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martedì 16 aprile 2013

Le perdite delle navi del petrolio

L'associazione degli armatori di tanker di petrolio calcola che il settore ha perso 26 miliardi di dollari dal 2009 al 2012. Le tariffe sono scese fin sotto i costi operativi: il prezzo di un giorno di trasporto sulla rotta Medioriente-Giappone è di 7.085 dollari (aveva toccato massimi sopra i 300 mila dollari nel 2007) mentre il costo per l'armatore è tra i 10 e i 12 mila dollari.
dal Wsj

giovedì 7 marzo 2013

Lo shale gas mette in crisi la Nigeria

La Nigeria rischia di essere la prima grande vittima dello shale gas americano. Nel 2012 le esportazioni di petrolio nigeriano negli Stati Uniti sono crollate da 1 milione a 405 mila barili al giorno. Bel problema per gli africani, che hanno negli Stati Uniti il loro maggiore acquirente e contano sul petrolio per finanziare il loro sviluppo. Ma la disponibilità di shale gas consente agli Usa di tagliare drasticamente le importazioni. Secondo  gli analisti le difficoltà hanno costretto la Nigeria a vendere qualche cargo di petrolio a prezzi da sconto (40 cent sotto il prezzo ufficiale).
dal Wsj



martedì 11 dicembre 2012

Il prezzo del petrolio a 50 dollari?

Il prezzo del Brent resta attorno ai 110 dollari al barile.Secondo Deutsche Bank l'anno prossimo la quotazione potrebbe crollare fino anche a 50 dollari. Secondo l'Aie la domanda mondiale salirà di 660 mila barili al giorno da qui al 2020, nel decennio terminato nel 2008 l'aumento medio annuo era di 1,3 milioni di barili. La spare capacity dell'Opec nel 2005 era di un milione di barili al giorno, circa l'1% della domanda. Nel 2011 è salita a 3,1 milioni (il 3,5%) e a 5,9 milioni nel 2017 (cioè il 6,4% della domanda globale). Con l'Iraq che potrebbe arrivare a produrre 4,2 milioni di barili al giorno dal 2015 e la sempre maggiore indipendenza energetica degli Usa (grazie allo shale gas) l'offerta di petrolio rischia di farsi di molto superiore alla domanda, provocando una caduta del prezzo.

