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giovedì 29 novembre 2012

Google, l'Irlanda, le tasse


La finanza ha avviato questo lunedì una verifica fiscale «extraprogramma» su Google Italy Srl. Vuole capire se la società paga le tasse dovute all’Italia. I manager dell’azienda dovevano aspettarselo. Esattamente una settimana prima Corrado Passera li aveva avvertiti. «C’è tanta gente che fa milioni di utili e fa lezione ogni giorno a tutti e poi viene fuori che non paga le tasse. Ma che diamine!» aveva detto il 19 novembre il ministro dello Sviluppo economico durante una tavola rotonda sulle <+corsivo>start up<+tondo> organizzata a Milano dalla Vodafone. «Bisognerebbe andare a prendere anche i tanti piccoli che evadono – aveva continuato il ministro –, ma ciascuna di queste aziende fa milioni di piccoli, quindi prima andiamo addosso a questi». Detto fatto.
L’indagine della finanza italiana è l’ultima puntata di una campagna giornalistica iniziata ormai due anni fa sulle pagine del quotidiano irlandese <+corsivo>Irish Times<+tondo> e arrivata da qualche settimana in Italia. Il meccanismo è complesso: Google è una società californiana che ha dato in licenza la sua attività pubblicitaria (dalla quale arrivano quasi tutte le sue entrate) alla controllata Google Ireland Holdings, società basata in Irlanda per ragioni fiscali (lì le tasse sugli utili sono al 12,5%) ma gestita dalle Bermuda, dove gli utili non sono tassati per niente. Google Ireland Holdings ha a sua volta dato questa attività in licenza a una società sempre del gruppo ma stavolta con sede in Olanda (dove certe audaci manovre fiscali sono permesse, a prezzi da concordare con l’autorità). La società olandese ha poi passato la licenza a Google Ireland Ltd, la vera base europea del gruppo, che raccoglie tutte le entrate della pubblicità venduta in Europa. Buona parte del denaro incassato da Google Ireland Ltd passa come royalty alla società olandese e quindi viene trasferito alle Bermuda. Col risultato che dei 12,5 miliardi di euro che Google ha fatturato nel 2011 attraverso la pubblicità venduta in Europa 9 miliardi sono andati in spese amministrative (comprese le royalty) e alla fine l’utile prima delle tasse si è fermato a 24 milioni di euro. Roba da media azienda.
Google Italy srl ha invece bilanci da piccola azienda: ha chiuso il 2011 con 40,7 milioni di euro di fatturato e utili per 3,3 milioni . All’Erario sono andati 1,8 milioni. Lo Stato incassa di più da un attaccante medio di serie A. Le cifre del bilancio sono uscite su un’inchiesta sul fisco dei colossi della Silicon Valley (sono organizzate più o meno come Google anche la Apple o Amazon) pubblicata sul magazine <+corsivo>Sette<+tondo> a metà novembre. Da quell’indagine giornalistica emerge che Google Italy Srl ha circa il 50% del mercato italiano della pubblicità on line, cioè un giro d’affari di 600 milioni di euro. Però è quasi tutto denaro fatturato direttamente in Irlanda, e quindi inserito in quel circolo che lo fa passare dall’Olanda e arrivare alle Bermuda.
Sollecitato a fare qualcosa proprio da uno dei giornalisti all’origine dell’inchiesta italiana Passera ha promesso che si sarebbe mosso. Tre giorni dopo Stefano Graziano, deputato del Pd, ha presentato un’interrogazione sulla vicenda alla commissione Finanze della Camera e ieri Vieri Ceriani, sottosegretario all’Economia, ha risposto annunciando l’indagine avviata dalla Finanza. In Francia, secondo indiscrezioni, il governo per un caso quasi identico ha chiesto alla società 1 miliardo di euro. L’esito delle verifiche italiane non è scontato: le cifre citate dal sottosegretario – 96 milioni di euro di Iva che Google non avrebbe pagato sui 240 milioni incassati in Italia tra il 2002 e il 2006 – si riferiscono una simile indagine completata dalla Finanza nel 2007 ma di cui ancora non si conosce il risultato definitivo. L’azienda è tranquilla: «Google – ha comunicato ieri – rispetta le leggi fiscali in tutti i Paesi in cui opera e siamo fiduciosi di rispettare anche la legge italiana. Continueremo a collaborare con le autorità competenti». Lo aveva ammesso lo stesso Passera: in queste aziende quando si tratta di fisco «sono veramente bravi, anche se non riesco a usare la parola bravi per chi evade le tasse...».
da Avvenire

martedì 27 novembre 2012

Le stime sul Pil italiano

Le previsioni sul  Pil dell'Italia, rispettivamente per il 2012 e il 2013:

