamento per l’attuazione di questa legge e quindi il ritorno allo Stato della Banca d’Italia non è mai avvenuto.

La riforma decisa dal governo il 27 novembre abolisce la legge del 2005 e trasforma la Banca d’Italia in una società a proprietà diffusa (una public company, appunto) in cui nessuno può avere una quota superiore al 5%. Attualmente sono tre le banche che superano quella soglia: Intesa Sanpaolo, UniCredit e Generali, che assieme posseggono il 71% del capitale. Quindi dovrebbero cedere complessivamente il 56%.

Il decreto stabilisce che gli azionisti possono essere banche, fondazioni bancarie, società di assicurazioni, enti di previdenza e fondi pensione. Le norme europee non ammettono in generale discriminazioni all’interno dell’Unione, quindi il governo ha pensato bene di stabilire che questi soci possono venire da qualunque dei ventotto Paesi della Ue. Se gli acquirenti delle quote da cedere fossero nuovi soci stranieri, allora ci ritroveremmo con una Banca d’Italia non più italiana.

Così ad esempio – come ha notato Massimo Mucchetti, l’ex vicedirettore del "Corriere della Sera" eletto senatore con il Pd – può succedere che «all’assemblea annuale di Via Nazionale il delegato di una banca cipriota quotista, magari legato ai servizi segreti russi, possa venire a concionare». Con questo decreto il governo dà un aiuto alle banche azioniste e fa incassare qualcosa all’Erario. La legge aggiorna il valore del capitale della Banca d’Italia, che era rimasto alle lire del 1936 (300 milioni, cioè circa 156mila euro) e lo porta a 7,5 miliardi.

Una manna per le banche azioniste: la loro partecipazione nella Banca centrale si rivaluta di quasi 50mila volte. Il decreto del governo corteggia le banche stabilendo che se rivaluteranno nei loro bilanci le quote della Banca d’Italia che detengono allora avranno conti migliori da presentare aglistress test a cui la Banca centrale europea le sottoporrà il prossimo anno. Un abbellimento che però deve ancora essere approvato dalla Bce. Il governo, invece, tasserà queste rivalutazioni per incassare circa un miliardo (soldi che potrà usare per fare quadrare il bilancio pubblico del prossimo anno).

Tutti contenti, dunque? Non proprio, e difatti la riforma sta incontrando più di un ostacolo in Parlamento e anche a Francoforte, dove la Bce non ha potuto ancora dare il suo parere sulla nuova legge a causa – pare – delle forti perplessità della "solita" Bundesbank: i tedeschi considerano questa rivalutazione delle quote un ingiusto regalo alle banche italiane e sospettano che si tratti di una manipolazione vietata dai principi contabili internazionali con i quali i bilanci debbono essere redatti. Può darsi che abbiano ragione.

«Con la Banca centrale europea stiamo facendo una figura molto meschina» ammette Fulvio Coltorti, economista e direttore emerito dell’area studi di Mediobanca. Assieme ad Alberto Quadrio Curzio, Coltorti ha proposto, già dallo scorso aprile, una soluzione che permetterebbe di fare della Banca d’Italia una leva per la crescita dell’economia nazionale. Il piano, battezzato "Bankoro", dal punto di vista tecnico è abbastanza complesso. Semplifichiamo. I due economisti propongono che il Tesoro costituisca la Bankoro Spa, una società della Banca d’Italia che compri l’oro custodito da via Nazionale, 79 milioni di once che ai prezzi attuali valgono circa 72 miliardi di euro.

Attraverso questa vendita la Banca d’Italia avrebbe un profitto su cui dovrebbe pagare circa 20 miliardi di tasse. Il Tesoro incasserebbe quei soldi e li userebbe per liquidare gli attuali soci non pubblici della Banca d’Italia, diventandone socio per oltre il 90%. I soldi incassati dalle banche private in questa operazione sarebbero utili "realizzati", e quindi validi a tutti gli effetti per aumentare il loro patrimonio, che reggerebbe meglio gli stress test della Bce senza rischiare accuse di manipolazioni. Data la loro origine, tuttavia, questi utili sarebbero vincolati in un fondo che lo Stato non tasserebbe per un certo numero di anni, a patto che impieghi le sue risorse per finanziare gli investimenti di aziende particolarmente dinamiche, capaci quindi di "spingere" la ripresa della nostra economia.