giovedì 22 novembre 2012

I problemi del petrolio iracheno


La produzione di petrolio dell’Iraq, ha scritto l’Aie – l’Agenzia internazionale dell’energia – nel suo recente “Special Report” dedicato a Baghdad, raddoppierà in 8 anni: passerà dai 3,2 milioni di barili quotidiani di oggi a oltre 6 milioni di barili nel 2020. L’Aie – che cura gli interessi energetici dei Paesi dell’Ocse – non lo scrive, ma il governo iracheno due anni fa prevedeva per il 2020 una produzione di 12 milioni di barili al giorno. Non sorprende che i vecchi obiettivi siano stati così rapidamente abbandonati: con il passare degli anni l’Iraq sta regalando molte delusioni alle compagnie petrolifere.
Chi ha vinto la corsa all’oro nero iracheno iniziata subito dopo la fine della guerra sta valutando che fare con gli enormi giacimenti di quella terra, sotto la quale, secondo le stime più ottimistiche, riposano 200  miliardi di barili di greggio. I problemi emersi in questo decennio sono tanti. Le infrastrutture per trasportare e accumulare il greggio, che hanno avuto pochissimi investimenti negli anni di Saddam, sono in pessimo stato e migliorano troppo lentamente. Le leggi che regolano il settore petrolifero, basate sulla Costituzione del 2005, sono vaghe e si prestano a troppe interpretazioni diverse. La burocrazia è asfissiante e la corruzione impera: l’Iraq è al 175° posto tra le 182 nazioni nella classifica della corruzione preparata da Transparency International e secondo l’ultimo rapporto dell’ispettore generale speciale degli Stati Uniti per la ricostruzione ogni giorno 800 milioni di dollari lasciano l’Iraq illegalmente per essere nascosti all’estero.
«L’Iraq è un mondo meraviglioso per chi si occupa di idrocarburi, ma faccio un po’ fatica a dire che va tutto bene» ha ammesso Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, alla presentazione del rapporto dell’Aie. L’Eni in Iraq si è aggiudicata nel 2008 il giacimento di Zubair, il terzo più interessante del Paese dopo Rumaila, finito agli inglesi di British Petroleum, e West Qurna I, aggiudicato agli americani di ExxonMobil. Il manager veneto ha fatto capire che difficilmente l’azienda italiana parteciperà alle prossime aste organizzate dal governo di Baghdad: «Ci stiamo proprio ponendo la questione se insistere in un Paese che si è rivelato più complesso di quello che immaginavamo. Avessimo avuto  più soddisfazione dal duro lavoro nel Paese non ci porremmo il problema».
Exxon il problema se lo è già posto e lo ha anche risolto, decidendo di andarsene. La compagnia americana ha messo in vendita i suoi diritti su West Qurna – un progetto da 50 miliardi di euro – per potere investire senza problemi nella regione autonoma del Kurdistan, nel Nord del Paese. È stato il governo iracheno a spingerla ad andarsene: Baghdad infatti ha dato l’aut aut, chi fa contratti con il governo della regione autonoma (accordi illegali, secondo Baghdad) non potrà lavorare anche in Iraq. La questione, ovvio, verte sui soldi. Il governo autonomo del Kurdistan vuole che le royalties del petrolio trovato sui suoi giacimenti vadano alla sua gente, Baghdad invece ha scritto nella Costituzione che il denaro del petrolio va diviso tra tutta la popolazione irachena. Con 23 trivellazioni in corso e 50 contratti già firmati tra le compagnie e il governo autonomo l’area del Kurdistan è una delle più promettenti del mondo: l’obiettivo è portare la produzione a 1 milione di barili nel 2014 e a 2 nel 2019. A settembre i due governi avevano trovato un accordo: il Kurdistan avrebbe prodotto 200 mila barili al giorno da ottobre in cambio di mille miliardi di dinari (circa 670 milioni di euro). Poche settimane dopo il pagamento dei primi 650 miliardi, però, Baghdad ha accusato i curdi di non essere in grado di mantenere la produzione al livello concordato, ha annullato l’intesa e ha dato il suo aut aut.
Exxon, che pure aveva in Iraq un giacimento colossale, ha scelto i curdi; poco dopo l’ha seguita anche Chevron. Total potrebbe farlo presto. Il fatto è che il governo del Kurdistan offre contratti molto più redditizi di quello di Baghdad. Eni non ha intenzione di muoversi, almeno per ora. La fuga degli occidentali in Kurdistan lascia spazio a compagnie asiatiche in cerca di fortuna in Iraq: in corsa per il giacimento che Exxon lascerà ci sono la russa Lukoil, che già ha West Qurna II, e la cinese Cnooc, che in Iraq ha un giacimento di media grandezza. E l’ultima asta per le esplorazioni organizzata da Baghdad si è conclusa con la vittoria delle russe Lukoil e Bashfnet, della Pakistan Petroleum e della Kuwait Energy. Compagnie di seconda fascia, con tecnologie non all’altezza di quelle dei rivali americani ed europei, e quindi meno capaci di sfruttare i giacimenti iracheni. A forza di burocrazia, liti internee corruzione, l’Iraq rischia così di perdere clamorosamente la scommessa più importante e più facile, quella sull’oro nero, da cui arrivano il 95% delle entrate del Paese.
da Avvenire di oggi