Ocse:   -2,2 e -1%
Tesoro: -2,4% e -0,2%
Bankitalia: -2,4% e -0,7%
Commissione Ue: -2,3% e -0,5%
Fmi: -2,3% e -0,7%
Istat: -2,3% e -0,5%
Confindustria: -2,4% e -0,6%
Abi: -2,4% e -0,4%

Dietro la chiusura di Ft Deutschland


Il Financial Times Deutschland in 12 anni ha accumulato un passivo di 250 milioni di euro. Ultimamente diffondeva 102 mila copie, il 16% in meno rispetto a un anno fa. Di queste 46 mila erano distribuite da Lufthansa ai passeggeri, 46 mila andavano ad abbonati (quasi tutti studenti che avevano il giornale a prezzi ridotti o aziende che lo avevano gratis). Ha detto il direttore Steffen Klusmann: «Abbiamo trascurato internet, e non puntato sul giornalismo di qualità. Servono giornalisti preparati e indipendenti»

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venerdì 23 novembre 2012

I numeri dei buoni pasto in Europa

"Edenred, (quotata a Parigi, nel 2011 ha emesso 15,2 miliardi di euro in buoni pasto), BuonChef (marchio di RistoChef di Milano, 70.000 esercizi affiliati in Italia); Ristomat (divisione di Compass Group Italia che a sua volta fa capo a Mediobanca); Sodexo (gruppo francese di servizi per aziende con un giro d'affari di oltre 16 miliardi di euro ad agosto del 2011) e Day Ristoservice servizi Buoni Pasto (società bolognese con un fatturato di oltre 442 milioni di euro al 2010, nata nel 1987 dall'alleanza tra il Gruppo Camst e il gruppo francese Chèque Déjeuner); e Bluticket, divisione buoni pasto del gruppo CirFood della galassia delle cooperative emiliane."
da Italia Oggi

giovedì 22 novembre 2012

Le assunzioni spagnole di Renault

Per assumere 1.300 nuovi operai nella fabbrica di Palencia alla quale affidare due nuove piattaforme la Renault ha ottenuto dai sindacati spagnoli: far lavorare gli operai nei giorni festivi, se necessario; una giornata lavorativa di 7 giorni; aumenti di salario inferiori all'inflazione; la possibilità di fare contratti di 18 mesi; stipendi dei nuovi assunti inferiori (di circa un quarto)  a quelli dei vecchi lavoratori. "Non gli chiediamo di essere competitivi rispetto ai cinesi o ali indiani - ha spiegato il ceo Carlo Tavares - ma di essere competitivi con la nostra attività in altre regioni". Con 2,4 milioni di auto costruite nel 2010 la Spagna è il secondo produttore d'Europa, dietro la Germania (5,9 milioni di auto) e davanti alla Francia (2,2 milioni).