«La nostra proposta – spiega Coltorti – parte dall’idea che l’oro della Banca d’Italia appartiene agli italiani. Rivalutarlo può servire a creare un fondo per finanziare la crescita di un Paese in forte depressione economica». L’economista è andato a vedere quanto altre Banche centrali europee hanno versato ai loro Stati negli ultimi quattordici anni, cioè da quando esiste l’euro, sotto forma di tasse e utili: 26 miliardi la Banque de France, 55 miliardi la Bundesbank, 4,6 miliardi la Banca d’Italia.

Questo non tanto perché i profitti della Banca d’Italia siano stati distribuiti tra i suoi azionisti (le banche hanno avuto 709 milioni in 14 anni) ma soprattutto perché la nostra Banca centrale mette molti dei suoi utili "a riserva", e così ha accumulato un tesoretto enorme, che oggi contiene, oltre all’oro, più di 38 miliardi di euro in titoli di Stato, azioni, quote di fondi. La soluzione "Bankoro" sarebbe un modo perché quei soldi vadano a spingere una ripresa che non c’è e che i più ottimisti prevedono comunque debolissima.
La riforma in discussione in Parlamento – elaborata da un ministro, Fabrizio Saccomanni, che viene proprio dalla Banca d’Italia – va in una direzione molto diversa. Coltorti critica anche gli aspetti tecnici. Non solo l’idea della public company in cui possono entrare degli stranieri. Ma anche la perizia appare «non proprio condotta a regola d’arte»: è firmata da tre periti scelti dalla stessa Banca centrale – l’ex presidente della Corte costituzionale Franco Gallo, l’ex vicepresidente della Bce ed ex primo ministro greco Lucas Papademos e il rettore della Bocconi, Andrea Sironi – e il governo ha poi scelto di adottare il valore massimo della loro stima (che suggeriva una forchetta da 5 a 7,5 miliardi).

L’economista una sua spiegazione su queste scelte se l’è data: «Così stando le cose, la Banca d’Italia dimostra di volersi smarcare dal controllo pubblico facendo mancare al sistema il suo aiuto nella fase peggiore della crisi. Ma i profitti di una Banca centrale nascono sulle spalle dello Stato e ad esso devono tornare. Altrimenti finiscono ad alimentare una corporazione che punta solo a garantirsi la sopravvivenza in mezzo a famiglie e imprese sempre più impoverite. Diciamo sempre che vogliamo abbatterle, le corporazioni, e invece...».

mercoledì 11 dicembre 2013

Draghi e Visco rassicuranno Weidmann

In questi anni abbiamo visto le Banche centrali pren­dere decisioni che sarebbero state impensabili fino a poco tempo fa: hanno azzerato i tassi, allargato spaventosamente i loro bilanci, prestato enormi quan­tità di denaro alle banche, comprato miliardi di titoli, e non solo titoli di Stato. Sarà ora di fare ordine e chia­rire che gli obiettivi, se non il mandato, delle Banche centrali sono cambiati?