giovedì 8 novembre 2012

Il petrolio iracheno delude. Piace il Kurdistan

Il petrolio iracheno si sta rivelando una delusione per le compagnie occidentali. Non tanto per i risultati delle esplorazioni (che sono ottimi, con la produzione che secondo la Iea potrebbe raddoppiare in 8 anni) quanto per le complicazioni burocratiche. "Se avessimo avuto piu' soddisfazione dal nostro duro lavoro, non ci porremmo nemmeno il tema, perché offrirci per West Qurna o per Nassiriya sarebbe stato una scelta ovvia, ma ci stiamo domandando se aumentare il nostro impegno in un Paese si è rivelato più complesso di quello che immaginavamo" ha detto qualche giorno fa l'Ad dell'Eni Paolo Scaroni. Ed è notizia di ieri che la Exxon è in cerca di qualcuno a cui vendere la sua fetta del progetto West Qurna-1 (un giacimento da 400 mila barili al giorno) lamentandosi di condizioni contrattuali poco favorevoli e infrastrutture pessime. Exxon preferisce lavorare in Kurdistan (e Baghdad, che non riconosce quel Paese, non permette di lavorare sui suoi giacimenti a chi collabora con il Kurdistan). I curdi (che oggi producono 100 mila barili al giorno ma possono crescere a 175 mila già quest'anno) rischiano di portare via agli iracheni parecchi compagnie. Si mormora di Chevron e della stessa Eni. Anche i turchi di Tpao sono stati allontanati dall'Iraq perché la Turchia sta stringendo legami troppo stretti con i curdi.

mercoledì 7 novembre 2012

Il petrolio rischia un brusco calo dei prezzi

Secondo la Us Energy Information Administration la produzione di petrolio degli Stati Uniti raggiungerà gli 11,7 milioni di barili al giorno entro la fine del 2013. Sarebbe l'8,5% in più rispetto ad ora, così gli Usa avrebbero una capacità petrolifera quotidiana vicina a quella dell'Arabia Saudita (che è in grado di produrre 12 milioni di barili al giorno ma oggi ne produce solo 10). Il solo North Dakota produce 700 mila barili al giorno, cioè più dei 500 mila dell'Ecuador e poco meno dei 750 mila barili del Qatar. Come risultato la quota di importazioni sul totale del consumo petrolifero americano l'anno prossimo scenderà sotto il 40% per la prima volta dal 1991. Sono problemi per il cartello dell'Opec, che produce 31 milioni di barili al giorno e vedrà ridursi significativamente la domanda di greggio degli Stati Uniti. L'Opec soffre anche perché la Russia - che non ha intenzione di entrare nel cartello - sta producendo 10,5 milioni di barili al giorno, il 2% in più rispetto a un anno fa e il massimo dagli anni '80.
Leonardo Maugeri, ex manager del'Eni esperto di petrolio, il prezzo del greggio va verso un brusco calo: "In assenza di crisi vere - ad esempio una guerra nel gofo persico o una improvvisa e simultanea interruzione della produzione in diversi paesi produttori -le forze che muovono il mercato petrolifero puntano a un significativo calo dei prezzi".

domenica 7 ottobre 2012

Apertura russa sul petrolio dell'Artico

La Russia sta pensando di concedere alle società occidentali le licenze per cercare petrolio nelle acque del'Artico. L'idea, presentata al Ft dal ministro dell'Energia Alexander Novak, è quella di permettere alle compagnie di avere accesso alla produzione e almeno partecipare alle licenze, che oggi sono esclusiva dei gruppi parastatali Rosfnet e Gazprom.

martedì 17 luglio 2012

Arabia ed Emirati aggirano lo stretto di Hormuz

Gli Emirati Arabi e l'Arabia Saudita hanno aperto due oleodotti che aggirano lo stretto di Hormuz e rendono l'approvvigionamento di petrolio in Europa più indipendente dall'Iran. La capacità complessiva dei due oleodotti sarà di 3,5 milioni di barili al giorno, e porterà la capacità di aggiramento dello stretto a 6,5 milioni di barili quotidiani, circa il 40% dei 17 milioni di barili che passano dallo stretto. Da ieri è attivo l'oleodotto da 1,5 milioni di barili al giorno che collega il porto di Fujairah, negli Emirati, con Abu Dhabi, aggirando da sotto lo Stretto di Hormuz. L'Arabia Saudia ha invece convertito da gasdotto a oleodotto una condotta da 1.200 chilometri con una capacità di 2 milioni di barili al giorno. 

mercoledì 9 maggio 2012

Le strane scorte di petrolio saudita

I sauditi stanno facendo scorta di petrolio. Ne hanno messi da parte 35 milioni di barili tra dicembre e febbraio. Adesso sono arrivati a 80 milioni di barili. Strano, visto che quando i prezzi sono così alti non ha senso fare scorte. Scrive Raineri: "Riad e Washington tengono in considerazione la possibilità a breve termine di uno strike israeliano contro il programma atomico di Teheran e le sue conseguenze: la chiusura dello Stretto di Hormuz, il collo di bottiglia marittimo attraverso cui passa un terzo del petrolio mondiale, da parte degli iraniani; gli attacchi di rappresaglia contro Israele; l’intero quadrante mediorientale destabilizzato. Sanno che in caso di attacco la produzione di petrolio subirà un rallentamento generale e non vogliono che – come minaccia Teheran – il prezzo schizzi oltre quota 200 dollari e provochi un infarto all’economia mondiale". 