Benzina e tasse - un aggiornamento


Certi italiani, probabilmente quelli che ci badano meno, alla fine dell’estate erano arrivati a pagare 2 euro per avere un litro di benzina. Tra fine agosto e inizio settembre applicavano questo prezzo strabiliante le stazioni di rifornimento più piccole, vecchie e rigorosamente senza il fai-da-te. Un pieno sotto i 2 euro al litro, in realtà, è sempre stato disponibile in ogni città d’Italia. In queste settimane chi dà un’occhiata attenta ai listini dei distributori prima di entrarci può trovare benzinai che vendono la verde a 1,7 euro al litro, o anche a meno, e il gasolio attorno agli 1,65 euro al litro.
Con la benzina funziona così: quando il prezzo sale fa molto rumore, quando scende se ne parla appena. Dalle rilevazioni del ministero dello Sviluppo economico – l’ultima è del 19 novembre – emerge che il prezzo medio della benzina negli ultimi tre mesi è sceso di 15 centesimi, da 1,89 a 1,74 euro al litro, quello del gasolio è calato della metà, da 1,78 a 1,70 euro al litro. Queste diminuzioni si spiegano con il miglioramento del cambio tra euro e dollaro e un calo delle quotazioni internazionali. Non tanto quelle del petrolio grezzo – il Brent europeo è sempre attorno ai 115 dollari al barile – quanto quelle del Platts, il mercato su cui si scambiano i prodotti raffinati. Su questa piattaforma il prezzo della benzina in euro è sceso dalla media di 67 centesimi al litro di agosto ai 55 centesimi attuali, quello del gasolio è passato da 68 a 63 centesimi al litro. Anche a guardare lo “stacco”, cioè la differenza tra il prezzo della benzina in Italia e la media europea, al netto delle tasse, la tendenza è positiva: sia per la benzina che per il gasolio siamo attorno ai 2,5 centesimi al litro, cioè sotto i 4 centesimi considerati “strutturali”.
Ma ne ha di strada da scendere, la benzina, prima di tornare a valori sensati. Nei 27 Stati dell’Unione europea la verde costa in media 1,61 euro al litro, il gasolio 1,46, cioè rispettivamente 15 e 24 centesimi in meno dei prezzi italiani, che sono entrambi al secondo posto nella classifica europea. Tutta colpa delle tasse, mostruosamente salite dal 2011 ad oggi fino a pesare più di 1 euro su un litro di benzina e 91 centesimi su un litro di gasolio. Nessun Paese della zona euro tassa i carburanti come l’Italia. Nell’intera Unione europea, e solo per l’effetto cambio, solo il fisco inglese è più esoso del nostro. L’ultimo aumento, subdolo, è nella legge di stabilità, con una norma che rende stabile il rincaro delle accise dicirca 4 centesimi al litro introdotto in agosto per finanziare la ricostruzione delle zone terremotate dell’Emilia. Doveva durare fino a fine anno, invece - come è successo fin dai tempi della guerra di Abissinia - resterà per sempre. In questo contesto l’unico che ci guadagna è lo Stato: nei primi 10 mesi dell’anno, calcolano dal Centro studi promotor, i consumi di carburanti sono scesi del 10% (a 32,8 miliardi di litri), la cifra spesa dagli italiani per fare il pieno è però aumentata del 6,9% (a 56,8 miliardi) e l’incasso dell’erario ha segnato un +15,5%, a 26 miliardi di euro.
I benzinai sono infuriati, ed è difficile non capirli. Già fanno un’attività a bassissimo margine, dato che guadagnano in media 3-5 centesimi ogni litro venduto (gli utili grossi, nella filiera del petrolio, si fanno ormai solo con i pozzi), adesso stretti tra le pressioni del fisco e quelli delle compagnie rischiano di fallire uno dopo l’altro. Non si oppongono al piano di riduzione della rete di distribuzione, troppo grande e costosa, ma non vogliono stare zitti mentre vengono soffocati. Ieri le organizzazioni dei gestori Faib Confesercenti, Fegica Cisl e Figisc/Anisa hanno annunciato che spegneranno le pompe dal 12 al 14 dicembre e per una settimana, a fine mese, non accetteranno i pagamenti con le carte di credito. Accusano il governo di non avere mantenuto le promesse fatte questa estate e le compagnie petrolifere di non rinnovare gli accordi collettivi. Il governo, per convincerli a rinunciare alla protesta, ha convocato un tavolo per il 4 dicembre. Un taglio di quelle tasse che pesano per più della metà di ogni pieno, però, sembra improbabile.
da Avvenire di oggi