Secondo Mario Draghi e Ignazio Visco no, non ce n’è bisogno. L’ex governatore della Banca d’Italia passato alla guida della Banca centrale europea e il suo suc­cessore a Palazzo Koch ne han­no parlato a un convegno ro­mano in memoria di Curzio Giannini, economista e grande studioso delle Banche centrali scomparso dieci anni fa. Il tema, per Draghi, era evidentemente insidiosissimo: la Bun­desbank, già insofferente per le politiche monetarie aggressive sperimentate a Francoforte, non aspetta al­tro che nuove occasioni per andare all’attacco. Ma Dra­ghi non ha dato spunti perché il governatore tedesco Jens Weidmann potesse allarmarsi. È partito da una delle idee di Giannini, quella per cui le Banche centra­li e il denaro si basano sulla «fiducia», per chiarire che perché i cittadini possano fidarsi, e quindi accettare le scelte di un ente sovranazionale come la Bce, questa non può fare scelte che vanno oltre il suo mandato, che consiste nel mantenere la stabilità dei prezzi. «La fiducia è intimamente collegata con l’agire all’interno del proprio mandato. La Bce sta operando e deve o­perare solo all’interno del suo mandato» ha assicura­to Draghi. Poi, a braccio, ha ricor­dato che la 'sua' Banca centrale «è potente, è indipendente ma non è eletta» quindi deve rispettare il compito avuto dai legislatori. Il mandato, però, può includere an­che misure ardite come il piano sal­va- Stati Omt o il prestito salva-ban­che Ltro, che sono «la ricerca della stabilità dei prezzi con tutti i mez­zi che la situazione richiede».

Visco, come era prevedibile, non la vede diversamente. «Non c’è biso­gno di trasformare la stabilità fi­nanziaria in un obiettivo delle politiche monetarie» ha detto il governatore della Banca d’Italia, «fare della sta­bilità finanziaria un obiettivo esplicito e supplemen­tare della politica monetaria può creare confusione sulle responsabilità e creare il rischio di conflitti».

Visco, come era prevedibile, non la vede diversamente.


da Avvenire

martedì 26 novembre 2013

La ripresa? Occhio allo shopping di Natale

Attenti agli acquisti, da qui a Natale. Sarà lo shopping delle pros­sime settimane a dirci se l’e­conomia italiana l’anno pros­simo migliorerà in maniera significativa. Parola di Mario Deaglio, uno dei più autore­voli economisti italiani: «Se le cose funzionano dovremo a­vere un miglioramento lieve già nei consumi natalizi». L’indicazione del professore piemontese (un’indicazione, non una previsione, dato che «nell’economia attuale fare previsioni è molto più diffici­le rispetto a vent’anni fa») può essere presa come la massima sintesi del più com­plesso ragionamento conte­nuto nel Diciottesimo rap­porto sull’economia globale e l’Italia, frutto della collabo­razione tra il Centro di ricer­ca Luigi Einaudi e Ubi Banca.
Contano gli acquisti di Nata­le perché al centro della crisi italiana c’è la paura di spen­dere. «Le famiglie sono anco­ra solide dal punto di vista fi­nanziario, ma hanno paura del futuro – spiega Deaglio –. Quindi contraggono i consu­mi e piuttosto comprano Btp». Ecco che allora «supe­rare la paura di compiere ac­quisti necessari e già rinviati» è un passaggio fondamenta­le per fare ripartire la nostra economia, e quindi «è com­prensibile che si ragioni sui 200 euro in più o in meno...». L’acquisto non più rimanda­to può essere il fattore capa­ce di fare girare verso l’alto la curva della crescita italiana. L’alternativa e un lieve recu­pero e un’immediata stabi­lizzazione su bassi livelli. Se­condo l’analisi del Centro Ei­naudi, per dare più forza a questa risalita debole attesa per il primo trimestre del­l’anno prossimo occorrono poi altri due passaggi: il pri­mo è ricominciare a ragiona­re per settori, nel senso di de­cidere su quali punti di forza puntare per i prossimi anni; il secondo è recuperare i soldi pubblici sprecati e usarli per «iniziative produttive». Ba­sterà? No, se l’Europa non ci aiuta e non facciamo le rifor­me: «All’Eurogruppo a Spa­gna e Francia hanno avuto più tempo per aggiustare i conti, noi no. Se la Germania su questo fosse più leggera a­vremmo quei 4-5 miliardi in più che ci aiuterebbero a spingere la ripresa. Se però poi non facciamo le riforme possiamo avere comunque una ripresa, ma una ripresa breve: andiamo a sbattere su­bito contro un tetto molto basso e dopo 6-8 mesi ci tro­veremo di nuovo nelle diffi­coltà di prima, ma senza nes­suno disposto a farci credito»
 Bisogna proteggere i fili d’er­ba della ripresa dalla gelata (e infatti Fili d’erba, fili di ripre­sa è il titolo dello studio del Centro Einaudi). Vale per l’I­talia ma anche per gli altri. A partire dalla Francia, dove, se­condo Deaglio, «hanno per­so il controllo dell’econo­mia ». Non c’è area del mon­do che oggi sia al riparo dal rischio di una crisi economia: non gli Stati Uniti, dove lo Sta­to e i cittadini sono sempre più indebitati (il tasso di in­solvenza sui prestiti per l’u­niversità, nota l’economista, è allo spaventoso livello del 30%); non la Cina, dove si va verso una società «modera­tamente prospera», ma non ricca; non il Giappone, che sta sperimentando politiche mo­netarie 'kamikaze' per com­battere un declino ormai ven­tennale. La vecchia Europa non sta certo meglio, tra na­zioni che cercano di proteg­gere il loro cortile con misu­re protezionistiche e movi­menti di protesta sociale che combattono la stessa idea di Unione Europea. In questo momento, conclude Deaglio, molto dipende da quello che si deciderà a Berlino: «Sono passati due mesi dalle elezio­ni e ancora i tedeschi pren­dono tempo sul nuovo go­verno. Tengono tutto in so­speso. È pericoloso: se la Ger­mania sbaglia l’Europa è ve­ramente a rischio». 

