Fra qualche anno la lettera con cui Maurice M. Taylor Jr., presidente e amministratore delegato di Titan, spiega a Arnaud Montebourg, ministro dello Sviluppo economico del governo Hollande, che non ha nessun interesse a comprare la fabbrica di pneumatici di Amiens potrà essere una pietra miliare emblematica delle ragioni della crisi industriale ed economica della Francia e dell'Europa.
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giovedì 21 febbraio 2013
sabato 16 febbraio 2013
Declassata Standard and Poor's
Standard & Poor’s doveva aspettarselo, perché nel mondo spietato dei 'rating' non esistono amici e nemmeno sorelle. E allora sarai anche la regina dei votacci, quella che si è potuta togliere lo sfizio di levare la tripla A agli Stati Uniti e di tenere in ansia i governi di mezzo mondo, ma puoi essere declassata anche tu. Succede.
Moody’s ha annunciato di avere tagliato di due gradini il suo giudizio su McGraw-Hill – la società che controlla la rivale Standard & Poor’s – da A3 a Baa2 e ha aggiunto che continuerà a tenere sotto controllo l’azienda, perché potrebbe annunciare presto un’altra sforbiciata. Una settimana fa su S&P era caduta la mannaia di Fitch, l’altra sorella del rating: taglio del voto da A- a BBB+. Siamo a livelli bassi, un paio di gradini sopra il terribile declassamento a junk, che significa spazzatura. Può l’azienda che controlla Standard & Poor’s rischiare un rating spazzatura? Sì, se gli Stati Uniti d’America le hanno fatto causa e chiedono 5 miliardi di dollari. Sia Fitch e Moody’s hanno infatti giustificato i tagli con la causa che il dipartimento della Giustizia di Washington ha intentato contro S&P lo scorso 4 febbraio. Dovesse perdere, McGraw-Hill difficilmente sarebbe in grado di tirare fuori quei 5 miliardi: il gruppo fattura ogni anno più o meno 4,8 miliardi di dollari, fa utili per 1,3 miliardi e ha 761 milioni di liquidità. Le serviranno avvocati convincenti, perché una sentenza negativa potrebbe mandarla in bancarotta. È una pessima situazione, il declassamento della regina del 'rating' è inevitabile e le due agenzie rivali, inflessibili, ne hanno preso atto. Ma la sorte potrebbe essere ancora più ironica. I giudici di mezza America infatti stanno studiando a fondo le carte per capire se S&P era davvero l’unica a dare giudizi che, come sostiene l’accusa, erano volutamente menzogneri. Anche Fitch e Moody’s prima dell’esplosione della crisi assegnavano rating a tripla A a derivati strutturati che poi si sono rivelati immondizia o ad aziende clamorosamente fallite in una notte.Se Washington dovesse chiedere conto anche a loro di quei voti sballati, allora tra le tre sorelle del rating sarà tutto un forsennato declassarsi a vicenda.
Moody’s ha annunciato di avere tagliato di due gradini il suo giudizio su McGraw-Hill – la società che controlla la rivale Standard & Poor’s – da A3 a Baa2 e ha aggiunto che continuerà a tenere sotto controllo l’azienda, perché potrebbe annunciare presto un’altra sforbiciata. Una settimana fa su S&P era caduta la mannaia di Fitch, l’altra sorella del rating: taglio del voto da A- a BBB+. Siamo a livelli bassi, un paio di gradini sopra il terribile declassamento a junk, che significa spazzatura. Può l’azienda che controlla Standard & Poor’s rischiare un rating spazzatura? Sì, se gli Stati Uniti d’America le hanno fatto causa e chiedono 5 miliardi di dollari. Sia Fitch e Moody’s hanno infatti giustificato i tagli con la causa che il dipartimento della Giustizia di Washington ha intentato contro S&P lo scorso 4 febbraio. Dovesse perdere, McGraw-Hill difficilmente sarebbe in grado di tirare fuori quei 5 miliardi: il gruppo fattura ogni anno più o meno 4,8 miliardi di dollari, fa utili per 1,3 miliardi e ha 761 milioni di liquidità. Le serviranno avvocati convincenti, perché una sentenza negativa potrebbe mandarla in bancarotta. È una pessima situazione, il declassamento della regina del 'rating' è inevitabile e le due agenzie rivali, inflessibili, ne hanno preso atto. Ma la sorte potrebbe essere ancora più ironica. I giudici di mezza America infatti stanno studiando a fondo le carte per capire se S&P era davvero l’unica a dare giudizi che, come sostiene l’accusa, erano volutamente menzogneri. Anche Fitch e Moody’s prima dell’esplosione della crisi assegnavano rating a tripla A a derivati strutturati che poi si sono rivelati immondizia o ad aziende clamorosamente fallite in una notte.Se Washington dovesse chiedere conto anche a loro di quei voti sballati, allora tra le tre sorelle del rating sarà tutto un forsennato declassarsi a vicenda.
da Avvenire di oggi
mercoledì 13 febbraio 2013
Il Giappone chiede alle aziende di alzare gli stipendi
Nella sua lotta alla deflazione il primo ministro Shinzo Abe ha tentato una nuova arma: scrive il Wsj che il premier ha invitato le maggiori aziende ad alzare gli stipendi, così da rompere il ciclo di pessimismo e calo delle aspettative che ha peggiorato la crisi. Gli stipendi dei giapponesi sono diminuiti in 8 degli ultimi 10 anni.