I problemi del petrolio iracheno


La produzione di petrolio dell’Iraq, ha scritto l’Aie – l’Agenzia internazionale dell’energia – nel suo recente “Special Report” dedicato a Baghdad, raddoppierà in 8 anni: passerà dai 3,2 milioni di barili quotidiani di oggi a oltre 6 milioni di barili nel 2020. L’Aie – che cura gli interessi energetici dei Paesi dell’Ocse – non lo scrive, ma il governo iracheno due anni fa prevedeva per il 2020 una produzione di 12 milioni di barili al giorno. Non sorprende che i vecchi obiettivi siano stati così rapidamente abbandonati: con il passare degli anni l’Iraq sta regalando molte delusioni alle compagnie petrolifere.
Chi ha vinto la corsa all’oro nero iracheno iniziata subito dopo la fine della guerra sta valutando che fare con gli enormi giacimenti di quella terra, sotto la quale, secondo le stime più ottimistiche, riposano 200  miliardi di barili di greggio. I problemi emersi in questo decennio sono tanti. Le infrastrutture per trasportare e accumulare il greggio, che hanno avuto pochissimi investimenti negli anni di Saddam, sono in pessimo stato e migliorano troppo lentamente. Le leggi che regolano il settore petrolifero, basate sulla Costituzione del 2005, sono vaghe e si prestano a troppe interpretazioni diverse. La burocrazia è asfissiante e la corruzione impera: l’Iraq è al 175° posto tra le 182 nazioni nella classifica della corruzione preparata da Transparency International e secondo l’ultimo rapporto dell’ispettore generale speciale degli Stati Uniti per la ricostruzione ogni giorno 800 milioni di dollari lasciano l’Iraq illegalmente per essere nascosti all’estero.
«L’Iraq è un mondo meraviglioso per chi si occupa di idrocarburi, ma faccio un po’ fatica a dire che va tutto bene» ha ammesso Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, alla presentazione del rapporto dell’Aie. L’Eni in Iraq si è aggiudicata nel 2008 il giacimento di Zubair, il terzo più interessante del Paese dopo Rumaila, finito agli inglesi di British Petroleum, e West Qurna I, aggiudicato agli americani di ExxonMobil. Il manager veneto ha fatto capire che difficilmente l’azienda italiana parteciperà alle prossime aste organizzate dal governo di Baghdad: «Ci stiamo proprio ponendo la questione se insistere in un Paese che si è rivelato più complesso di quello che immaginavamo. Avessimo avuto  più soddisfazione dal duro lavoro nel Paese non ci porremmo il problema».
Exxon il problema se lo è già posto e lo ha anche risolto, decidendo di andarsene. La compagnia americana ha messo in vendita i suoi diritti su West Qurna – un progetto da 50 miliardi di euro – per potere investire senza problemi nella regione autonoma del Kurdistan, nel Nord del Paese. È stato il governo iracheno a spingerla ad andarsene: Baghdad infatti ha dato l’aut aut, chi fa contratti con il governo della regione autonoma (accordi illegali, secondo Baghdad) non potrà lavorare anche in Iraq. La questione, ovvio, verte sui soldi. Il governo autonomo del Kurdistan vuole che le royalties del petrolio trovato sui suoi giacimenti vadano alla sua gente, Baghdad invece ha scritto nella Costituzione che il denaro del petrolio va diviso tra tutta la popolazione irachena. Con 23 trivellazioni in corso e 50 contratti già firmati tra le compagnie e il governo autonomo l’area del Kurdistan è una delle più promettenti del mondo: l’obiettivo è portare la produzione a 1 milione di barili nel 2014 e a 2 nel 2019. A settembre i due governi avevano trovato un accordo: il Kurdistan avrebbe prodotto 200 mila barili al giorno da ottobre in cambio di mille miliardi di dinari (circa 670 milioni di euro). Poche settimane dopo il pagamento dei primi 650 miliardi, però, Baghdad ha accusato i curdi di non essere in grado di mantenere la produzione al livello concordato, ha annullato l’intesa e ha dato il suo aut aut.
Exxon, che pure aveva in Iraq un giacimento colossale, ha scelto i curdi; poco dopo l’ha seguita anche Chevron. Total potrebbe farlo presto. Il fatto è che il governo del Kurdistan offre contratti molto più redditizi di quello di Baghdad. Eni non ha intenzione di muoversi, almeno per ora. La fuga degli occidentali in Kurdistan lascia spazio a compagnie asiatiche in cerca di fortuna in Iraq: in corsa per il giacimento che Exxon lascerà ci sono la russa Lukoil, che già ha West Qurna II, e la cinese Cnooc, che in Iraq ha un giacimento di media grandezza. E l’ultima asta per le esplorazioni organizzata da Baghdad si è conclusa con la vittoria delle russe Lukoil e Bashfnet, della Pakistan Petroleum e della Kuwait Energy. Compagnie di seconda fascia, con tecnologie non all’altezza di quelle dei rivali americani ed europei, e quindi meno capaci di sfruttare i giacimenti iracheni. A forza di burocrazia, liti internee corruzione, l’Iraq rischia così di perdere clamorosamente la scommessa più importante e più facile, quella sull’oro nero, da cui arrivano il 95% delle entrate del Paese.
da Avvenire di oggi

martedì 20 novembre 2012

La febbre delle banche italiane

Alcuni dei numeri dell'ultimo rapporto Moneta e Banche della Banca d'Italia:

  • Nei primi 9 mesi del 2012 il credito delle imprese è diminuito di 38 miliardi di euro, cioè del 4,2%, in confronto con un anno fa.
  • I depositi in banca valgono 2.340 miliardi, i prestiti concessi 2.860 miliardi.
  • Le prime 33 banche devono trovare 78 miliardi di euro per rimborsare i bond che scadono il prossimo anno.
  • Le prime 4 banche italiane hanno crediti deteriorati per 166 miliardi di euro

lunedì 19 novembre 2012

I problemi di Desertec

Il progetto Desertec, quello che prevede di produrre energia elettrica con centrali solari nell'Africa del Nord, perde pezzi. A fine ottobre è uscita Siemens, poi ha lasciato anche Bosch. Costi troppo alti e progetti troppo rischiosi, dicono. La Spagna, poi, non ha firmato il progetto di connessione della rete elettrica con il Marocco. A tre anni dall'avvio del progetto ancora non è stato realizzato nulla.

sabato 17 novembre 2012

Wind Jet contro Alitalia


Agli inizi di agosto, quando dopo 7 mesi di negoziato la trattativa per la fusione di Wind Jet in Alitalia stava per fallire, i dirigenti del vettore siciliano hanno tirato fuori la loro verità: l’ex compagnia di bandiera, dicevano, da mesi stava sostanzialmente gestendo la società di Antonino Pulvirenti, per questo adesso non poteva fare saltare il tavolo e lasciarla fallire. Invece il tavolo è saltato davvero e il 13 agosto Wind Jet ha smesso di volare lasciando a terra 300 mila passeggeri.
Nella concitazione di quei giorni questa versione dei fatti è rimasta in secondo piano. Torna d’attualità adesso perché qualche giorno fa – come ha rivelato ieri il quotidiano La Sicilia e come è stato confermato dal vettore siciliano – Wind Jet ha consegnato al Tribunale di Catania un atto di citazione in cui spiega la vicenda nei dettagli e finisce col chiedere ad Alitalia 162,5 milioni di danni. La cronaca di questa trattativa ha dettagli che, se fossero confermati, sarebbero stupefacenti: manager di Alitalia che usavano delle email non aziendali per inviare ai colleghi di Wind Jet le indicazioni sulle strategie commerciali da adottare, si firmavano con dei soprannomi e chiedevano di cancellare i messaggi una volta letti. In questi testi inusuali, sostiene Wind Jet, c’erano istruzioni cruciali per la gestione della compagnia: prezzi, rotte, numero di posti da offrire, chiusure di rapporti contrattuali con i fornitori. Addirittura l’assunzione di 6 piloti di Alitalia al posto di 6 colleghi di Wind Jet a cui scadeva il contratto. I manager siciliani si sono fidati, ritenendo che adeguarsi fosse comunque utile visto che la trattativa sembrava destinata a una sicura intesa. L’accordo invece non arriverà: il 26 luglio l’Antitrust pone per la chiusura dell’operazione condizioni che Alitalia giudica troppo costose, la trattativa si guasta e a inizio agosto salta definitivamente. A Wind Jet sembrano convinti che fosse tutta una strategia per farli fallire e quindi rubargli i passeggeri. Nel documento consegnato ai giudici parlano di «concorrenza sleale per annientamento».
È per capire cosa sia successo davvero che lo scorso 7 novembre gli agenti della Guardia di Finanza sono andati nel quartier generale di Alitalia per ritirare alcuni documenti. Le fiamme gialle hanno perquisito anche gli uffici di Wind Jet, in un’indagine parallela, sempre al Tribunale di Catania, sulla contabilità dell’azienda di Pulvirenti. Alitalia comunica di non avere ricevuto nessun ricorso, giudica «completamente prive di fondamento le tesi di Wind Jet e comunque confida nella magistratura per un accertamento della correttezza del suo operato».
Nell’aeroporto Fontanarossa di Catania – il primo della Sicilia e la base della vecchia Wind Jet (che con i suoi 3 milioni di passeggeri aveva un quarto del mercato aereo siciliano e un terzo di quello dell’area catanese) – lo spazio vuoto lasciato dal vettore locale è già stato quasi tutto riempito. Il vettore sardo Meridiana ha aperto rotte su Torino, Verona, Bologna e Napoli e aumentato i voli su Milano e Roma (le tratte più preziose). Alitalia ha potenziato le rotte per Roma e Linate e ha fatto di Catania la quarta base di Air One, con due Airbus A320 che da qualche settimana la collegano anche a Torino, Verona e Venezia. Air One ha anche aumentato i voli sulle vecchie destinazioni di Pisa e Malpensa. I dirigenti dell’aeroporto catanese sperano di riuscire a portare al Fontanafredda qualche vettore low cost che porti più concorrenza nei voli su Roma.
da Avvenire di oggi