martedì 8 maggio 2012

L'Iran vende petrolio in yuan

L'Iran ha iniziato ad accettare pagamenti in yuan sul petrolio che vende alla Cina. In parte è uno degli effetti delle sanzioni subite dal Paese per il suo programma nucleare. Teheran usa gli yuan per comprare prodotti e servizi dalla stessa Cina. Secondo le stime l'Iran vende alla Cina petrolio per circa 30 miliardi di dollari all'anno. 

mercoledì 25 aprile 2012

L'Eiti chiede più trasparenza nel mercato del petrolio

La Extractive Industries Transparency Initiative (Eiti), organizzazione nata 10 anni fa da un gruppo di imprese e di enti pubblici con l'obiettivo di migliorare la trasparenza del mercato delle risorse naturali, vuole imporre maggiore trasparenza nei rapporti tra le compagnie petrolifere e i trader. Complicherebbe molto la vita ai colossi del trading sulle risorse, come Vitol, Glencore, Trafigura, Mercuria e Gunvor. Lo dice il Ft.

martedì 17 aprile 2012

I soldi che tornano dall'Opec

Secondo un'analisi dell'Agenzia internazionale dell'energia per ogni dollaro che gli Stati Uniti hanno speso per importare petrolio dai Paesi dell'Opec, nel 2011 sono tornati indietro (attraverso l'acquisto di prodotti made in Usa da parte dei cittadini dei Paesi Opec) 34 centesimi. Il dato è molto inferiore rispetto alla media 1970-2000, che vedeva tornare in Usa 55 centesimi per ogni dollaro dato all'Opec. Ancora peggio il Giappone: tornano 14 centesimi per ogni dollaro, contro una media storica di 43. Va invece benissimo l'Europa, alla quale tornano 80 centesimi per dollaro (come nella sua media storica), e va bene la Cina, con un ritorno di 64 centesimi (in passato non le tornava nulla).

venerdì 13 aprile 2012

Il petrolio c'è, anche senza Iran

Secondo l'Agenzia internazionale dell'energia, "il ciclo di fondamentali che,dal 2009, si inaspriscono, per ora si è interrotto" e quindi sul mercato del petrolio dovremmo vedere prezzi stabili o al ribasso. Secondo alcuni analisti - in particolare - in estate potremmo vedere prezzi dei carburanti più bassi.Gli stoccaggi globali durante il primo trimestre sono aumentati di 1,2 milioni di barili al giorno, segno che il mercato petrolifero potrebbe rimanere bilanciato anche se l'Iran dovesse togliere dal mercato 1 milione di barili al giorno. Secondo le stime della Iea l'Iran nel primo trimestre ha tagliato le esportazioni del 9,7% (350 mila barili in meno nel confronto con un anno fa)

La Cina fa scorta di petrolio

Le importazioni di petrolio cinese hanno raggiunto i 5,57 milioni di barili al giorno a marzo, in aumento dell'8,7% rispetto a un anno fa. Nel primo timestre l'aumento è dell'11% (nel 2011 fu del 6%). Secondo gli analisti Pechino sta aumentando le sue riserve, e questo nonostante i prezzi siano molto alti. Le riserve attuali permettono alla Cina di alimentarsi per 40 giorni, l'obiettivo e arrivare a 90 giorni (quasi come gli Stati Uniti).


dal Wsj

sabato 7 aprile 2012

Il petrolio che serve a Ryiadh

In Arabia Saudia la domanda di energia sale del 10% all'anno. Così Riyadh è costretta di usare 3 milioni di barili di petrolio al giorno (il 25% della produzione) per i consumi interni. Calcola la Iea che l'Arbia consuma più petrolio della Germania, che ha il triplo di abitanti e un'economia cinque volte più grande. Il problema è che se l'Arabia ha bisogno del suo petrolio l'Occidente vede ridursi la "spare-capacity" araba, con cui Ryadh può venirgli incontro nei momenti di tensioni sul prezzo. Uno studio di Jadwa Investment dice che più o meno attorno il 2020 la spare capacity sarà azzerata e per il 2043 il Paese sarà costretto a tenersi tutto il petrolio che produce.