da Avvenire

giovedì 21 novembre 2013

La Fed che accelera. La Bce che frena

La Federal Reserve continua a spostare in avanti il momento in cui smetterà di spingere l’acceleratore. Martedì sera, al­la cena annuale del club americano degli e­conomisti, il presidente Ben Bernanke ha ri­percorso le motivazioni dietro le scelte fatte nei suoi otto anni alla guida della Banca cen­trale. Ha spiegato che la forward guidance, cioè la scelta di dare ai mercati indicazioni a lungo termine sulle strategie della Fed, rap­presenta un grande passo avanti verso una politica monetaria più trasparente. Poi ha di­feso il quantitative easing : il massiccio ac­quisto di titoli pubblici e legati ai mutui – ha detto Bernanke – sta servendo a tenere bassi i tassi di breve periodo. Quindi il capo della Fed ha fatto capire che questa strategia andrà avanti ancora a lungo: ci vorrà infatti «un po’ di tempo» prima che la politica monetaria a­mericana torni «alla normalità».

Per Bernanke è stato uno degli ultimi discor­si da banchiere centrale. Oggi la Commissio­ne bancaria del Senato americano confer­merà la nomina di Janet Yellen a prendere la
 guida della Fed dal 1 ° febbraio, uno dei pas­saggi finali per la conferma definitiva. Con il cambio di presidenza la Fed potrebbe diven­tare ancora più aggressiva. Rispondendo alle domande di un senatore, Yellen ha sottoli­neato un concetto che Bernanke ha già ripe­tuto un paio di volte negli ultimi mesi: le so­glie non sono meccanismi automatici. Signi­fica che se la Banca centra­le ha detto che i tassi reste­ranno azzerati almeno fin­ché la disoccupazione non tornerà sotto il 6,5%, non è però detto che al raggiungi­mento di quell’obiettivo il costo del denaro tornerà a salire. E lo stesso vale per il quarto piano di quantitive easing: non ci sono automatismi che costrin­geranno al Fed a ridurre gli acquisti di titoli, che da gennaio proseguono al ritmo di 85 mi­liardi di dollari al mese (anche se alla riunio­ne di ottobre i consiglieri della Fed sono tor­nati a parlare della possibilità di tagliare lo shopping nei prossimi mesi).