venerdì 16 novembre 2012

Il mercato aereo della Sicilia orientale


Se Wind Jet è una compagnia aerea mezza fallita non è perché le mancavano i passeggeri. Quello che mancava all'azienda di Antonino Pulvirenti è piuttosto quello che attualmente manca a tutte le altre compagnie aeree italiane: la capacità di chiudere i bilanci in attivo. I passeggeri non sono il problema,
perché quelli abbondano: sono stati 148 milioni nel 2011, il 6,4% in più di quelli del 2010. Anche nella prima metà di un anno difficile come questo 2012 il traffico aereo italiano non è diminuito: 69 milioni di passeggeri
tra gennaio e giugno, lo 0,2% in più rispetto a un anno fa. Con i suoi 3 milioni di passeggeri all'anno Wind Jet si era guadagnata una quota ridotta  del mercato nazionale, ma una fetta importante di un'area preziosa come
la Sicilia, che vale più di 13 milioni di passeggeri. L'aeroporto Fontanarossa di Catania, che era la base di Wind Jet, con i suoi 6,7 milioni di passeggeri è il 6° più trafficato di Italia. Palermo, con 5 milioni di passeggeri, è il 9°, mentre si sta facendo spazio Trapani: la base siciliana di Ryanair nel 2011 ha raggiunto gli 1,5 milioni di passeggeri. Adesso che la compagnia di Pulvirenti ha mandato gli aerei chissà dove per proteggerli dalle ambizioni dei creditori, i vettori rivali hanno l'opportunità di andare a riempire lo spazio rimasto vuoto, che vale più o meno 2 milioni di passeggeri.
Le rotte più preziose sono Catania-Roma (1,8 milioni di passeggeri nel 2011), Catania-Milano e Palermo-Roma (entrambe 1,5 milioni di passeggeri) e Palermo-Milano (1 milione). In tutti e quattro i casi è Alitalia a dominare il mercato, con quote che vanno da un minimo del 40 a un massimo del 58%. Non è un caso che l'Antitrust abbia chiesto pesanti rinunce alla ex compagnia di bandiera nel suo progetto di assorbimento di Wind Jet: nei casi migliori l'operazione avrebbe dato ad Alitalia il 65% del mercato di una tratta, ma ci sono rotte (come la preziosa Palermo-Linate) dove la ex compagnia di bandiera avrebbe avuto il 98%. L'altro 2% sarebbe rimasto a Meridiana. E infatti proprio la compagnia dell'Aga Kahn è in prima fila per coprire
lo spazio lasciato vuoto da Wind Jet.
Ma ci sono gruppi molto più potenti che potrebbero cogliere l'occasione di raccogliere altro denaro in Sicilia. Sono le famigerate regine del "low cost", che spaventano molto Vito Riggio, il presidente dell'Enac, ma riescono a offrire voli a prezzi contenuti combinandoli a bilanci in attivo. Ryanair, diventata la più grande compagnia aerea d'Europa, in questo momento raggiunge solo la Sicilia occidentale: 30 rotte da Trapani e 12 da Palermo. Il vettore irlandese potrebbe essere interessato a volare anche su Catania, per allargarsi alla Sicilia orientale. Il problema è che nel modello di business di Ryanair è quasi sempre previsto che lo scalo raggiunto dalla compagnia low cost "contribuisca" alle spese.
È un modo di gestire una linea aerea che funziona bene dove gli aeroporti non hanno traffico e, per le esigenze turistiche degli enti locali, che sono anche i loro azionisti, hanno bisogno di attirare passeggeri. Ma questo non è il caso di Catania e Palermo, che sembrano avere già un loro traffico "naturale". Stephen McNamara, portavoce della compagnia irlandese, è possibilista: «Il nostro scheduling (orario, ndr) invernale è ormai completo, continueremo a lavorare con gli aeroporti siciliani per discutere di crescita». L'altra
grande low cost, l'inglese easyJet, funziona diversamente: non chiede soldi agli aeroporti e predilige gli scali principali. In Sicilia ha già una presenza solida: ha il 28% del mercato sulla Palermo-Milano, il 19% sulla Catania-Milano, il 17% sulla Palermo-Roma. Contattata per verificare il suo interesse, easyJet non ha risposto. Ma all'Antitrust il vettore inglese aveva spiegato che le sarebbe interessato aprire rotte da Catania verso Bologna, Pisa, Venezia e Torino, tratte "minori" che valgono tutte assieme un po' meno di un milione di passeggeri e sulle quali, salvo Bologna, un'alleanza tra Alitalia e WindJet avrebbe creato una situazione di monopolio.
Per ora, comunque, gli slot di Wind Jet, cioè i diritti di decollo e atterraggio collegati a determinati orari, sono ancora in mano alla compagnia di Pulvirenti che evidentemente spera di venderli prima che, fra 6 mesi, cadano per il mancato uso e tornino in gioco. Quelli su Linate, in particolare, sono molto preziosi, perché l'aeroporto di Milano è "pieno" e quindi chiuso a qualsiasi nuovo ingresso. Chi riuscisse a comprare quegli potrebbe garantirsi molto del traffico lasciato "orfano" dalla compagnia.
               