lunedì 11 febbraio 2013
La Dodge Dart (made in Fiat) vende poco
La Dodge Dart, basata sulla Giulietta e prima Chryser derivata da una piattaforma Fiat, non vende bene. Secondo Autodata nel 2012 ne sono state vendute 25.303. Le previsioni indicavano 100 mila immatricolazioni. Chrysler resta conosciuta tra i clienti per le Jeep, i pick up e le auto grosse, convincere i clienti a scegliere le sue auto piccole è più difficile di quanto di pensasse. La Dart costa dai 16 mila dollari in su. Le sue concorrenti sono la Honda Civic (che vende 5 volte tanto) e la Chevrolet Cruze (vende il quadruplo).
da Bloomberg
La Robin Tax: rubare ai ricchi per dare a Robin
Con la Robin Hood tax introdotta nel giugno del 2008 lo Stato italiano prometteva di agire come il celebre eroe di Nottingham: sarebbe andato a "rubare" i soldi dei ricchi petrolieri per darli ai poveri italiani. A quanto pare però i ricchi petrolieri si stanno facendo restituire dai poveri italiani i soldi che gli mancano, nessuno ha il potere per farci niente e in questa favola venuta male l'unico che ci guadagna è Robin Hood. Questo sgradevole racconto è contenuto nelle 28 pagine di relazione che l'Autorità per l'energia elettrica e il gas ha consegnato al Parlamento il 24 gennaio. L'Autorità ha il compito di verificare ogni anno che le aziende dell'energia non scarichino sui clienti il costo della tassa, che dal 2011 è una maggiorazione di 10,5 punti dell'aliquota Ires (prima l'addizionale era di 6,5 punti). Si parla di molti soldi: l'aliquota Ires per le aziende dell'energia con un fatturato superiore ai 10 milioni di euro con questa tassa sale dal 27,5 al 38%, nel 2011 il gettito dell'addizionale per il Tesoro è stato di 1,46 miliardi di euro. Secondo le verifiche dell'Autorità 199 imprese dell'energia, sulle 476 controllate, nel 2010 hanno alzato i loro margini. Da qui il sospetto dell'organismo incaricato di vigilare: «È ragionevole supporre si legge nella relazione che, a seguito dell'introduzione dell'addizionale Ires, gli operatori recuperino la redditività sottratta dal maggior onere fiscale, aumentando il differenziale tra i prezzi di acquisto e i prezzi di vendita». La "traslazione" dei costi della Robin Hood tax sui clienti espressamente vietata dalla legge quindi sembra regolarmente messa in pratica. Le stime dell'Autorità arrivano a calcolare in circa 1,6 miliardi di euro i margini aggiuntivi accumulati nel 2010 dalle imprese dell'energia (0,9 miliardi quelle dell'elettricità, 0,7 quelle del petrolio) proprio per "compensare" il pagamento della Robin Tax. Assoelettrica si difende. «Le imprese elettriche non hanno scaricato la Robin tax sui consumatori ha detto il presidente Chicco Testa . Prima di gridare al ladro sarebbe opportuno verificare che sia stato davvero commesso il furto».Se un ladro c'è, comunque, nessuno può farci niente. Le aziende fin dall'inizio hanno fatto ricorso contro la legge, rivolgendosi prima al Tar e poi al Consiglio di Stato. E proprio il Consiglio di Stato ha stabilito che l'Autorità ha tutto il diritto di ottenere dalle aziende i documenti che le servono per condurre il suo lavoro di vigilanza, però la legge le dà solo un potere di «segnalazione». L'organismo presieduto da Guido Bortoni deve quindi limitarsi a segnalare al Parlamento i risultati delle sue indagini sui comportamenti delle aziende che pagano la Robin Hood Tax, ma non può multare le imprese che si comportano in maniera scorretta. E dalla sentenza del Consiglio di Stato emerge anche che se l'Autorità potesse sanzionare le imprese allora la tassa potrebbe rivelarsi incompatibile con la Costituzione. Le associazioni dei consumatori sono comprensibilmente infuriate e promettono esposti all'Antitrust, ma analisi di giuristi diversi confermano che non sembra esserci una via d'uscita da questo stallo legale capace di favorire solo le entrate dirette del Tesoro, che nel frattempo ci rimette pure qualcosa sull'incasso dei dividendi di Enel ed Eni, sue controllate e prime due "vittime" della Robin Tax.
da Avvenire
sabato 9 febbraio 2013
:In Svizzera la bolla immobiliare è più vicina
Del rischio di una bolla immobiliare svizzera avevamo scritto qualche mese fa. Oggi quel rischio è più concreto. Ne scrive il Sole 24 Ore, citando un modello matematico del Politecnico di Zurigo. "Se non un imminente scoppio della bolla immobiliare, sarà almeno una frenata a dominare l’anno in corso del real estate residenziale, che vive oggi un clima da attesa della tempesta perfetta. È innegabile infatti che la corsa delle quotazioni delle case in Svizzera nell’arco dell’ultimo decennio metta oggi in discussione la tenuta del settore".
venerdì 8 febbraio 2013
Bruxelles chiede all'Agcom di tagliare di più i costi della rete fissa
La Commissione europea giovedì ha bocciato la proposta dell'Agcom italiana sul "pedaggio" della rete fissa che Telecom - proprietaria dell'infrastruttura - fa pagare alle altre compagnie. Qualche giorno fa Ibarra, numero uno di Wind, aveva spiegato che aveva intenzione di chiudere Infostrada perché, con questi costi, fare concorrenza a Telecom sul fisso non è possibile. Bruxelles conferma che le tariffe previste dall'Agom - 0,272 centesimi di euro/minuto nel 2012 a 0,043 centesimi di euro/minuto nel 2015 - pur essendo più basse di quelle attuali sarebbero «nettamente più alte rispetto a quelle di qualsiasi altro Paese Ue». Liberalizzato male, il mercato delle telecomunicazioni in Italia è uno di quei settori in cui aziende para-monopoliste possono drenare denaro dei consumatori più o meno indisturbate.
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