Sono pessime notizie per i rigoristi della Ban­ca
 centrale europea. Più le altre grandi ban­che centrali sperimentano politiche ultra-ag­gressive più sale la pressione perché la Bce faccia altrettanto. Martedì è stata l’Ocse a da­re un consiglio, non richiesto, a Mario Dra­ghi: «La Bce deve stare molto attenta – ha scrit­to l’organizzazione nel suo rapporto sull’eco­nomia mondiale – ed essere preparata a usa­re misure anche non con­venzionali per eliminare che i rischi di deflazione diven­tino permanenti». Simili ri­chiami non lasciano freddi i responsabili della politica monetaria europea. La set­timana scorsa Peter Praet, capo economista della Bce, ha spiegato che se Fran­coforte vedesse a rischio la sua missione «prenderemo tutte le misure che riterremo di dover prendere per svolgere il nostro manda­to ». Mentre martedì il portoghese Vitòr Con­stâncio ha chiarito che quella del quantitati­ve easingeuropeo è «un’opzione, niente di più». Ma è stata una di quelle mezze smenti­te che si trasformano in conferme. Tanto che Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e leader dei custodi del rigore tedesco all’in­terno del consiglio della Bce, si è fatto inter­vistare dallo Zeit per spiegare che l'attuale po­litica monetaria espansiva è «giustificata» da una prospettiva di inflazione molto bassa e che ora non è il momento di parlare di nuo­ve mosse: «Il consiglio ha appena deciso di tagliare i tassi, dunque non mi sembra sensato mandare immediatamente il messaggio che è pronto a farlo di nuovo».

Eppure già ieri qualcuno da Francoforte ha fatto arrivare all’agenzia
 Bloomberg una nuo­va indiscrezione: la Bce starebbe valutando di portare il tasso sui depositi bancari in ne­gativo, allo -0,1%. Sarebbe un altro passo a­vanti verso una Bce più all’americana. 


da Avvenire

martedì 19 novembre 2013

Il trio dell'agenda digitale

Dieci anni fa, quando l’Eurostat ha iniziato a raccogliere le statistiche sulla diffusione delle connessioni veloci a Internet, in Europa c’erano un paio di nazioni straordinariamente avanti, una manciata di Paesi innovativi e una larga maggioranza di Stati dove la banda larga non c’era proprio. L’Italia faceva parte dell’ultimo gruppo.
Abbiamo almeno provato a recuperare, all’inizio: nel 2005 la percentuale di famiglie italiane raggiunte da collegamenti veloci era salita al 13%, una quota che ci assegnava il diciottesimo posto in un’Europa dove la banda larga raggiungeva il 23% dei cittadini. Non sarà stato un grande risultato, ma è il migliore che siamo stati capaci di raggiungere. Negli anni successivi ci siamo lasciati sorpassare quasi da tutti e siamo scivolati alle ultimissime posizioni. Gli ultimi dati, quelli del 2012, dicono che con una percentuale di famiglie a banda larga salita al 55% siamo ancora lontani dalla media europea (è al 72%) e siamo più "moderni" solo di Bulgaria, Grecia e Romania. La tecnologia, però, non ci aspetta. Perché in questo decennio si è anche sviluppata la banda ultralarga, con connessioni che vanno almeno a 30 Megabit al secondo, quando non a 100. È in questa tecnologia che l’Italia dà il peggio di sé: la rete superveloce raggiunge il 14% delle nostra famiglie, la media europea è del 53,8%. Siamo ultimissimi in classifica, a 7 punti percentuali di distanza dalla Grecia, penultima, e a 10 dalla Francia, che chiude il terzetto degli "arretrati". In Irlanda, quart’ultima, le famiglie con la banda ultralarga sono il 42,1%.
Ecco perché il lavoro accettato da Francesco Caio, l’ex manager di Omnitel che il governo a giugno ha designato nuovo responsabile dell’Agenda Digitale per l’Italia, è un mestieraccio. Siamo terribilmente indietro e abbiamo pochi soldi da investire per recuperare. Nel testo della legge di Stabilità, per intenderci, continuano ad apparire e scomparire i soldi per completare la diffusione della banda larga nel centro nord. E sono 20 milioni, appena più di niente. Per fortuna che l’Europa ci dovrebbe dare una mano. L’Italia riceverà circa 35 miliardi di euro di fondi strutturali da Bruxelles tra il 2014 e il 2020. Il premier Enrico Letta, alla fine del vertice europeo di fine ottobre che era proprio dedicato all’Agenda Digitale, ha promesso che il 10% di quei fondi sarà investito nello sviluppo della banda larga.
Ieri il presidente del Consiglio, partecipando a una conferenza sull’Italia organizzata a Roma dal Financial Times, ha dato un’accelerata. Ha nominato due esperti internazionali per aiutare Caio ad analizzare lo stato della nostra rete e definire quali investimenti bisognerà fare «perché l’Italia possa essere competitiva». Con l’aiuto dei due esperti – Gerard Pogorel dell’Università ParisTech e Scott Marcus, ex advisor della Federal Communication Commission americana – Caio entro la fine dell’anno consegnerà al governo un rapporto con i risultati dell’indagine. La parte più interessante sarà il conto finale. I tre fisseranno gli investimenti «che qualunque proprietario della rete dovrà raggiungere». Telecom Italia, attuale proprietaria della rete, e Telefonica, suo grande azionista ispanico, sono avvertite.
da Avvenire di oggi