da Avvenire del 19 agosto 2012
                                                                     

giovedì 8 novembre 2012

Il petrolio iracheno delude. Piace il Kurdistan

Il petrolio iracheno si sta rivelando una delusione per le compagnie occidentali. Non tanto per i risultati delle esplorazioni (che sono ottimi, con la produzione che secondo la Iea potrebbe raddoppiare in 8 anni) quanto per le complicazioni burocratiche. "Se avessimo avuto piu' soddisfazione dal nostro duro lavoro, non ci porremmo nemmeno il tema, perché offrirci per West Qurna o per Nassiriya sarebbe stato una scelta ovvia, ma ci stiamo domandando se aumentare il nostro impegno in un Paese si è rivelato più complesso di quello che immaginavamo" ha detto qualche giorno fa l'Ad dell'Eni Paolo Scaroni. Ed è notizia di ieri che la Exxon è in cerca di qualcuno a cui vendere la sua fetta del progetto West Qurna-1 (un giacimento da 400 mila barili al giorno) lamentandosi di condizioni contrattuali poco favorevoli e infrastrutture pessime. Exxon preferisce lavorare in Kurdistan (e Baghdad, che non riconosce quel Paese, non permette di lavorare sui suoi giacimenti a chi collabora con il Kurdistan). I curdi (che oggi producono 100 mila barili al giorno ma possono crescere a 175 mila già quest'anno) rischiano di portare via agli iracheni parecchi compagnie. Si mormora di Chevron e della stessa Eni. Anche i turchi di Tpao sono stati allontanati dall'Iraq perché la Turchia sta stringendo legami troppo stretti con i curdi.

mercoledì 7 novembre 2012

Gli utili della Kfw per cancellare il debito pubblico tedesco

La coalizione cristiano-liberale che governa sulla Germania sta valutando se usare la Kreditanstalt fur Wiedeaufbau (la KfW, la Cassa depositi e prestiti tedesca) per acquistare debito pubblico. L'idea, su cui secondo il Foglio ci sarebbe già un accordo, è quella di considerare come entrate gli utili della KfW (2,6 miliardi nel 2011). Visto che i conti della Kfw non rientrano nella contabilità nazionale questa mossa farebbe sparire dai conti tedeschi fette di debito pubblico. . 

La crisi della stampa tedesca

La Germania è uno dei paesi europei con il più alto tasso di lettura di libri e giornali. Italia Oggi racconta che le cose stanno però cambiando anche lì: nel 2002 si vendevano 27,5 milioni di quotidiani al giorno, nel 2007 la cifra è scesa a 24,2 milioni e nel 2011 a 21,8. La stima per il primo semestre dell'anno è una perdita di altre 600 mila copie. La tiratura del Bild è passata dai 4 milioni di copie del 2009 ai 3,5 milioni attuali. Lo Spiegel ha ridotto le vendite del 7%, a 262 mila copie.