Wsj

giovedì 29 marzo 2012

I sauditi: "Prezzi del petrolio insensati"

Ali al Naimi, ministro del petrolio saudita, stavolta ha scritto direttamente al Financial Times per ribadire che "non c'è un motivo razionali per cui i prezzi del petrolio debbano rimanere ai livelli attuali" e chiarire che "l'Arabia Saudita vorrebbe vedere un prezzo più basso. Un prezzo giusto e ragionevole che non danneggi la ripresa mondiale, specialmente nelle economie emergenti e in via di sviluppo, e che generi un buon ritorno per le nazioni produttrici, e che attragga investimenti sull'industria petrolifera"


http://www.ft.com/intl/cms/s/0/9e1ccb48-781c-11e1-b237-00144feab49a.html#axzz1qLSeiWul

mercoledì 28 marzo 2012

Gli effetti dell'aumento del prezzo del petrolio

Goldman Sachs calcola che un aumento del prezzo del petrolio del 10% tende a spingere al ribasso la crescita del Pil degli Stati Uniti dello 0,2% dopo un anno e dello 0,4% dopo due. In Europa la riduzione è dello 0,2% per il primo anno. 

lunedì 26 marzo 2012

Cosa spinge i prezzi della benzina e chi ci guadagna

da Avvenire del 25 marzo 2012


1.Perché la benzina a­desso costa quasi 2 euro al litro?

Gli attuali prezzi dei carburanti (1,87 cente­simi al litro in media la benzina, 1,78 il ga­solio, se si considerano i listini al 'servito') sono il risultato di due fattori. Quello do­minante è il fattore fiscale. Lo scorso anno il governo Berlusconi ha alzato per quattro volte le accise su benzina e gasolio, portan­dole rispettivamente da 56,4 e 42,3 a 62,2 e 48,1 centesimi al litro. Il governo Monti ha aggiunto un quinto e più sostanzioso aumento, che ha portato l’accisa sul­la
 benzina a 70,4 centesimi al litro e quella sul gasolio a 59,3 centesimi al li­tro. A settembre, i­noltre, l’Iva (che si calcola sia sul prez­zo industriale della benzina che sull’accisa) è stata portata dal 20 al 21%, producendo così un rialzo linea­re dell’1%. E a gennaio 5 giunte regionali hanno fatto scattare le addizionali locali, o­ra applicate in 10 Regioni su 20. In breve: durante il 2011 le tasse nazionali sul carbu­rante sono salite di 16 centesimi al litro per la benzina e di 20 per il gasolio. L’altro fat­tore dietro gli aumenti è il costo della ma­teria prima, che si è impennato ne­gli ultimi mesi. Il Platts cif Med, l’in­dice delle quotazioni dei carburan­ti sui mercati europei, tra novembre scorso e oggi è salito per la benzina da 52 centesimi a 67 centesimi al li­tro, per il gasolio da 62 a 69 centesi­mi.

1.34


2.
Come mai questo Platts au­menta
 tanto?

La quotazione Platts – elaborata dal­l’omonima agenzia internazionale sulla base degli scambi quotidiani di prodotti petroliferi tra le varie a­ziende della filiera del petrolio – e­sprime il prezzo 'all’ingrosso' della benzina e del gasolio. Su questi va­lori incidono sia la normale dinami­ca della domanda e dell’offerta (di prodotti già raffinati) che la quota­zione
 del prodotto da raffinare, cioè il pe­trolio. La quotazione del petrolio 'europeo', il Brent, tra dicembre e oggi è salito da 104 a 125 dollari al barile (in euro il passaggio è da 75 a 94 euro al barile). La quotazione è e­levatissima, tanto che ieri l’Agenzia inter­nazionale dell’energia ha lanciato l’allarme: a questi prezzi si rischia la recessione. Le tensioni iraniane pesano ma non spiegano questa impennata. Non si capisce cosa ci sia dietro. Lo stesso ministro del Petrolio saudita, Alì al Naimi, ha detto che non ca­pisce cosa stia spin­gendo il prezzo. L’U­nione petrolifera ha detto qualche setti­mana fa che le ban­che stanno facendo salire i prezzi perché investono anche sui

futures
 petroliferi i 1.000 miliardi di eu­ro avuti in prestito agevolato dalla Bce. I tempi dei rialzi, in effetti, coincidono.