giovedì 31 ottobre 2013

I tassi bassi e le bolle immobiliari

A Londra il prezzo medio delle case in vendita è salito del 10% solo a settem­bre. La crescita – registrata da Rightmo­ve, primo portale immobiliare inglese – è davve­ro incredibile: a questi ritmi le quotazioni im­mobiliari della City raddoppierebbero entro la prossima estate. Ma anche se si guarda il dato del trimestre, meno volatile, si ottiene un dato fe­nomenale: +5,6%. E non parliamo di proprieta­ri avidi che hanno fissato prezzi stellari facendo fuggire gli acquirenti. Tutt’altro: a Londra le ca­se vanno via con il pane.

Spiega Miles Shipside, direttore del portale: «Alcuni agenti riferiscono che c’è una febbre da acquisto in certe zone del centro di Londra, con una disponibilità di case da comprare così scarsa che spesso loro riman­gono senza niente da vendere». Londra non è l’Italia, dove l’immobiliare è in pes­sima forma, ma non è nemmeno il Regno Uni­to. Nel senso che fuori dalla capitale l’aumento dei prezzi richiesti c’è ma è un più tranquillo +3,8% (in un anno, non in un mese). In alcune regioni come il Galles o West Midlands le quota­zioni sono addirittura in calo, e questo nono­stante il governo, attraverso il programma “Help to Buy”, aiuti i cittadini a comprare casa.

C’è un motivo. Non sono solo gli inglesi a fare shopping del mattone londinese, ma soprattutto gli oli­garchi russi, gli emiri arabi e gli imprenditori ci­nesi. Tutti in cerca dell’appartamento di lusso tra Chelsea e Notting Hill anche come bene rifugio davanti a un futuro incerto in cui una delle po­che certezze è che la City rimarrà la capitale del­la finanza europea. In questo la bolla immobiliare londinese non è troppo diversa da quella che si sta gonfiando altrove. Per esempio a Shanghai, dove i prezzi delle case nuove – ha scritto Bloom­berg – sono saliti del 12% solo in una settimana.

È chiaro che se non vivessimo negli anni dei sol­di facili (per chi può averli), cioè quelli in cui le Banche centrali di Stati Uniti, Europa e Giappo­ne tengono i tassi a zero e riversano ogni mese miliardi sul sistema finanziario, mancherebbe­ro i denari che possono spingere la pazza corsa delle quotazioni. Ed è altrettanto chiaro che, in assenza di altra aria finanziaria capace di gonfiare l’immobiliare, queste bolle rischiano di inter­rompere bruscamente il loro allargamento. Pos­sono anche scoppiare. Sicuramente l’inizio del­le “exit strategy” con cui le banche centrali ri­porteranno la loro politica monetaria a una si­tuazione più normale metterà alla prova molti mercati immobiliari.