Il petrolio rischia un brusco calo dei prezzi

Secondo la Us Energy Information Administration la produzione di petrolio degli Stati Uniti raggiungerà gli 11,7 milioni di barili al giorno entro la fine del 2013. Sarebbe l'8,5% in più rispetto ad ora, così gli Usa avrebbero una capacità petrolifera quotidiana vicina a quella dell'Arabia Saudita (che è in grado di produrre 12 milioni di barili al giorno ma oggi ne produce solo 10). Il solo North Dakota produce 700 mila barili al giorno, cioè più dei 500 mila dell'Ecuador e poco meno dei 750 mila barili del Qatar. Come risultato la quota di importazioni sul totale del consumo petrolifero americano l'anno prossimo scenderà sotto il 40% per la prima volta dal 1991. Sono problemi per il cartello dell'Opec, che produce 31 milioni di barili al giorno e vedrà ridursi significativamente la domanda di greggio degli Stati Uniti. L'Opec soffre anche perché la Russia - che non ha intenzione di entrare nel cartello - sta producendo 10,5 milioni di barili al giorno, il 2% in più rispetto a un anno fa e il massimo dagli anni '80.
Leonardo Maugeri, ex manager del'Eni esperto di petrolio, il prezzo del greggio va verso un brusco calo: "In assenza di crisi vere - ad esempio una guerra nel gofo persico o una improvvisa e simultanea interruzione della produzione in diversi paesi produttori -le forze che muovono il mercato petrolifero puntano a un significativo calo dei prezzi".

Solare, nuova crisi in vista

In cinque anni la capitalizzazione complessiva dei primi 5 gruppi mondiali del solare è crollata del 90%. Molte compagnie sono già fallite. "Se c'era qualcosa di sbagliato da fare, l'industria l'ha fatto, dalla sovrapacità al basarsi sui sussidi governativi" (Ft). Secondo le previsioni di Bernstein il prossimo anno il costo per Watt dell'energia solare potrebbe scendere dagli attuali 1,23 dollari ben sotto il dollaro. Un prezzo che renderà questa energia più conveniente del gas nelle zone più assolate della Cina (ma comunque il prezzo per Watt è del 50% superiore a quello del petrolio) ma che porterà al fallimento chi non riesce a stare dietro a certi prezzi.

I mostruosi margini sull'iPad Mini

Questo ottimo schema del Wsj basato su dati Ihs illustra con precisione i costi di produzione del nuovo iPad mini e di 2 prodotti concorrenti. Apple su ogni iPad mini venduto fa un margine del 43%: dei 329 dollari del modello base, 141 sono utili della casa produttrice (presumibilmente con il cambio euro-dollaro vicino a 1,3 l'utile realizzato in Europa è superiore di un 20-30%). La Microsoft conta di fare ancora più profitti con Surface (il margine è del 55%), mentre sul Kindle Fire della Amazon il margine è ridottissimo (17%). Sui modelli più costosi dell'iPad mini il margine cresce: 278 dollari sul modello da 429 dollari (il 32 giga, margine del 65%) e 350 dollari su quello da 529 dollari (il 64 giga, margine del 66%). Considerando che alla conference call del 25 ottobre Peter Oppenheimer, responsabile finanziario del gruppo, ha ammesso che i margini offerti dell'iPad mini sono "significativamente inferiori alla media del gruppo" ci si può rendere conto di come la Apple possa chiudere i bilanci con risultati mostruosamente enormi.



martedì 6 novembre 2012

Apple perde quota nei tablet

L'ultima indagine di Idc dice che la quota di mercato di Apple nei tablet è scesa dal 59,7% di un anno fa al 50,4% dell'ultimo trimestre estivo. Quella di Samsung è salita dal 6,5 al 18,4%. Amazon ha conquistato il 9% del mercato.Asus, con il Nexus 7, è aumentata dal 3,8 all'8,6%.

La brutta crisi della Volvo cinese

Nella prima metà del 2012 la Volvo - acquistata dal 2010 da Zhejian Geely Holding Group - ha perso 254 milioni di corone svedesi (38 milioni di dollari). Le vendite non vanno: nei primi 10 mesi dell'anno sono scese del 5,9% a livello globale, del 10,6% in Europa e del 7,3% in Cina. A ottobre le immatricolazioni sono state 34.843. Le fabbriche di Gent e Torslanda lavorano a ritmi ridotti.

giovedì 1 novembre 2012

Anche per General Motors il problema è l'Europa

General Motors ha perso 478 milioni di dollari in Europa tra luglio e settembre. Le previsioni sono di chiudere il bilancio europeo con una perdita tra gli 1,5 e gli 1,8 miliardi di dollari (l'anno scorso il rosso fu di 747 milioni). Durante il terzo trimestre Opel e i suoi concessionari sono riusciti a ridurre gli inventari di 100 mila auto rallentando la produzione e spingendo le vendite. Opel ha anche tagliato 2.300 posti di lavoro. L'obiettivo è tornare a fare utili tra il 2014 e il 2016.