3.
Chi sta guadagnando da questi rincari?


Sicuramente ci guadagnano i Paesi espor­tatori che, secondo i calcoli dell’Aie, que­st’anno guadagneranno dal petrolio la cifra più alta di sempre: 1.200 miliardi di dollari. Anche le compagnie petrolifere, che estrag­gono
 e raffinano il greggio più o meno con gli stessi costi di prima, vedono sali­re i loro margini. Fe­steggiano anche al­l’Erario: nei primi due mesi del 2012, secondo i calcoli del centro studi Promo­tor, il Tesoro ha già incassato 5,5 miliar­di dai carburanti, con un aumento del 19,8% rispetto a un an­no fa. E questo nonostante i consumi nel frattempo siano diminuiti del 9,6%. Chi ci perde, infatti, sono evidentemente gli ita­liani, che per fare meno rifornimento han­no comunque già speso in due mesi 10,1 miliardi quest’anno, l’11% in più nel con­fronto con il 2011. Senza contare che i rincari dei trasporti provocano un aumento generalizzato dei prezzi de­gli altri beni che si devono spostare per il Paese. E ci perde anche il ben­zinaio, che ha un margine fisso al li­tro (tra i 4 e i 5 centesimi) ma sta ven­dendo meno carburante di prima.

4.
Anche nel resto d’Europa i prezzi salgono tanto?


Quasi, nel senso che tra lo scorso no­vembre e oggi in Europa il prezzo me­dio della benzina è salito del 9% e quello del gasolio dell’11%, mentre in Italia gli aumenti sono stati del 14% in entrambi i casi. Questo, però, se si considerano le tasse. Al netto delle imposte, il rialzo europeo è del 18% per la verde e del 9% per il diesel, quello italiano è del 15% sulla benzi­na e dell’8% per il gasolio. Senza le nuove tasse, che ci hanno 'regalato' la benzina più cara d’Europa e il se­condo gasolio più costoso, saremmo vicini alla media Ue. Difatti il cosid­detto 'stacco', cioè la differenza, tas­se escluse, tra il prezzo al litro del car­burante italiano e la media europea (calcolato dall’Unione petrolifera) si è ridotto dai 3,6 centesimi medi del 2011 agli attuali 2,5 centesimi. La ten­denza al rialzo è comunque globale. Gli Usa, ad e­sempio,
 sono in al­larme perché in al­cuni Stati la benzi­na ha superato la soglia di 4 dollari al gallone (che ai cam­bi attuali sono 81 centesimi al litro).

5.
Cosa si può fare per fermare gli aumenti?


Sul lato fiscale, se non si vogliono tagliare le tasse, si potrebbe almeno ritentare la strada della sterilizzazione dell’Iva: un meccanismo che riduce l’accisa (e quindi l’imposta) per un certo periodo quando il prezzo della materia prima supera una cer­ta quota. Sperimentata nel 2000 e nel 2008,
 la sterilizzazione ha permesso risparmi modesti, nell’ordine dei 2 centesimi al li­tro. Sul lato industriale si può agire solo su quei 15-16 centesimi al litro che sono il margine lordo di gestori e compagnie. U­na loro riduzione di un terzo vale al mas­simo 5 centesimi. Le liberalizzazioni ap­pena approvate permettono ai benzinai di vendere altri prodotti e di restare sempre aperti, così i gestori hanno una base di gua­dagno più larga e sono meno 'benzina-di­pendenti'. Questo permette loro un con­tenimento del prezzo. Ma tra sconti, fai da te e 'pompe bianche' è inutile sperare in risparmi che vadano oltre i 10-15 centesi­mi al litro.