Rischia anche la Germania. «I bassi tassi di inte­resse stanno alimentando la domanda per la pro­prietà immobiliare» ha scritto la Bundesbank la settimana scorsa. La Banca centrale tedesca è preoccupata perché «i prezzi delle case nelle città tedesche sono saliti così fortemente dal 2010 che una possibile sopravvalutazione non può esse­re esclusa». Secondo i calcoli dell’istituto cen­trale nelle città della Germania i prezzi delle ca­se sono superiori del 10% rispetto ai valori che sarebbero giustificati da fattori demografici ed economici.

Nei grandi centri come Berlino, Am­burgo o Monaco 'l’esagerazione” delle quota­zioni raggiunge il 20%. Pesa anche in questo ca­so l’investimento che arriva dall’estero, ma è for­te soprattutto la componente locale: i tedeschi, tradizionalmente legati all’affitto, da quando i tassi sono azzerati si trovano molti più soldi a di­sposizione di prima e quindi li investono anche nel mattone.

La formazione di bolle è una delle possibili controindicazioni delle politiche mo­netarie espansive e non può stupire che sia pro­prio la Bundesbank a lanciare l’allarme: se c’è u­na Banca centrale che non si trova a suo agio con le politiche più ardite della Bce di Mario Draghi è sicuramente la vecchia Buba. È un’altra rogna per il banchiere romano.

Le bol­le si formano dove l’economia si riprende: in­fatti mentre il mattone inglese e tedesco si sta rivalutando spaventosamente, quello spa­gnolo resta in agonia (i prezzi medi so­no sotto del 40% rispetto al 2007) e quello italiano è al quarto anno di stallo (il prezzo medio è sceso del 5,9% nel secondo trimestre, terzo peggior risultato nella zona euro). La Bce — che dovrebbe nello stesso tempo favorire con poli­tiche espansive la ri­presa della “periferia” d’Europa e protegge­re con politiche re­strittive la Germa­nia dalla frenesia immobiliare — non può permet­tersi ancora tan­ti anni di Unio­ne monetaria a due velocità.
da Avvenire

mercoledì 30 ottobre 2013

Huawei, le reti cinesi più usate e temute

 Davvero anche Pechino può ascolta­re le nostre telefonate? Giuliano Ta­varoli – ex brigadiere, poi responsa­bile della sicurezza di Pirelli e quindi di Te­lecom Italia, grande protagonista dello scan­dalo del 'dossieraggio' illegale risolto, nel suo caso, con un patteggiamento a 4 anni e mezzo di reclusione – la settimana scorsa lo ha detto esplicitamente in un’intervista al Mattino : «Nessuno ricorda che Telecom ac­quistava e acquista apparecchiature di rete dalla cinese Huawei, un po’ come mettersi il nemico in casa. Che ci spia da tempo».

Era inevitabile. Emerso lo scandalo della N­sa americana si è aperta la grande caccia mondiale alla spia, e Huawei non poteva sperare di restarne fuori. Se c’è un’azienda sospetta è questo colosso basato a Shenzen, una società da 140mila dipendenti e 27 mi­liardi di euro di fatturato che quest’anno è diventata il primo gruppo mondiale nelle componenti delle reti di telecomunicazione nonché il terzo maggior produttore di te­lefonini al mondo. Un anno fa a Washington l’Intelligence Committee della Camera ha dichiarato che le cinesi Huawei e Zte sono
 una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, quindi ha chiesto di escluderle da ogni collaborazione con il governo e ha scon­sigliato alle aziende di fare affari con loro. Sempre per motivi di sicurezza, pochi mesi prima era stata l’Australia a tenere fuori i ci­nesi dalla gara per la rete a banda larga, e il nuovo governo australiano ha già fatto sa­pere che confermerà quella decisione. Nel 2010 era stata l’India a scegliere di evitare l’acquisto di apparecchiature dai cinesi, ci­tando sempre motivi di sicurezza. Anche nelle Nazioni con cui ha un rapporto privi­legiato, questo colosso è guardato con qual­che timore: la sede centrale di Huawei solo qualche giorno fa è stata visitata da George Osbone, il cancelliere dello Scacchiere, e dal 2011 il responsabile per la sicurezza del grup­po è John Suffolk, ex capo dell’ufficio infor­matico del governo inglese; eppure a luglio l’esecutivo di Cameron ha detto chiara­mente che i controlli sul ruolo di Huawei nelle telecomunicazioni in Gran Bretagna sono stati «non sufficientemente robusti».

A inizio settembre Enrico Letta ha ricevuto Sun Yafang, la presidente di Huawei. Dopo l’Inghilterra, l’Italia è il secondo mercato eu­ropeo per questa azienda, che qui collabo­ra con tutti i grandi operatori telefonici, ha 700 dipendenti e investirà un miliardo di dollari in cinque anni. I rapporti tra Roma e Shenzen sono «ottimi», assicura Roberto Loiola, l’italiano responsabile di Huawei per tutta l’Europa occidentale. Se le accuse di Tavaroli «non meritano nemmeno un com­mento, perché la sicurezza è una questione seria», quelle degli Stati Uniti e di altri Paesi secondo Loiola si spiegano con «motivi po­litici ». E il rapporto con Telecom? «Lavoria­mo con Telecom come con altri 500 opera­tori di telecomunicazioni in tutto il mondo. I problemi di sicurezza delle reti non posso­no essere visti in un contesto solo naziona­le, va analizzata tutta la catena: ci sono i di­spositivi, come i telefoni, la rete di accesso, quella di trasporto... è molto complesso. Poi c’è un altro aspetto: temono il fatto che sia­mo cinesi, ma i nostri componenti sono rea­lizzati in tutto il mondo. Abbiamo calcolato che ci sono meno componenti cinesi nei no­stri telefoni che nell’iPhone». Certo, se il fondatore e gran­de capo di Huawei, Ren Zhengfei, non avesse inizia­to la sua carriera lavorando come ingegnere per l’Eserci­to Popolare di Liberazione forse l’azienda sarebbe guar­data con più tranquillità in giro per il mondo. Anche l’as­setto di controllo della so­cietà è un po’ misterioso. Cathy Meng, figlia di Ren, ha spiegato che suo padre con­trolla l’1,4% delle azioni, il re­sto è diviso tra le migliaia di dipendenti. Loiola conferma che è così. In rete però gli ap­passionati di storie di spio­naggio cercano da mesi di re­cuperare la copia di
 Cajing Magazine del settembre del 2012: conteneva un’analisi precisa sulla struttura di con­trollo di Huawei ma ufficiali del governo cinese l’hanno ritirata dalle edicole poche ore dopo la pubblicazione. C’è poi il caso di Shane Todd, a cui il Financial Times ha dedicato un’inchiesta lo scorso febbraio: Todd era un giovane ingegnere america­no, lavorava a Singapore su un progetto tra il centro di ricerca governativo Ime e Huawei. Doveva sviluppare un amplificatore basato sul nitrito di gallio, un semiconduttore ca­pace di resistere a temperature estreme u­sato nell’illuminazione, nelle stazioni te­lefoniche ma anche in apparecchiature mi­­litari, ad esempio come disturbatore di se­gnali radar. Todd è stato trovato impiccato nel bagno di casa sua una settimana prima del suo rientro negli Stati Uniti. La famiglia del ragazzo sospetta dall’inizio che l’inge­gnere sia stato ucciso per evitare che rac­contasse alle autorità degli Stati Uniti i det­tagli di quel progetto. La corte di Singapore ha chiuso il caso definendolo un suicidio e l’ambasciata americana ha accettato que­sta conclusione.La sfida globale a colpi di cavi, intercetta­zioni e modelli di telefonini evidentemente sta dando molto da lavorare ai diplomatici.

da Avvenire