Pietro Saccò
  

venerdì 23 marzo 2012

La benzina impazzita e l'Eni

Dal 7 dicembre dell’anno scor­so che gli italiani pagano la benzina più cara d’Europa e il secondo gasolio più costoso, dopo quello inglese. Quel giorno il governo fece scattare in anticipo il quinto au­mento delle accise sui carburanti del 2011: un rialzo di 8,2 centesimi per la benzina e di 11,2 centesimi per il ga­solio. Tra accise e Iva il carico fiscale sui carburanti l’anno scorso è salito di 20 centesimi per il gasolio e 16 per la benzina. Quel 7 dicembre la verde volò a 1,68 centesimi al litro, il gaso­lio a 1,67. Ma gli italiani non avevano ancora vi­sto tutto. Nelle settimane seguenti il prezzo del petrolio si è impennato: la quotazione dei contratti futures del Brent (il greggio 'europeo') è passa­ta da 105 a oltre 120 dollari al barile. Colpa delle tensioni sull’Iran e colpa delle banche, che non sapendo dove piazzare i mille miliardi di euro rice­vuti in prestito a prezzi stracciati dal­la Banca centrale europea hanno pensato di investirne un po’ sul pe­trolio. Anche Ali al Naimi, anziano mi­nistro del Petrolio saudita, è rimasto interdetto: «Non riusciamo a capire perché i prezzi del petrolio si com­portino in questo modo – ha spiega­to da Doha lo scorso martedì – gli at­tuali valori non sono giustificati dal rapporto tra domanda e offerta». Il rialzo della materia prima, la cui qu­o­Ètazione in euro è sui massimi storici, si è ovviamente scaricato anche sui carburanti. Il risultato, certificato dal­le ultime rilevazioni europee, è che oggi gli italiani pagano la benzina in media 1,82 euro al litro, 15 centesimi in più della media europea, e il gaso­lio 1,73 euro al litro, 20 centesimi so­pra la media dell’Ue. È una brutta si­tuazione. I dati del Centro studi Pro­motor dicono che gli automobilisti hanno reagito tagliando i consumi (-9,6% nei primi due mesi nel confron­to con un anno fa) ma comunque hanno finito per spendere 10,1 mi­liardi, cioè l’11% in più. Di questi, 5,5 (+19,8%) se li è intascati il Tesoro.

Senza un intervento fiscale il prezzo del carburante difficilmente scen­derà. Se si escludono le tasse, il costo della benzi­na italiana è di soli 2 cen­tesimi superiore alla me­dia Ue, quello del gasolio di 4 centesimi. Anche an­nullando i due 'stacchi' i listini resterebbero a li­velli molto elevati. Il de­creto liberalizzazioni, ap­provato in via definitiva dalla Camera ieri, con­sente però qualche piccolo spazio di risparmio. «Considerate che il margi­ne totale della compagnia petrolife­ra e del gestore è di circa 15 centesi­mi al litro. Noi possiamo agire solo su quello» spiegava ieri Paolo Grossi, vi­ce presidente esecutivo per il 'retail' della divisione Refining & Marketing di Eni. Grossi ha presentato la strate­gia con cui il gruppo petrolifero con­trollato dal Tesoro intende migliora­re la sua offerta sfruttando al massi­mo le opportunità concesse dalle li­beralizzazioni. Le 4.500 stazioni di servizio Eni, ribattezzate 'eni station', saranno gradualmente trasformate. Intanto sarà potenziato il self service, con l’offerta iperself (che offre scon­ti tra i 5 e i 10 centesimi al litro ed og­gi
 è scelta da un cliente su tre) non più limitata agli orari di chiusura ma proposta 24 ore su 24 per sette giorni la settimana. In molte stazioni arri­veranno macchinette automatiche per vendere prodotti di largo consu­mo, come latte fresco, rasoi o aurico­lari per gli stereo (presto arriveranno anche i tabacchi). I 550 bar delle sta­zioni, gli 'eni cafè', resteranno aper­ti più a lungo e offriranno connessio­ne WiFi ai clienti. L’obiettivo è au­mentare le entrate dal cosiddetto 'non oil', unica strada 'industriale' per ammorbidire il rincaro figlio di tasse e mercato. 


da Avvenire del 23 marzo 2012